SENTENZA
N. 103
ANNO
2018
Commento
alla decisione di
Flavio
Guella
"Accordi”
imposti unilateralmente e "transitorietà” rinnovabile all’infinito:
l’inevitabile mal funzionamento della leale collaborazione in un sistema
costruito su categorie ambigue
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Giorgio
LATTANZI
Presidente
-
Aldo
CAROSI
Giudice
-
Marta
CARTABIA
”
- Mario
Rosario
MORELLI
”
-
Giancarlo
CORAGGIO
”
-
Silvana
SCIARRA
”
-
Daria
de PRETIS
”
-
Nicolò
ZANON
”
-
Augusto Antonio
BARBERA
”
-
Giulio
PROSPERETTI
”
-
Giovanni
AMOROSO
”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392 e 392, primo, secondo e terzo
periodo, 394, 527 e 528, della legge
11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019),
promossi dalla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste, dalla Regione Veneto, dalla Provincia
autonoma di Bolzano, dalla Regione autonoma Sardegna, dalla Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, dalla Regione Lombardia, dalla Provincia autonoma di
Trento e dalla Regione Siciliana, con ricorsi notificati il 17-22
febbraio, il 16
febbraio, il 17-22
febbraio, il 16-21
febbraio e il 20
febbraio 2017, depositati in cancelleria il 22, il 23,
il 24,
il 27 e il 28
febbraio 2017 e iscritti rispettivamente ai numeri da 18 a 25 del registro
ricorsi 2017.
Visti gli atti di costituzione del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Francesco
Saverio Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste, Luca Antonini e Andrea Manzi per la Regione
Veneto, Renate von Guggenberg per la Provincia
autonoma di Bolzano, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna, Fabio Cintioli per la Regione Lombardia, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Provincia autonoma di Trento,
Giandomenico Falcon per la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, Marina Valli per la Regione Siciliana, e gli avvocati
dello Stato Gianni De Bellis e Massimo Salvatorelli
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– La Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste,
con ricorso
notificato il 17-22 febbraio 2017 e depositato il 22 febbraio 2017 (reg. ric. n.
18 del 2017), ha impugnato l’art. 1, commi 392 e 394, della legge 11
dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), per
violazione dei seguenti parametri: art. 2, comma 1, lettera a); art. 3, comma
1, lettere f) e l); artt. 4, 12, 48-bis e 50 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta);
artt. 117, terzo
comma, e 119
della Costituzione, «in combinato disposto» con l’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione); normativa di attuazione statutaria di cui alla legge
26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della regione
Valle d’Aosta), «come integrata» dagli artt. 34 e 36 della legge
23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica);
principi costituzionali di leale collaborazione e ragionevolezza, di cui agli artt. 5, 120 e 3 Cost.
1.1.–
La ricorrente espone che le disposizioni impugnate stabiliscono il livello del
finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato
e le modalità attraverso cui le Regioni e le Province autonome concorrono al
medesimo per le quote di loro spettanza, in vista del raggiungimento degli
obiettivi programmatici di finanza pubblica.
Evidenzia che il
comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016 prevede, in particolare, che
«[p]er gli anni 2017 e 2018, il livello del
finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo
Stato, indicato dall’intesa sancita in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
dell’11 febbraio 2016 (Rep. Atti n. 21/CSR), in
attuazione dell’articolo 1, comma 680, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, è
rideterminato rispettivamente in 113.000 milioni di euro e in 114.000 milioni
di euro. Per l’anno 2019 il livello del finanziamento del fabbisogno sanitario
nazionale standard cui concorre lo Stato è stabilito in 115.000 milioni di
euro. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di
Bolzano assicurano gli effetti finanziari previsti dal presente comma, mediante
la sottoscrizione di singoli accordi con lo Stato, da stipulare entro il 31
gennaio 2017».
La ricorrente
illustra, ancora, il contenuto del comma 394 del medesimo art. 1 della legge n.
232 del 2016, a tenore del quale «[c]on i medesimi accordi di cui al comma 392
le regioni a statuto speciale assicurano il contributo a loro carico previsto
dall'intesa dell'11 febbraio 2016; decorso il termine del 31 gennaio 2017,
all’esito degli accordi sottoscritti, il Ministro dell’economia e delle
finanze, di concerto con il Ministro della salute, entro i successivi trenta
giorni, con proprio decreto attua quanto previsto per gli anni 2017 e
successivi dalla citata intesa dell’11 febbraio 2016, al fine di garantire il
conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per il settore
sanitario».
Ricorda che
l’intesa dell’11 febbraio 2016 – menzionata da entrambe le disposizioni
impugnate – è stata adottata in attuazione dell’art. 1, comma 680, della legge
28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», e che tale intesa
ha determinato il fabbisogno del Servizio sanitario nazionale – con l’obbligo
di concorrervi tanto per le Regioni ordinarie che per le Regioni speciali – in
113.063 milioni di euro per l’anno 2017 e in 114.998 milioni di euro per l’anno
2018. Evidenzia, tuttavia, che la menzionata intesa «ovviamente non ha
coinvolto, né poteva, la Regione Valle d’Aosta», rispetto alla quale la
relativa quota di concorso avrebbe dovuto concordarsi (ai sensi del medesimo
art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015) con «apposita e separata intesa
bilaterale».
1.2.– La Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
sottolinea che il comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016 impone una
riduzione del fabbisogno finanziario del Servizio sanitario nazionale, fissando
l’ammontare del finanziamento statale per gli anni dal 2017 al 2019 e
prevedendo, al contempo, che le Regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e di Bolzano assicurino gli effetti finanziari così
determinati, mediante la sottoscrizione di singoli accordi con lo Stato, da
stipulare entro il 31 gennaio 2017. Per l’ipotesi in cui, tuttavia, non si
addivenisse alla stipula degli accordi entro il suddetto termine, la ricorrente
ricorda che il successivo comma 394 del medesimo art. 1 «prevede – o sembra
prevedere, data la sua confusoria formulazione – che
sia il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro
della salute, entro i successivi trenta giorni, ad attuare con proprio decreto
quanto previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016», al fine di garantire
comunque il conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per
il settore sanitario.
La lesione degli
evocati parametri costituzionali e statutari, ad opera delle disposizioni
impugnate, viene individuata, dunque, nell’imposizione alla Regione autonoma
ricorrente, «se del caso, anche in maniera unilaterale», di un concorso alla
riduzione del fabbisogno del Servizio sanitario nazionale.
1.3.– Ricorda la
ricorrente, a tale proposito, che: lo statuto di autonomia le attribuisce
«potestà legislativa piena» in materia di «ordinamento degli uffici e degli
enti dipendenti dalla Regione» (art. 2, comma 1, lettera a), e «quella
d’integrazione e attuazione» in materia di «finanze regionali e comunali»,
nonché in materia di «igiene e sanità, assistenza ospedaliera e profilattica»
(art. 3, comma 1, lettere f e l); nei medesimi ambiti materiali, alla Regione
spetta l’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative (art. 4 dello
statuto di autonomia); alla Regione spetta, oltre al gettito delle entrate
proprie, una quota dei tributi erariali, attribuita dallo Stato, sentito il
Consiglio della Valle (art. 12 dello statuto di autonomia); in attuazione delle
previsioni statutarie, la legge n. 724 del 1994, agli artt. 34 e 36, ha
previsto espressamente che la Valle d’Aosta provveda al finanziamento del
proprio servizio sanitario autonomamente, cioè senza oneri a carico del bilancio
statale.
Alla luce del
descritto quadro normativo, dunque, la ricorrente ritiene che il legislatore
statale non abbia alcun titolo per imporle di partecipare «alla manovra
finanziaria delineata dall’art. 1, commi 392 e 394», della legge n. 232 del
2016.
La Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, infatti, assicura
il finanziamento del Servizio sanitario regionale con risorse gravanti
esclusivamente sul proprio bilancio, sicché eventuali economie di spesa
potrebbero essere destinate solo ad interventi relativi al settore sanitario
regionale, con conseguente illegittimità del «loro storno a favore del Servizio
sanitario nazionale».
A sostegno di tale
conclusione viene richiamata giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 125 del 2015,
n. 187 e n. 115 del 2012,
n. 133 del 2010
e n. 341 del
2009), che dimostrerebbe come l’intervento statale previsto dalle
disposizioni impugnate, oltre a violare i parametri statutari ricordati, si
porrebbe in contrasto con gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost.,
«in combinato disposto» con l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001,
in quanto costituirebbe un esercizio della potestà legislativa concorrente in
materia di coordinamento della finanza pubblica «del tutto destituito di
fondamento competenziale – per il soggetto cui è
rivolto e l’oggetto disciplinato – e lesivo dell’autonomia finanziaria
dell’odierna ricorrente».
1.4.–
Sarebbero, ancora, violati gli artt. 48-bis e 50
dello statuto di autonomia, unitamente, ancora, alle «norme di attuazione
statutaria di cui alle leggi n. 690 del 1981 e n. 724 del 1994» – nonché i
«principi costituzionali di leale collaborazione e ragionevolezza», di cui agli
artt. 3, 5 e 120 Cost.
In particolare, la
legge n. 690 del 1981 – contenente una revisione dell’ordinamento finanziario
della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste – emanata in attuazione dell’art. 50 dello statuto di
autonomia, e per come «integrata» dagli artt. 34 e 36 della legge n. 724 del
1994, pone a carico esclusivo della Regione il finanziamento del Servizio
sanitario regionale e il procedimento di formazione e le modalità di revisione
di tale legge «sono strutturalmente informati al principio di leale
collaborazione», escludendo qualunque «unilateralismo» da parte del legislatore
statale.
La legge n. 690
del 1981, infatti, è stata adottata d’accordo fra lo Stato e la Giunta
regionale (ai sensi dell’art. 50 dello statuto di autonomia) e, in forza della
espressa previsione di cui all’art. 1 del decreto legislativo 22 aprile 1994,
n. 320 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Valle
d’Aosta), può essere successivamente modificata «solo con il procedimento di
cui all’art. 48-bis del medesimo statuto speciale»,
cioè con decreti legislativi elaborati da commissioni paritetiche e previa
sottoposizione al parere del Consiglio della Regione.
Ne deriverebbe –
come sarebbe stato già sancito dalla giurisprudenza costituzionale in relazione
a questioni analoghe (vengono richiamate, ancora una volta, le sentenze n. 125 del 2015
e n. 133 del
2010) – che le disposizioni impugnate sarebbero lesive degli evocati
parametri statutari e costituzionali, laddove «pretendono, al di fuori di ogni
ragionevolezza, di disciplinare unilateralmente aspetti che l’art. 50 dello
Statuto speciale – fonte di grado costituzionale – riserva alla legislazione
attuativa, e più precisamente ad una legge dello Stato adottata in accordo con
la giunta regionale […], suscettibile di successive modifiche solo attraverso i
peculiari moduli concertativi previsti dall’art. 48 bis».
Le violazioni dei
principi di leale collaborazione e ragionevolezza, di cui agli artt. 3, 5 e 120
Cost.,
e delle «prerogative costituzionali e statutarie di cui la ricorrente è
titolare», inoltre, sarebbero «ulteriormente aggravate» dal particolare meccanismo
«suppletivo» di determinazione del livello di concorso previsto dall’art. 1,
comma 394, della legge n. 232 del 2016.
Secondo la Regione
Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste,
infatti, quest’ultima disposizione – che la ricorrente stessa definisce «di non
semplice interpretazione, data la formulazione per nulla perspicua» – parrebbe
prevedere che, in caso di mancato accordo, sia lo Stato (attraverso un decreto
del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con il
Ministro della salute) ad attuare quanto prescritto «per il settore sanitario»
dall’intesa dell’11 febbraio 2016, attraverso la fissazione unilaterale delle
quote di concorso, così estendendo alla Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste «un’intesa che questa non ha sottoscritto», e
che non potrebbe coinvolgerla, in quanto essa non grava sull’erario per il
settore sanitario. Inoltre, sarebbero «del tutto irragionevoli i termini per la
stipula dell’accordo», non potendosi immaginare che una «seria e credibile
trattativa politica, specie su temi così delicati», possa essere intavolata
«nel ristretto margine di circa un mese (dall’entrata in vigore della legge, il
1° gennaio 2017, al termine ultimo per stipulare l’accordo, il 31 dello stesso
mese)».
Il complesso di
queste previsioni, dunque, si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza
costituzionale, secondo cui «il principio di leale collaborazione in materia di
rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni speciali impone la tecnica
dell’accordo» (viene citata la sentenza n. 74 del
2009), in quanto «espressione» della particolare autonomia in materia
finanziaria di cui godono le Regioni a statuto speciale (vengono citate le
sentenze n. 193
del 2012, n.
82 del 2007 e n.
353 del 2004).
1.5.–
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio di
legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia dichiarato non
fondato.
L’Avvocatura
generale dello Stato sostiene che, con l’intesa tra lo Stato e le Regioni
dell’11 febbraio 2016, attuativa dell’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del
2015, sarebbe stato definito, nell’ambito della complessiva manovra di finanza
pubblica a carico delle Regioni – pari a 3.980 milioni di euro per l’anno 2017
e a 5.480 milioni di euro, a decorrere dall’anno 2018 – il «contributo del
settore sanitario», pari rispettivamente a 3.500 e 5.000 milioni di euro, con
conseguente riduzione di pari importo del livello del finanziamento del
Servizio sanitario nazionale.
Poiché le
autonomie speciali (con la parziale eccezione della Regione Siciliana)
provvedono al finanziamento dei servizi sanitari regionali con risorse proprie,
la difesa statale asserisce che la suddetta riduzione non avrebbe garantito i
complessivi effetti finanziari previsti, sicché la medesima intesa dell’11
febbraio 2016 avrebbe previsto la stipula di singoli accordi bilaterali tra lo
Stato e le autonomie speciali, per concordare «la quota di manovra» a carico di
queste ultime, «pena l’applicazione» di una «clausola di salvaguardia» che
avrebbe comportato un’ulteriore riduzione del finanziamento statale del
Servizio sanitario nazionale.
A fronte della
mancata stipula di tali accordi, il comma 394 dell’art. 1 della legge n. 232
del 2016 avrebbe «riaperto il termine per la sottoscrizione di dette intese»,
spostandolo al 31 gennaio 2017 e confermando gli effetti della «clausola di
salvaguardia».
Dal complesso
normativo così ricostruito, la difesa statale deduce che «l’eventuale censura
andrebbe, semmai, riferita alla norma originaria, ovvero all’articolo 1, comma
680, della legge 208/2015».
Sottolinea, però,
che la concreta attuazione della manovra prevista da tale ultima disposizione
sarebbe stata «condivisa dalle regioni e province autonome» proprio con l’intesa
dell’11 febbraio 2016, «inclusa l’automatica applicazione della manovra a
carico delle regioni a statuto ordinario, ed il rinvio a singoli Accordi per
ciascuna Autonomia speciale», sicché sarebbe da escludere la sussistenza di
qualsiasi imposizione unilaterale della manovra e, di conseguenza, il contrasto
con i parametri statutari e costituzionali richiamati dalla ricorrente.
Ad analoghe
conclusioni dovrebbe pervenirsi anche in relazione all’art. 1, comma 392, della
legge n. 232 del 2016, che introdurrebbe «una nuova manovra a carico del
settore sanitario per gli anni 2017, 2018 e 2019». Anche in questo caso,
infatti, mentre l’applicazione alle Regioni a statuto ordinario sarebbe
«garantita dalla riduzione del livello del fabbisogno sanitario standard», per
le autonomie speciali si rinvierebbe «a singoli Accordi con il Governo».
Secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, in particolare, le disposizioni impugnate,
intervenendo sul fabbisogno sanitario ritenuto congruo per l’erogazione dei
livelli essenziali di assistenza in condizioni di appropriatezza ed efficienza,
influirebbero «anche sul livello della spesa sanitaria della ricorrente,
sebbene la stessa non riceva finanziamenti specifici per la funzione
sanitaria».
Ricorda, a questo
proposito, la difesa statale che il finanziamento del Servizio sanitario
nazionale «è calcolato su base nazionale (in quanto destinato a funzioni
soggette al rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni)», sicché, a fronte
di una riduzione del finanziamento erariale per il comparto delle Regioni a
statuto ordinario, sarebbe previsto «che anche le Autonomie speciali realizzino
un risparmio».
Anche le autonomie
speciali, infatti, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata
dall’Avvocatura generale dello Stato (sono citate le sentenze n. 127 del 2015,
n. 193 e n. 148 del 2012),
potrebbero essere obbligate a partecipare agli obiettivi di risanamento della
finanza pubblica generale, al fine di rispettare i vincoli di bilancio imposti
dall’Unione europea, mediante l’imposizione di misure, quali quelle di cui si
discute, concordate ed aventi carattere transitorio (sono richiamate le
sentenze n. 127
del 2016, n.
19 del 2016 – recte: 2015 –, n. 99 del 2014,
n. 193 e n. 118 del 2012).
2.– La
Regione Veneto, con ricorso
notificato il 16 febbraio 2017 e depositato il 23 febbraio 2017 (reg. ric. n.
19 del 2017), ha impugnato, tra gli altri, i commi 392, 527 e 528 dell’art.
1 della legge n. 232 del 2016.
Il comma 392, in
particolare, è censurato per violazione degli artt. 3, 32, 97, 117, terzo comma, 118 e 119 Cost.
e del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.,
nonché dell’art. 5, comma 1, lettera g), della legge
costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di
bilancio nella Carta costituzionale), dell’art. 11 della legge
24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del
pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della
Costituzione) e dell’art. 5, comma 1, della legge
5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in
attuazione dell’articolo 119 della Costituzione).
Il comma 527, a
sua volta, è denunciato per contrasto con gli artt. 3, 117, secondo e terzo
comma, e 119 Cost. nonché per violazione
del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
Infine, il comma
528 è censurato per violazione dell’art. 119 Cost.
2.1.–
Con riferimento, in particolare, all’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del
2016, la ricorrente evidenzia che tale disposizione prevede una riduzione,
rispetto a quanto stabilito nell’intesa sancita l’11 febbraio 2016 dalla
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, del livello di finanziamento del fabbisogno
sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato.
L’accordo citato,
infatti, aveva previsto, in attuazione dell’art. 1, comma 680, della legge n.
208 del 2015, un livello di finanziamento pari a 113.063 milioni di euro per il
2017 e a 114.998 milioni di euro per il 2018.
2.1.1.– Tale
livello di finanziamento viene ora rideterminato in 113.000 milioni di euro per
il 2017 e in 114.000 milioni di euro per il 2018 (mentre viene fissato a
115.000 milioni di euro per il 2019), sicché la Regione Veneto si duole della
riduzione, per il biennio 2017-2018, pari a circa un miliardo di euro, senza
che sia stata prevista o attuata una nuova intesa con le Regioni, a fronte di
«una prassi» – che la ricorrente giudica conforme al riparto costituzionale
delle competenze in materia di tutela della salute e «allo schema
costituzionale che ne governa il finanziamento» – invalsa fin dall’anno 2000 e
incentrata, per la determinazione del fabbisogno sanitario nazionale standard,
su «un sistema di accordi tra Stato e Regioni» (i cosiddetti Patti per la
salute), recepiti annualmente in disposizioni di legge, in considerazione del
fatto che la responsabilità dell’erogazione dei servizi sanitari ricade sulle
Regioni, costituendo la voce prevalente (pari all’incirca all’80 per cento del
totale, a giudizio della ricorrente) dei rispettivi bilanci.
Tale prassi,
secondo la ricorrente, sarebbe stata «completamente disattesa» con la
disposizione impugnata (e prima ancora, per altri aspetti, derogata con la
legge n. 208 del 2015). Non essendosi concluso, in sostituzione dell’ultimo
ormai scaduto, un Patto per la salute per il triennio 2017-2019, la norma
censurata perverrebbe, «per la prima volta nella legislazione italiana
dell’ultimo quindicennio», alla determinazione unilaterale da parte statale,
«senza nessuna forma di intesa, accordo o patto», del livello di finanziamento
del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato. Ciò è
accaduto nonostante il fatto che la competenza in materia di «tutela della
salute», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., sia di tipo
concorrente e costituisca «il principale settore dell’azione legislativa,
amministrativa e anche fiscale delle Regioni» e nonostante sia di carattere
concorrente anche la competenza relativa al coordinamento della finanza
pubblica, in quanto «anche ai sensi dell’art. 119, II comma, Cost. lo Stato, infatti, deve
limitarsi alla fissazione dei principi fondamentali».
In definitiva, per
la Regione ricorrente, la mancanza di un accordo, «o comunque la violazione
unilaterale dell’intesa sancita in data 11 febbraio 2016», si porrebbe «in
radicale contrasto con gli artt. 5 e 120 Cost.» e, in
particolare, «con i criteri stabiliti» dalla sentenza n. 251 del
2016 della Corte costituzionale.
Verrebbe in
rilievo, infatti, non già «una misura di contenimento della spesa regionale generica»,
cui applicare «semplicisticamente» i criteri elaborati dalla giurisprudenza
costituzionale sulla prevalenza della funzione di coordinamento della finanza
pubblica, bensì una riduzione della spesa «relativa a quella particolarissima
materia che è la tutela della salute», rispetto alla quale, a parere della
ricorrente, il legislatore statale sarebbe tenuto al pieno rispetto del
principio di leale collaborazione, con la previsione di «adeguati strumenti di
coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze».
L’intesa
s’imporrebbe, «in un ambito particolarissimo come quello considerato, pena il
venir meno di ogni sostanziale contenuto dell’autonomia regionale, data la
rilevanza quantitativa e qualitativa che la materia tutela della salute assume
nel sistema regionale».
2.1.2.– Secondo la
ricorrente, peraltro, la norma impugnata difetterebbe di un’adeguata
istruttoria sulla «sostenibilità del definanziamento»
(in violazione quindi degli artt. 3 e 97 Cost.) e
sull’adeguatezza delle risorse stanziate, essendo mancato un adeguato confronto
preventivo con le Regioni, chiamate a garantire sui territori, «tramite i
propri modelli organizzativi e la propria programmazione», il diritto alla
salute di cui all’art. 32 Cost, il quale ultimo
verrebbe, così, compromesso e «degradato» sullo stesso piano di altri
interessi. E ciò in contrasto con quanto sarebbe stato affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 275 del
2016, secondo cui dovrebbe essere «la garanzia dei diritti incomprimibili
ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la
doverosa erogazione».
A riprova di
quanto sostenuto, la Regione Veneto evidenzia che la norma impugnata determina
una contrazione delle risorse a fronte di un aumento delle prestazioni da
erogare in conseguenza della definizione dei nuovi livelli essenziali di
assistenza (d’ora in avanti: LEA) e riduce il previsto livello di finanziamento
della principale competenza attribuita alle Regioni, sia in termini assoluti,
sia rispetto al tasso «tendenziale di crescita» programmato dal Documento di
finanza pubblica (DEF) per il 2014 (in cui si
prevedevano 118,680 miliardi di euro per il 2017 e 121,316 miliardi di euro per
il 2018).
L’esercizio della
funzione statale di coordinamento della finanza pubblica, dunque, sarebbe
avvenuto anche in violazione «del canone generale della ragionevolezza e
proporzionalità dell’intervento normativo» (viene richiamata la sentenza n. 22 del
2014), perché, «d’un tratto, senza adeguata preventiva concertazione e
senza che sia intervenuto alcun processo di riorganizzazione sostanziale delle
funzioni assegnate alle Regioni», sarebbe stato rideterminato il livello di
finanziamento statale.
L’art. 3 Cost. risulterebbe violato anche
«sotto il principio dell’eguaglianza sostanziale a causa dell’evidente
pregiudizio al godimento dei diritti conseguente al mancato finanziamento dei
relativi servizi» (viene richiamata la sentenza n. 10 del
2016).
La descritta
violazione degli artt. 3, 97 e 32 Cost., secondo la ricorrente, ridonderebbe in «una ingente
compromissione dell’autonomia regionale nell’ambito, quello della tutela della
salute, che, in termini quantitativi, maggiormente impegna l’azione legislativa
e amministrativa regionale».
2.1.3.– Verrebbe
in rilievo, peraltro, una riduzione «di carattere sostanzialmente permanente»,
in contrasto con quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale in ordine al carattere necessariamente transitorio delle norme
che impongono obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica (vengono citate
le sentenze n.
65 del 2016, n.
218 e n. 189
del 2015, n.
44 del 2014, n.
236 e n. 229
del 2013, n.
217, n. 193
e n. 148 del
2012, n. 182
del 2011).
2.1.4.– Tale riduzione, inoltre, sarebbe stata attuata – ancora una volta in
violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost. – con «un taglio meramente lineare sul comparto
regionale genericamente considerato» e, quindi, senza alcuna considerazione né
dei costi standard di cui agli articoli da 25 a 32 del decreto legislativo 6
maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni
a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei
fabbisogni standard nel settore sanitario), né dei livelli di spesa di Regioni
virtuose che hanno già raggiunto elevati livelli di efficienza nella gestione
della sanità e che non potrebbero ulteriormente razionalizzare la spesa «senza
mettere a repentaglio la garanzia del diritto alla salute», non potendo
«mantenere l’equilibrio finanziario e nel contempo rispettare l’erogazione dei
Lea».
2.1.5.– Sarebbero, dunque, lese anche le competenze tutelate dagli artt. 118 (con
particolare riferimento alla programmazione sanitaria) e 119 (con riguardo alla
autonomia impositiva) Cost.
2.1.6.– La disposizione impugnata, determinando uno «scollamento» tra un livello
di finanziamento del fondo sanitario, che viene «pesantemente ridotto», e la
necessità di garantire i LEA, si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 5,
comma 1, lettera g), della legge cost. n. 1 del 2012
e con l’art. 11 della legge n. 243 del 2012, che impongono il concorso dello
Stato al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti ai
diritti sociali nelle fasi avverse del ciclo economico.
2.1.7.– Infine, «a ulteriore dimostrazione della violazione del principio di leale
collaborazione e del difetto di istruttoria», la ricorrente sottolinea il
mancato coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della
finanza pubblica, pur «imposto» dall’art. 5, comma 1, della legge n. 42 del
2009, e «ribadito» dall’art. 33 del d.lgs. n. 68 del 2011.
2.2.–
Con riferimento all’art. 1, commi 527 e 528, della legge n. 232 del 2016, la
ricorrente espone che la prima di tali disposizioni «protrae al 2020 il periodo
temporale di vigenza dell’obbligo per le Regioni di assicurare il contributo
alla finanza pubblica» di cui all’art. 46, comma 6, del decreto-legge 24 aprile
2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale),
convertito, con modificazioni, in legge 23 giugno 2014, n. 89.
In forza di tale
modifica, le Regioni sono tenute ad assicurare, per ciascuno degli anni dal
2015 al 2020, un contributo alla finanza pubblica pari a 750 milioni di euro
annui, cui si aggiunge, per il medesimo lasso temporale, un contributo
aggiuntivo pari a 3.452 milioni di euro annui.
In forza del comma
528, invece, viene prorogato al 2020 anche il contributo richiesto alle Regioni
dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, sicché la misura dei
contributi alla finanza pubblica richiesti annualmente alle Regioni, e
prorogati al 2020 dai commi 527 e 528 in esame, ammonta a complessivi 7.682
milioni di euro.
2.2.1.– La ricorrente censura, innanzitutto, il comma 527 dell’art. 1 della legge
n. 232 del 2016.
2.2.1.1.– A tale scopo, evidenzia, in primo luogo, che il contributo previsto
dall’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, stabilito inizialmente in 750
milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2017, è già stato esteso al
2018 ed incrementato di 3.452 milioni di euro dall’art. 1, comma 398, della
legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)».
L’art. 1, comma
681, della legge n. 208 del 2015 aveva poi esteso anche al 2019 tali
contributi.
La ricorrente
sottolinea di aver già impugnato sia l’originaria disposizione impositiva del
contributo sia entrambe le disposizioni di proroga e che la Corte
costituzionale si è già pronunciata sui ricorsi aventi ad oggetto l’art. 46,
comma 6, del d.l. n. 66 del 2014 e l’art. 1, comma 398, della legge n. 190 del
2014, respingendo, con le sentenze n. 65 e n. 141 del 2016,
le censure della Regione.
Ritiene, tuttavia,
la ricorrente, che proprio da tali pronunce emergerebbe, «di fronte
all’ennesima proroga della manovra di taglio alla spesa regionale del 2014», la
violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., ad opera dell’art. 1,
comma 527, della legge n. 232 del 2016.
Nella sentenza n. 141 del
2016, infatti, in riferimento alla prima proroga del termine di cui
all’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, ampliato di un solo anno (ovvero
al 2018) per effetto dell’art. 1, comma 398, della legge n. 190 del 2014, la
Corte costituzionale avrebbe affermato che il costante ricorso alla tecnica
normativa dell’estensione dell’ambito temporale di precedenti manovre, mediante
aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle originariamente previste, finirebbe
per porsi in contrasto con il canone della transitorietà, se indefinitamente
ripetuto. Ciò premesso, risulterebbe palese, per la ricorrente, che la «terza proroga
consecutiva della stessa manovra in origine legata a un ambito triennale»,
operata dall’art. 1, comma 527, della legge n. 232 del 2016, in mancanza di
quelle plausibili e riconoscibili ragioni – imposte dalla richiamata
giurisprudenza costituzionale – impeditive di una ridefinizione e rinnovazione
complessiva del quadro delle relazioni finanziarie tra lo Stato e le Regioni,
secondo le ordinarie scansioni triennali dei cicli di bilancio, violerebbe il
canone della transitorietà richiesto, ai sensi degli artt. 117, terzo comma, e
119 Cost., dalla giurisprudenza costituzionale (sono
richiamate le sentenze n. 65 del 2016,
n. 218 e n. 189 del 2015,
n. 44 del 2014,
n. 236 e n. 229 del 2013,
n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012,
n. 182 del 2011).
La Regione Veneto
ricorda che già nelle sentenze n. 43 e n. 64 del 2016
era stato ribadito dalla Corte costituzionale che il normale periodo di
riferimento delle politiche di bilancio è quello triennale (richiamando le
sentenze n. 178
del 2015 e n.
310 del 2013), sicché, a seguito del «raddoppio del termine triennale
originario previsto dalla manovra del 2014», nonostante la formale fissazione
di un termine finale (ora individuato nell’anno 2020), si sarebbe concretizzato
proprio quel «costante ricorso alla tecnica normativa dell’estensione
dell’ambito temporale di precedenti manovre» stigmatizzato dalla sentenza n. 141 del
2016, asseritamente ignorata dal legislatore
statale.
Ciò
determinerebbe, a giudizio della ricorrente, la violazione del principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., ridondante «in un pesante vulnus per l’autonomia
regionale dato l’evidente impatto sulla stessa della proroga del taglio», e
degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., per
«difetto sostanziale del canone della transitorietà della misura statale di
coordinamento della finanza pubblica».
Con la censurata
tecnica normativa adottata dal legislatore statale, infatti, quest’ultimo,
invece di utilizzare «tutta la ponderazione, le motivazioni e l’assunzione di
responsabilità» necessarie, avrebbe inciso «con un intervento normativo di
poche parole» e «a ripetizione», sulla capacità di spesa degli enti regionali,
proprio «dove si concentra ormai, dalla riforma costituzionale del 2001, la
quota prevalente dei servizi e dei diritti dello Stato sociale».
2.2.1.2.– La ricorrente evidenzia, altresì, che la proroga del contributo imposto
alla Regioni è stata disposta anche in assenza della definizione dei livelli
essenziali delle prestazioni dei diritti relativi all’assistenza sociale
(cosiddetti LIVEAS), mai determinati «a differenza
dei Lea, relativi alla sanità».
A tale proposito,
la ricorrente ricorda come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 65 del 2016,
abbia sottolineato l’utilità della determinazione, da parte dello Stato, ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.,
dei livelli essenziali delle prestazioni per i servizi concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale,
per offrire alle Regioni un significativo criterio di orientamento
nell’individuazione degli obiettivi e degli ambiti di riduzione delle risorse
impiegate, segnando il limite al di sotto del quale la spesa non sarebbe ulteriormente
comprimibile.
Tanto premesso, la
Regione evidenzia che in relazione a nessuna delle proroghe dell’originario
termine triennale del contributo imposto al comparto regionale il legislatore
statale si sia preoccupato «di stabilire un benché minimo intervento normativo
diretto a definire i cd. Liveas».
Poiché l’art. 119,
quarto comma, Cost. imporrebbe allo Stato di
garantire agli enti territoriali «risorse sufficienti a finanziare
integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» e che si situano – a
parere della ricorrente – in gran parte proprio nell’ambito dei diritti
sociali, la mancata definizione dei LIVEAS, che
«interessano tutta la materia di competenza residuale regionale dell’assistenza
sociale», avrebbe consentito allo Stato di sottrarsi «tranquillamente» a questa
responsabilità, risultando dunque «libero di praticare tagli lineari» e «al
buio», con una tecnica di «proroga a ripetizione», a prescindere da un
«qualsiasi parametro di adeguatezza».
Secondo la
ricorrente, invece, «senza assumersi la responsabilità politica e
costituzionale di una riduzione dei livelli essenziali a seguito del venir meno
delle risorse disponibili», lo Stato avrebbe scelto «la strada di non definirli
in materie come l’assistenza sociale (i Liveas)», pur
continuando a ricorrere a «tagli lineari, in ciò venendo meno ad un corretto
esercizio di quella funzione di coordinamento della finanza pubblica che è
invece richiesto dagli artt. 117, III comma e 119 Cost.»
e che andrebbe esercitato secondo il «canone generale della ragionevolezza e
proporzionalità dell’intervento normativo» (sono richiamate le sentenze n. 22 del 2014
e n. 236 del
2013).
Ne deriverebbe
«l’impossibilità per la Regione di offrire un adeguato livello di servizio
rispetto ai bisogni della popolazione», in quanto le manovre di finanza
pubblica degli ultimi anni – come sarebbe attestato dalla stessa Corte dei conti
nel rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica – travalicherebbero
la funzione del «coordinamento» della finanza pubblica e si concretizzerebbero,
piuttosto, in misure di indiscriminato «contenimento», risultando, però, prive
degli «indispensabili elementi di razionalità, proporzionalità, efficacia e
sostenibilità che dovrebbero quantomeno informare la funzione di coordinamento
della finanza pubblica».
2.2.1.3.– Infine, risulterebbe violato anche il principio di leale collaborazione di
cui agli artt. 5 e 120 Cost., essendo mancato il
coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza
pubblica, previsto dall’art. 5, comma 1, della legge n. 42 del 2009 e
«ribadito» dall’art. 33 del d.lgs. n. 68 del 2011.
2.2.2.– La Regione Veneto censura anche il comma 528 dell’art. 1 della legge n.
232 del 2016, in quanto, nel modificare l’art. 1, comma 680, della legge n. 208
del 2015, impone un ulteriore contributo al risanamento della finanza pubblica
a carico di Regioni e Province autonome.
In particolare, la
ricorrente evidenzia che la disposizione in esame estende al 2020 l’obbligo di
assicurare il contributo alla finanza pubblica «stabilito all’art. 1, comma
680, della legge n. 208 del 2015, e ivi quantificato in 5.480 milioni di euro»,
introducendo, altresì, «la possibilità di prevedere versamenti al bilancio
dello Stato da parte delle Regioni interessate», in sede di rideterminazione
dei livelli di finanziamento e delle modalità di acquisizione delle risorse da
parte dello Stato, qualora non fosse raggiunta l’intesa in sede di autocoordinamento regionale «sul riparto dei tagli e sugli
ambiti di spesa coinvolti».
La Regione Veneto
riconosce che, in tal caso, l’estensione al 2020 del periodo temporale in cui
le Regioni sono tenute ad assicurare il loro contributo alla finanza pubblica
stabilito dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, «avviene per la
prima volta», sicché la fattispecie sembrerebbe «ricalcare, appunto a
differenza della proroga disposta dall’art. 1 comma 527, la fattispecie decisa
[…] con la sentenza
n. 141 del 2016 nel senso della non fondatezza».
Tuttavia, osserva
la ricorrente, la disposizione impugnata non si limiterebbe ad una semplice
proroga, ma, nell’introdurre la suddetta possibilità di prevedere versamenti al
bilancio dello Stato da parte delle Regioni interessate, aggiungerebbe «un
elemento innovativo che non è stato considerato nella sentenza n. 141 del
2016», dove lo scrutinio di costituzionalità riguardava disposizioni che
imponevano alle Regioni semplicemente una riduzione di spesa: la novella di cui
all’impugnato comma 528 della legge n. 232 del 2016, dunque, avrebbe
trasformato la Regione «in una sorta di esattore dello Stato, essendo la stessa
chiamata a riversare allo Stato risorse proprie», in contrasto con l’art. 119 Cost. Verrebbe altresì violato il principio che sarebbe
stato affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 79 del
2014, in relazione all’illegittimità di un «obbligo di restituzione di
risorse già acquisite, che vengono assicurate all’entrata del bilancio dello
Stato, senza alcuna indicazione circa la loro destinazione».
2.3.–
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio di
legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia dichiarato non
fondato.
Quanto alle
censure mosse al comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016,
l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che la definizione del livello del
finanziamento del settore sanitario è strettamente connessa con la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, che ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. rientra tra le competenze esclusive dello Stato.
Inoltre, evidenzia
che «la materia della tutela della salute di tipo concorrente deve
contemperarsi con il principio costituzionale che impone allo Stato di
assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», anche
in funzione del rispetto degli obblighi economici e finanziari assunti
dall’Italia «in sede comunitaria».
In ogni caso,
secondo la difesa statale, il finanziamento previsto per l’anno 2017
registrerebbe un incremento di circa il 2,8 per cento rispetto al livello del
2016 (2 miliardi di euro in più) – peraltro in misura superiore a quello
registrato nel 2016 rispetto al 2015 (1,2 per cento) – sicché non potrebbe
parlarsi di incongruità del livello di finanziamento, tale da incidere sulla
erogazione dei LEA in condizioni di efficienza e di appropriatezza.
Infine, secondo
l’Avvocatura generale dello Stato, le Regioni potrebbero «sostituire gli
interventi indicati dal legislatore con altri alternativi di eguale impatto per
il raggiungimento dell’equilibrio economico».
Quanto alle
censure mosse ai commi 527 e 528 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, la difesa
statale richiama la sentenza n. 141 del
2016 con cui la Corte costituzionale avrebbe «respinto analogo motivo»,
riconoscendo carattere transitorio a similari disposizioni di proroga.
3.– La
Provincia autonoma di Bolzano, con ricorso
notificato il 17-22 febbraio 2016 e depositato il 23 febbraio 2016 (reg. ric.
n. 20 del 2017), ha impugnato, tra gli altri, l’art. 1, commi 392, primo,
secondo e terzo periodo, e 394 della legge n. 232 del 2016.
3.1.–
La ricorrente, in via generale, premette che l’art. 1, comma 638, della legge
n. 232 del 2016, detta una clausola di salvaguardia secondo cui «[l]e
disposizioni della presente legge si applicano alle regioni a statuto speciale
e alle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con i
rispettivi statuti e le relative norme di attuazione, anche con riferimento
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3». Tale clausola dovrebbe «in
linea di principio risolvere ogni questione» (vengono richiamate le sentenze n. 141 del 2015
e n. 229 del
2013 e, con riferimento al richiamo alla legge cost.
n. 3 del 2001, le sentenze n. 357 del 2010,
n. 371 del 2008
e n. 181 del
2006).
Tuttavia, a parere
della ricorrente, i commi impugnati contengono disposizioni destinate ad
applicarsi direttamente alla Provincia autonoma di Bolzano, includendo
espressamente quest’ultima «tra i propri destinatari, senza essere state
preventivamente concordate», vanificando, così, la predetta clausola di
salvaguardia con la propria formulazione testuale (viene richiamata la sentenza n. 88 del
2006).
3.2.– La Provincia
autonoma di Bolzano, dopo aver ricostruito il contenuto normativo dei primi tre
periodi del comma 392 e del comma 394 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016,
evidenzia che il quarto periodo del comma 392 dispone che «[p]er la regione Trentino-Alto Adige e per le province
autonome di Trento e di Bolzano l’applicazione del presente comma avviene nel
rispetto dell’accordo sottoscritto tra il Governo e i predetti enti in data 15
ottobre 2014 e recepito con legge 23 dicembre 2014, n. 190, con il concorso
agli obiettivi di finanza pubblica previsto dai commi da 406 a 413 dell’art. 1
della medesima legge».
Ricorda, dunque,
che, con l’intesa dell’11 febbraio 2016 richiamata nelle norme impugnate, le
Regioni «hanno dichiarato che la parte del contributo al risanamento dei conti
pubblici a carico delle Regioni a statuto speciale viene demandata a singoli
accordi bilaterali tra il Governo e le singole Regioni a Statuto speciale» e
che, in caso di mancato accordo «entro un termine ragionevole, la copertura di
3,5 miliardi di euro per il 2017 e di 5 miliardi di euro per il 2018, si
conseguirà con un maggiore contributo delle Regioni a Statuto ordinario»,
facendo riferimento anche al comma 680 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015,
che la medesima Provincia autonoma ricorrente ha in precedenza impugnato,
innanzi alla Corte costituzionale, con il ricorso iscritto al reg. ric. n. 10
del 2016.
3.2.1.– La
ricorrente ritiene che le disposizioni impugnate violerebbero: gli artt. 8,
numero 1), 9, numero 10), 16, 79, 80, 103, 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico
delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto
Adige), nonché le correlative norme di attuazione (contenute: nell’art. 2
del d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474, recante «Norme di attuazione
dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità»;
nel decreto
legislativo 16 marzo 1992, n. 268, recante «Norme di attuazione dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e
provinciale»; nell’art. 2 del decreto
legislativo 16 marzo 1992, n. 266, recante «Norme di attuazione dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti
legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale
di indirizzo e coordinamento»); l’art. 117, terzo comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge
cost. n. 3 del 2001; il principio di leale
collaborazione, in relazione all’art. 120 Cost. ed all’accordo del 15
ottobre 2014 recepito con legge
n. 190 del 2014; il principio di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
3.2.2.– La ricorrente, in premessa, ricostruisce
il quadro normativo delle proprie prerogative e competenze che assume violate.
In primo luogo, ricorda che,
in forza del Titolo VI dello statuto speciale, la Provincia autonoma di Bolzano
godrebbe di una particolare autonomia in materia finanziaria. In particolare,
sarebbe previsto un «meccanismo peculiare per la modificazione delle
disposizioni recate dal medesimo Titolo VI», che ammetterebbe l’intervento del
legislatore statale con legge ordinaria solo in presenza di una preventiva
intesa, in applicazione dell’art. 104 dello stesso statuto. Inoltre, le norme
statutarie escluderebbero l’applicabilità di disposizioni statali impositive di
obblighi o concorsi finanziari diversi da quelli previsti dal Titolo VI dello
statuto di autonomia. Infine, sarebbe esclusivamente la Provincia autonoma di
Bolzano a provvedere all’attuazione delle finalità di coordinamento della
finanza pubblica contenute in specifiche disposizioni legislative dello Stato,
adeguando, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, la propria
legislazione ai principi fondamentali e nelle materie individuate dallo
statuto, adottando, conseguentemente, autonome misure di razionalizzazione e
contenimento della spesa, anche orientate alla riduzione del debito pubblico,
ed idonee ad assicurare il rispetto delle dinamiche della spesa aggregata delle
amministrazioni pubbliche, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea.
Dal complesso delle norme
statutarie (ed in particolare dagli artt. 103, 104 e 107) e di attuazione
statutaria, la ricorrente evince che «[i]l regime dei rapporti finanziari tra
Stato e autonomie speciali è dominato dal principio dell’accordo e dal
principio di consensualità» (sono richiamate le sentenze n. 28 del 2016,
n. 82 del 2007,
n. 353 del 2004,
n. 98 del 2000
e n. 39 del 1984)
e che, nelle materie di cui agli artt. 8 e 9 dello statuto speciale, la
Provincia autonoma di Bolzano è titolare di potestà legislativa «primaria e
secondaria» oltre che della «correlativa potestà amministrativ[a]
(articolo 16)».
Più nello specifico,
verrebbero in rilievo le potestà legislative in materia di organizzazione dei
propri uffici e del relativo personale (art. 8, n. 1, dello statuto speciale),
di igiene e sanità (art. 9, n. 10, dello statuto speciale) e di finanza locale
(artt. 80 e 81 dello statuto speciale), in base alle quali le due Province
autonome finanziano integralmente il settore sanitario, che risulterebbe a
totale carico del bilancio provinciale, come sancito dall’art. 34 della legge
n. 724 del 1994, che appunto prevede, «quale concorso delle Province autonome
al riequilibrio della finanza pubblica nazionale», il finanziamento integrale,
da parte delle Province autonome, del Servizio sanitario nazionale nei
rispettivi territori, senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato,
mediante utilizzazione prioritaria delle entrate derivanti dai contributi
sanitari e dalle altre imposte sostitutive, nonché, ad integrazione, le risorse
dei propri bilanci.
Di qui l’applicabilità del
principio espresso dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui
«lo Stato, quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, neppure
ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario» (sono richiamate le
sentenze n. 133
del 2010 e n.
341 del 2009).
Del resto, osserva ancora la
ricorrente, spetta alle Province autonome la potestà legislativa ed
amministrativa attinente al funzionamento ed alla gestione delle istituzioni e
degli enti sanitari, con l’obbligo di garantire l’erogazione di prestazioni di
assistenza igienico-sanitaria ed ospedaliera «non inferiori agli standards minimi previsti dalle normative nazionale e
comunitaria», compreso lo stato giuridico ed economico del personale addetto.
3.2.3.– Tanto premesso, la
Provincia autonoma di Bolzano ritiene che le disposizioni impugnate,
nell’introdurre «modalità di regolazione finanziaria relative al concorso
statale del livello di finanziamento del fabbisogno sanitario standard del
Servizio sanitario nazionale», anche con riferimento espresso alle Province
autonome, non sarebbero compatibili né con l’autonomia finanziaria a queste
ultime riconosciuta nel settore sanitario né con l’accordo sottoscritto in data
15 ottobre 2014 e recepito nei commi da 406 a 413 dell’art. 1 della legge n.
190 del 2014 e nei commi 502 e 503 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016,
«approvati ai sensi e per gli effetti dell’art. 104 dello Statuto speciale e
così sulla base di intesa».
Ad avviso della ricorrente, se
le norme di cui ai commi 392, primo, secondo e terzo periodo, e 394 dell’art. 1
della legge n. 232 del 2016 «dovessero essere intese come destinate a fare
carico alle Province autonome di ulteriori contributi alla finanza pubblica
nazionale (nello specifico, quale concorso al finanziamento del fabbisogno
sanitario nazionale) rispetto a quelli concordati con lo Stato», sarebbe
direttamente violato l’art. 79, comma 4, dello statuto di autonomia, venendo in
rilievo – in contrasto con gli artt. 103, 104 e 107 dello statuto di autonomia
e con l’art. 120 Cost. – «un’unilaterale modifica del
citato Accordo del 15 ottobre 2014 con il Governo, che ha definito, in modo
esaustivo, la natura e misura della partecipazione delle Province autonome ai
processi di risanamento della finanza pubblica e l’entità del concorso agli
obiettivi di finanza pubblica assicurati dalla Regione e dalle Province
autonome».
Gli evocati parametri
sarebbero, altresì, violati dall’attribuzione «di un potere monocratico di
decretazione al Ministro dell’economia in caso di mancata intesa in un termine
predefinito dalla legge».
3.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato non fondato, sulla base delle medesime argomentazioni addotte
nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato su ricorso della Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
ed illustrate al precedente punto 1.5.
Aggiunge, però, che le
disposizioni impugnate sono finalizzate ad assicurare il rispetto sia dell’art.
79, commi 4 e 4-septies, dello statuto di autonomia
sia il principio solidaristico di cui agli artt. 2 e 5 Cost., che imporrebbe a
tutti gli enti di partecipare al risanamento dei conti pubblici (ai sensi
dell’art. 97 Cost.).
Le norme risulterebbero,
altresì, coerenti con l’accordo sottoscritto dal Governo e dalle Province
autonome di Trento e Bolzano in data 15 ottobre 2014, che pure prevede la
possibilità di imporre, sebbene a certe condizioni predeterminate, ulteriori
contributi alla finanza pubblica.
Inoltre, secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, le disposizioni in esame, intervenendo sul fabbisogno
sanitario ritenuto congruo per l’erogazione dei livelli essenziali di
assistenza, influirebbero anche sul livello della spesa sanitaria della
ricorrente, sebbene la stessa non riceva finanziamenti per la funzione
sanitaria, dal momento che il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è
calcolato su base nazionale e pertanto, «a fronte di una riduzione del
finanziamento erariale per il comparto delle regioni a statuto ordinario, è
previsto che anche le Autonomie speciali realizzino un risparmio».
La difesa statale, a tale
proposito, ricorda la giurisprudenza costituzionale secondo cui lo Stato è
legittimato a imporre agli enti regionali, ivi comprese le Regioni a statuto
speciale, di partecipare agli obiettivi di risanamento e di assestamento della
finanza pubblica generale, al fine anche di rispettare i vincoli di bilancio
imposti dall’Unione europea (sono richiamate le sentenze n. 127 del 2015 – recte: 2016 –, n. 193 e n. 148 del 2012),
purché attraverso misure di carattere transitorio e nel rispetto del principio consensualistico (vengono richiamate le sentenze n. 127 del 2016,
n. 19 del 2016 –
recte: 2015 –, n. 99 del 2014,
n. 193 e n. 118 del 2012),
condizioni che sarebbero entrambe rispettate, nel caso di specie.
4.– La Regione autonoma Sardegna, con ricorso
notificato il 16-21 febbraio 2017 e depositato il 24 febbraio 2017 (reg. ric.
n. 21 del 2017), ha impugnato, tra gli altri, i commi 392, 394 e 528
dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016.
4.1.– La ricorrente, dopo aver
ricordato la portata precettiva dell’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del
2016 – evidenziando di aver impugnato anche tale disposizione con il ricorso
iscritto al n. 13 del registro ricorsi 2016 – ha esposto il contenuto dei commi
qui censurati, con i quali il legislatore statale avrebbe «cristallizzato» gli
effetti finanziari derivanti dall’intesa dell’11 febbraio 2016, stipulata in
attuazione del predetto comma 680, estendendo di un anno l’orizzonte temporale
del contributo imposto al comparto regionale da tale ultima disposizione.
I commi 392, 394 e 528 della
legge n. 232 del 2016 sarebbero, in particolare, contrari: agli artt. 7, 8, 54
e 56 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna);
agli artt. 3, 5, 24, 81, 116, 117, terzo comma, 119 e 136 Cost.;
all’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13
della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto
1955, n. 848 (d’ora innanzi: CEDU); all’art. 9
della legge
n. 243 del 2012, anche in riferimento all’art. 4 dell’accordo tra il
Ministro dell’economia e delle finanze e la Regione autonoma Sardegna in
materia di finanza pubblica, sottoscritto in data 21 luglio 2014 e recepito
dall’art. 42, commi da 9 a 12, del decreto-legge
12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la
semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, in legge 11
novembre 2014, n. 164.
4.1.1.– Secondo la Regione
autonoma Sardegna, il contributo alla finanza pubblica delle Regioni e delle
Province autonome, per il periodo 2017-2020, impone un sacrificio economico
finanziario particolarmente elevato, per un importo che non può essere
modificato dalle autonomie speciali, chiamate solo alla ripartizione tra di
esse tramite un’intesa, da stipulare entro il 31 gennaio 2017, che deve
garantire gli effetti finanziari della determinazione assunta dalle autonomie
territoriali «in sede di autocoordinamento», salvo,
in caso di inerzia, il potere statale di effettuare unilateralmente il riparto.
L’ultimo periodo del comma
impugnato, inoltre, detterebbe «disposizioni di favore» per la sola Regione
autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e per le due Province autonome di Trento
e Bolzano, prevedendo l’applicazione della normativa in esame «nel rispetto
dell’Accordo sottoscritto tra il Governo e i predetti enti in data 15 ottobre
2014, e recepito con legge 23 dicembre 2014, n. 190».
4.1.2.– La Regione autonoma
Sardegna ricorda di aver stipulato, in data 21 luglio 2014, un analogo accordo
con lo Stato, per disciplinare i rapporti economici e finanziari tra Stato e
Regione, all’interno della cornice normativa dettata dagli artt. 7 e 8 dello
statuto speciale, e sulla base delle indicazioni fornite dalla stessa Corte
costituzionale, che avrebbe sempre sollecitato le parti a seguire il metodo
pattizio per la regolamentazione dei reciproci rapporti finanziari, in modo
«congruente con le norme statutarie della Regione, ed in particolare con l’art.
8 dello statuto» (vengono citate le sentenze n. 155 del 2015,
n. 95 del 2013
e n. 118 del
2012).
Nella ricostruzione operata
dalla ricorrente, l’art. 3 dell’accordo stipulato in data 21 luglio 2014
stabilisce che la Regione autonoma Sardegna, a partire dal 2015, partecipa al
conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso il rispetto del
principio di equilibrio di bilancio, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 243
del 2012, a fronte dell’impegno assunto dallo Stato di rideterminare i
contributi di finanza pubblica a carico della Regione Sardegna già disposti
dalla legislazione vigente per l’anno 2014, i quali costituirebbero «la base
per la determinazione dell’obiettivo del patto di stabilità anche per gli anni
successivi».
Alcune clausole dell’accordo,
evidenzia ancora la ricorrente, sono state recepite nei commi da 9 a 12
dell’art. 42 del d.l. n. 133 del 2014, come convertito.
Con le disposizioni impugnate
il legislatore statale avrebbe «disatteso un preciso impegno giuridico assunto
nelle forme dell’accordo di finanza pubblica», in quanto: avrebbe imposto nuovi
contributi alla finanza pubblica a carico della Regione autonoma Sardegna,
senza far precedere tale imposizione da una regolazione pattizia tra lo Stato e
la Regione; avrebbe imposto alla Regione autonoma Sardegna di conseguire
risparmi di spesa in settori che sono definiti, non in via autonoma dalla
Regione medesima, bensì con decisione assunta dalle altre Regioni e Province
autonome (le quali, in tal modo, acquistano titolo «per ingerirsi nelle
determinazioni di bilancio della Regione Autonoma della Sardegna») o, in caso
di inerzia, direttamente dallo Stato; recando una clausola di salvaguardia del
solo accordo stipulato tra lo Stato e la Regione autonoma Trentino-Alto
Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e Bolzano, avrebbe non solo
violato l’accordo stipulato dallo Stato con la Regione autonoma Sardegna, ma
anche derogato alle previsioni di cui ai commi da 9 a 12 dell’art. 42 del d.l.
n. 133 del 2014, come convertito, e, in particolare, il comma 10 (in cui era
stata trasposta la clausola di cui all’art. 3 del predetto accordo del 2014),
secondo cui la Regione autonoma Sardegna garantisce l’equilibrio del proprio
bilancio ai sensi dell’art. 9 della legge n. 243 del 2012.
4.1.3.– Da tale quadro normativo emergerebbe
«inequivocabilmente» l’illegittimità costituzionale delle disposizioni
censurate.
Nella sentenza n. 19 del
2015, infatti, la Corte costituzionale avrebbe affermato che la
determinazione unilaterale preventiva del contributo delle autonomie speciali
alla manovra, per essere conforme a Costituzione, dovrebbe lasciare un «margine
di negoziabilità» alle Regioni autonome, margine che non potrebbe limitarsi
(come, invece, accadrebbe nel caso di specie) «ad una rimodulazione interna tra
le varie componenti presenti nella citata tabella relative alle diverse
autonomie speciali, con obbligo di integrale compensazione tra variazioni
attive e passive», poiché «ogni margine di accordo comportante un miglioramento
individuale dovrebbe essere compensato da un acquiescente reciproco aggravio di
altro ente, difficilmente realizzabile», sicché «il meccanismo normativo [...]
sarebbe sostanzialmente svuotato dalla prevedibile indisponibilità di tutti gli
enti interessati ad accollarsi l’onere dei miglioramenti destinati ad altri e,
conseguentemente, sarebbe lesivo del principio di leale collaborazione e
dell’autonomia finanziaria regionale».
In sostanza, non sarebbe
conforme a Costituzione una disposizione di legge statale che rimettesse
all’accordo tra le parti «solamente il riparto tra le autonomie speciali del
contributo di finanza pubblica imposto unilateralmente dallo Stato».
Nella successiva sentenza n. 82 del
2015, nel vagliare la legittimità di un contributo straordinario al
risanamento della finanza pubblica, imposto alle sole autonomie speciali e da
attuare con le procedure previste dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009 e,
dunque, secondo il metodo pattizio, la Corte costituzionale avrebbe confermato
la necessità di intraprendere la via dell’accordo, in quanto espressione di un
criterio generale che governa i rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie
speciali, in base al principio di leale collaborazione. A giudizio della
ricorrente, inoltre, il contributo non potrebbe protrarsi «senza limite»,
dovendo assumere carattere transitorio.
4.1.4.– Tanto premesso, nella prospettazione
della ricorrente risulterebbe in primo luogo violato il principio di leale
collaborazione tra Stato e Regione autonoma Sardegna, di cui agli artt. 5 e 117
Cost. Il legislatore statale avrebbe infatti
disciplinato lo svolgimento dei rapporti economico-finanziari tra Stato e
Regione autonoma Sardegna «senza prevedere i necessari e doverosi meccanismi di
interlocuzione e di attuazione del principio consensualistico»,
non essendo previsto alcun accordo idoneo a «superare le rigidità della
fissazione unilaterale del contributo di finanza pubblica a carico del comparto
delle Regioni a statuto speciale». Queste ultime verrebbero, anzi,
esplicitamente ed inequivocabilmente equiparate alle Regioni ordinarie, in
quanto l’intesa sul riparto del contributo deve essere adottata con accordo fra
tutte le Regioni e Province autonome. Il comma 394 dell’art. 1 della legge n.
232 del 2016, inoltre, nell’imporre alle Regioni a statuto speciale di
assicurare il contributo a loro carico previsto dall’intesa dell’11 febbraio
2016, escluderebbe che le determinazioni assunte in tale intesa possano essere
ulteriormente «negoziabili».
4.1.5.– In secondo luogo, risulterebbero violati,
contestualmente, ancora il principio di leale collaborazione, l’autonomia
economico-finanziaria della Regione tutelata dagli artt. 116, 117 e 119 Cost. e dagli artt. 7 e 8 dello
statuto speciale, nonché l’art. 3 Cost.
La lesione lamentata
deriverebbe dalla salvaguardia del solo accordo stipulato tra Stato e Regione
autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e Province autonome di Trento e Bolzano,
con totale pretermissione dell’analogo accordo stipulato tra lo Stato e la
Regione autonoma Sardegna in data 21 luglio 2014, sicché sarebbe
«manifestamente ingiustificato il trattamento differenziato (e deteriore) della
Sardegna rispetto alla Regione Trentino-Alto Adige e alle Province Autonome di
Trento e Bolzano», avendo la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 19 del
2015, «accomunato» i due atti negoziali quanto ad ampiezza degli effetti e
ratio di tutela dell’autonomia economico-finanziaria delle Regioni autonome.
La ricorrente, del resto,
ricorda che l’art. 116 Cost. riconosce
l’autonomia differenziata «di tutte le (e non solo di alcune) Regioni a Statuto
speciale».
La «clausola di maggior favore
per la sola Regione Autonoma Trentino-Alto Adige», peraltro, dimostrerebbe la
soppressione dello spazio di autonomia che le parti, con gli accordi richiamati
dalla sentenza n.
19 del 2015, avevano regolato su base pattizia, dal momento che la
previsione specifica a beneficio di una sola autonomia speciale «non avrebbe
alcuna ragion d’essere se il contributo di finanza pubblica qui in esame fosse
ex se compatibile con quelle intese».
4.1.6.– Gli artt. 5, 117 e 119
Cost., unitamente agli artt. 7 e 8 dello statuto
speciale, che tutelano l’autonomia economico-finanziaria della Regione e
impongono, nei rapporti economico-finanziari, il «paradigma della leale
cooperazione», sarebbero ulteriormente violati anche sotto un altro profilo,
strettamente connesso al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per il fatto che il legislatore statale, intervenuto
successivamente alla stipula degli accordi di finanza pubblica del 2014, ne
avrebbe espressamente violato le clausole, peraltro senza prevedere un
meccanismo adeguato di recupero, anche ex post, della leale cooperazione nei
rapporti economico-finanziari, in tal modo calpestando «le clausole di un
accordo faticosamente raggiunto tra la Regione e lo Stato» e che aveva risolto
in forma consensuale un risalente contenzioso innanzi alla Corte
costituzionale.
4.1.7.– Le disposizioni
impugnate sarebbero in contrasto anche con l’art. 9 della legge «rinforzata» n.
243 del 2012, emanata in attuazione del sesto comma dell’art. 81 Cost., per dettare specifiche previsioni sull’equilibrio
dei bilanci delle Regioni e degli enti locali, ma, quanto alle autonomie
speciali, compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative
norme di attuazione, con rimessione, dunque, ancora una volta al principio consensualistico della definizione dei criteri di
«equilibrio» dei bilanci delle autonomie speciali.
Avendo lo Stato e la Regione
autonoma Sardegna, proprio in ossequio a tale precetto, consensualmente
disciplinato le modalità con le quali il principio dell’equilibrio di bilancio
si applica alla Regione medesima, altri oneri che si sottraessero alla
determinazione consensuale delle parti risulterebbero in violazione
dell’accordo del 21 luglio 2014, e, per l’effetto, anche dell’art. 9, comma 6,
della legge n. 243 del 2012 e dello stesso art. 81 Cost.,
di cui le disposizioni della suddetta legge «rinforzata» sarebbero «immediato
svolgimento». Ne deriverebbe, ancora, la lesione dell’autonomia
economico-finanziaria della Regione Sardegna, garantita dagli artt. 7 e 8 dello
statuto speciale e dagli artt. 117 e 119 Cost.
4.1.8.– Secondo la Regione autonoma Sardegna,
l’incompatibilità delle disposizioni impugnate – da leggere unitamente all’art.
1, comma 680, della legge n. 208 del 2015 – con il contenuto dell’accordo del
21 luglio 2014, violerebbe anche le disposizioni di cui all’art. 42, commi da 9
a 12, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito. Tali disposizioni
impedirebbero al legislatore statale, in assenza di preventiva intesa con la
Regione, di abrogare, modificare o comunque derogare le disposizioni del d.l.
n. 133 del 2014, come convertito, che quell’accordo avevano appunto recepito e
che, pur non essendo state formalmente inserite nello statuto della Regione o
nelle norme di attuazione, sarebbero ugualmente espressione del principio consensualistico cui sono soggetti i rapporti
economico-finanziari tra lo Stato e la Regione ricorrente: principio che
sarebbe, a sua volta, sancito dagli artt. 54, quinto comma, e 56 dello statuto,
nonché dall’art. 9 della legge «rinforzata» n. 243 del 2012, anche in
relazione, ancora una volta, agli artt. 7 e 8 dello statuto e 117 e 119 Cost., che tutelano l’autonomia finanziaria della Regione.
4.1.9.– A giudizio della
ricorrente, le sentenze con le quali la Corte costituzionale ha scrutinato le
vertenze insorte tra lo Stato e la Regione autonoma Sardegna a causa della
mancata esecuzione, da parte statale, della riforma del regime delle entrate
regionali di cui all’art. 8 dello statuto speciale (sono richiamate le sentenze
n. 95 del 2013,
n. 118 e n. 99 del 2012),
avrebbero «accertato e dichiarato che lo Stato aveva e ha un preciso e
specifico obbligo giuridico di definire consensualmente con la Regione il regime
dei reciproci rapporti economico-finanziari». Ciò sarebbe stato riconosciuto
dallo stesso legislatore statale con l’emanazione dell’art. 11, comma 5-bis, del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni
urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per
il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di
versamento di tributi degli enti locali), convertito, con modificazioni, in
legge 6 giugno 2013, n. 64. Con la richiamata disposizione, infatti, era stato
imposto l’obbligo di concordare con la Regione autonoma Sardegna, nel rispetto
dei saldi di finanza pubblica, e con le procedure di cui all’art. 27 della
legge n. 42 del 2009, le modifiche da apportare al patto di stabilità interno
per la medesima Regione. In tal modo, sarebbe stata riconosciuta «la forza del
giudicato costituzionale», che imponeva un preciso obbligo giuridico, «al quale
lo Stato non può sottrarsi». Sicché, una volta concluso l’accordo in data 21
luglio 2014, non sarebbe possibile violarne le clausole: avendo invece le
disposizioni impugnate imposto nuovi contributi di finanza pubblica, non
concordati, vi sarebbe violazione del giudicato costituzionale, e, dunque,
dell’art. 136 Cost.
4.1.10.– Risulterebbe, inoltre, violato anche il
principio del legittimo affidamento, che trova riconoscimento di rango
costituzionale ai sensi dell’art. 3 Cost. nonché, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (e dell’art. 5 Cost., essendo «qui l’affidamento […] posto a presidio
dell’autonomia della ricorrente»), degli artt. 6 e 13 della CEDU.
Si tratterebbe di «principio connaturato allo Stato di diritto», applicabile
anche ai rapporti tra Stato e Regioni, che devono ispirarsi alla leale
collaborazione tra le parti (viene citata la sentenza n. 207 del
2011). In particolare, in capo alla Regione ricorrente, sarebbe sorto «un
affidamento legittimo sulla stabilità del quadro di regolamentazione dei
rapporti economici con lo Stato», indotto in ragione: delle disposizioni
statutarie e costituzionali che fissano il principio consensualistico
nei rapporti tra Stato e Regione autonoma Sardegna; del giudicato
costituzionale relativo all’obbligo di addivenire ad un complessivo accordo di
finanza pubblica con la Regione, poi riconosciuto dallo Stato con la
disposizione di cui all’art. 11, comma 5-bis, del
d.l. n. 35 del 2013, come convertito; della conseguente stipula dell’accordo di
finanza pubblica del 21 luglio 2014; del recepimento delle clausole
dell’accordo nell’art. 42 del d.l. n. 133 del 2014, come convertito, che,
invece, sarebbe stato «inopinatamente sovvertito dal legislatore statale»,
proprio con la disposizione impugnata, ancora una volta in contrasto con
l’autonomia economico-finanziaria della Regione, tutelata dagli artt. 7 e 8
dello statuto e dagli artt. 117 e 119 Cost.
Secondo la ricorrente, la
Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe più volte affermato che gli artt. 6
e 13 della CEDU proteggono il legittimo affidamento
dei soggetti di diritto, che può essere compresso solo a fronte di imperative
ragioni di interesse generale, tra le quali non rientrerebbe «l’ottenimento di
un mero beneficio economico per la finanza pubblica», che costituirebbe,
invece, «l’unica ragione giustificatrice» delle disposizioni impugnate.
4.1.11.– La Regione autonoma Sardegna evidenzia
anche di non aver mai dubitato della validità, della stabilità e della cogenza
dell’accordo del 21 luglio 2014. Sottolinea che, proprio in adempimento degli
obblighi con esso assunti, «ha rinunciato a numerose impugnazioni già
proposte», non solo innanzi alla Corte costituzionale, sicché risulterebbe
inciso anche il proprio diritto di difesa in giudizio, tutelato dall’art. 24 Cost.
4.1.12.– La Regione autonoma Sardegna
ricorda che lo Stato può imporre in via autoritativa contributi straordinari di
finanza pubblica alle Regioni ordinarie e alle autonomie speciali, ma solo per
un periodo di tempo limitato e ragionevole (sono richiamate le sentenze n. 193 e n. 148 del 2012,
n. 232 del 2011
e n. 326 del
2010). Ove tale limite non fosse rispettato, il contributo di finanza
pubblica imposto alle Regioni costituirebbe disposizione «di dettaglio», in una
materia affidata alla competenza legislativa concorrente, esorbitando
dall’ambito di competenza riconosciuto al legislatore statale. Nel caso in
esame, osserva la Regione ricorrente, il contributo di finanza pubblica era
originariamente previsto per un solo triennio, sicché esso poteva apparire
compatibile con l’obbligo di «temporaneità» del prelievo. Tuttavia, il comma
528 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016 ha esteso per un altro anno
l’ambito di applicazione del contributo e il comma 392 del medesimo articolo,
nella ricostruzione della ricorrente, avrebbe «aumentato il carico finanziario
del contributo», in un contesto in cui (tutte) le Regioni «sono sottoposte da
diversi anni a contributi di finanza pubblica sempre crescenti, alcuni dei
quali imposti non in via temporanea, bensì senza limiti di tempo»: il
contributo inizialmente imposto dal comma 680 dell’art. 1 della legge n. 208
del 2015, poi «modificato dai commi 392 e 394 della legge qui impugnata», per
tali ragioni eluderebbe «l’obbligo di temporaneità delle misure restrittive di
finanza pubblica», ponendosi in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., e con gli artt. 7 e 8 dello statuto speciale, che
tutelano l’autonomia finanziaria della Regione autonoma Sardegna.
4.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato inammissibile o, comunque, non fondato, sulla base delle medesime
argomentazioni articolate nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato su
ricorso della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste ed illustrate al precedente punto 1.5.
Ha aggiunto, tuttavia, con
specifico riferimento alla censura incentrata sulla violazione del principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. – per la
particolare considerazione riservata, dalle disposizioni impugnate, al solo
accordo concluso tra lo Stato, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol
e le Province autonome di Trento e di Bolzano – che la posizione di tali autonomie
speciali «risulta oggettivamente differenziata» rispetto alle altre. «La norma
sospettata di incostituzionalità» si porrebbe come «parametro di mediazione»
fra la garanzia assicurata dall’art. 79, commi 4 e 4-septies
del d.P.R. n. 670 del 1972 e il principio
solidaristico di cui agli artt. 2 e 5 Cost., che impone a tutti gli enti di partecipare alla tenuta
dei conti pubblici, mediante un percorso consensuale che può riguardare solo il
quantum ed il quomodo della partecipazione medesima,
e non anche l’an.
5.– La Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia, con ricorso
notificato il 20 febbraio 2017 e depositato il 24 marzo 2017 (reg. ric. n. 22
del 2017), ha impugnato, tra gli altri, i commi 392, 394 e 528 dell’art. 1
della legge n. 232 del 2016.
5.1.– La ricorrente, in premessa, chiarisce di
non ignorare l’esistenza della clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1,
comma 638, della legge n. 232 del 2016, ma esclude che essa sia idonea «a
evitare che le disposizioni specificamente indirizzate alle autonomie speciali,
e in particolar modo alla Regione Friuli-Venezia Giulia (nonché aventi
contenuto lesivo dell’autonomia stessa, come le norme impugnate), possano
trovare comunque applicazione».
5.1.1.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
illustra come segue il contenuto normativo delle disposizioni impugnate.
Secondo la ricorrente, esse:
riducono il fondo sanitario nazionale in misura ulteriore rispetto a quella
fissata con l’intesa dell’11 febbraio 2016 (comma 392, primo e secondo
periodo); impongono alle Regioni speciali di concorrere a tali misure,
sostenendo parte del contributo, determinato mediante intese bilaterali (comma
392, terzo periodo); condizionano l’applicazione del meccanismo al rispetto
(unicamente) dell’accordo sottoscritto tra il Governo e le Province autonome di
Trento e Bolzano il 15 ottobre 2014 (comma 392, quarto periodo); impongono alle
Regioni speciali, con i medesimi accordi di cui al comma 392, di assicurare il
contributo a loro carico previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016 (comma
394); consentono al Ministero dell’economia e delle finanze di attuare con
proprio decreto l’intesa dell’11 febbraio 2016, al fine di garantire il
conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per il settore
sanitario (comma 394); estendono fino al 2020 la misura di concorso di cui
all’art 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015 (comma 528).
5.1.2.– Così ricostruito il
quadro normativo, la ricorrente ne sostiene la contrarietà, per la parte di
ricorso qui esaminata: agli artt. 3 e 119 Cost.;
48 e 49 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia); al protocollo di intesa tra lo Stato e la Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia per la revisione del protocollo del 29 ottobre
2010 e per la definizione dei rapporti finanziari negli esercizi 2014-2017 del
23 ottobre 2014; al principio pattizio in materia finanziaria (desumibile dagli
artt. 63, quinto comma, e 65 dello statuto
speciale e dall’art. 27 della legge
n. 42 del 2009) ed a quello di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
Ciò perché le disposizioni
censurate «rappresentano una specificazione (ad avviso della ricorrente Regione
illegittima […]) di quanto già previsto (anche in quel caso illegittimamente
[…]) dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015».
5.1.3.– La ricorrente evidenzia, in primo luogo,
che sia nel comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, sia nel comma
680 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015, è previsto «un regime speciale per
la regione Trentino-Alto Adige e per le province autonome di Trento e di
Bolzano», in quanto per esse l’applicazione delle disposizioni impugnate
avviene nel rispetto dell’accordo sottoscritto con il Governo in data 15
ottobre 2014 e recepito con legge n. 190 del 2014.
Ricorda, poi, di avere
impugnato, innanzi alla Corte costituzionale, il citato comma 680 dell’art. 1
della legge n. 208 del 2015, nella parte in cui esso richiede alla Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia contribuzioni non previste nell’accordo
sottoscritto con il Governo in data 23 ottobre 2014, nonché nella parte in cui,
per annualità successive al 2017, richiede contribuzioni non concordate.
Espone, quindi, che, in
attuazione del menzionato comma 680, lo Stato e le Regioni hanno concluso
un’intesa in data 11 febbraio 2016, nella quale hanno individuato nel fondo
sanitario nazionale – di cui è stata conseguentemente concordata la riduzione
di 3.500 milioni di euro per il 2017 e di 5.000 milioni di euro a decorrere dal
2018 – «la principale posta su cui concentrare la riduzione di spesa relativa
al contributo» (quantificato dalla medesima disposizione di legge in 3.980
milioni di euro per il 2017 e in 5.480 milioni di euro per il 2018 e il 2019) e
hanno rinviato «a successive intese le determinazioni inerenti i restanti 480
milioni di euro», contemplando, in mancanza, «una clausola di salvaguardia la
quale prevede che il Fondo sanitario nazionale sia in ogni caso ridotto degli
importi oggetto dell’intesa».
Sottolinea, ancora, la
resistente che le Regioni speciali e le Province autonome che non avevano
partecipato all’intesa dell’11 febbraio 2016 (tra cui la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia) avevano rifiutato «di aderire ad alcun riparto che
prevedesse un onere a proprio carico», nelle more dell’impugnazione proposta,
innanzi alla Corte costituzionale, contro il comma 680 più volte citato, anche
perché, ad eccezione della Regione Siciliana, nessuna delle altre autonomie
speciali partecipa alla ripartizione del fondo sanitario nazionale, che era
stato invece individuato, nell’intesa raggiunta l’11 febbraio 2016, come
«oggetto del "taglio”».
Del resto, rammenta infine la
resistente, la suddetta intesa dell’11 febbraio 2016 prevedeva espressamente
che la parte del contributo al risanamento dei conti pubblici a carico delle
Regioni a statuto speciale venisse «demandata a singoli accordi bilaterali tra
il Governo e le singole Regioni a statuto speciale», e che, in mancanza del
raggiungimento di un accordo «entro un termine ragionevole», la copertura
integrale del contributo sarebbe stata conseguita con una maggiorazione della
quota gravante sulle Regioni a statuto ordinario, non potendo la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano disporre della posizione delle autonomie speciali senza il
loro assenso.
5.1.4.– Secondo la ricorrente, la violazione
degli evocati parametri costituzionali e statutari non sarebbe esclusa dalla
previsione di singoli accordi con lo Stato, da stipulare entro il 31 gennaio
2017.
La «misura complessiva» del
nuovo concorso delle autonomie speciali sarebbe, infatti, già definita
unilateralmente dalla legge statale, sicché la conclusione dei previsti accordi
sarebbe «obbligata e dovuta entro un termine molto stretto (31 gennaio 2017)»,
a pena di un intervento unilaterale statale comunque attuativo della riduzione
prevista per gli anni 2017 e successivi.
Tutto ciò avverrebbe in
violazione dell’accordo concluso tra la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
e lo Stato in data 23 ottobre 2014, nel quale, al fine di «definire un "quadro
stabile e certo”» dei rapporti finanziari, sarebbe «precisamente ed
esaustivamente quantificato il contributo finalizzato alla sostenibilità del
debito pubblico fino all’anno 2017», mentre, per quanto riguarda le annualità
successive al 2017, sarebbe sancito l’impegno a rinegoziare nuovi accordi entro
il 30 giugno 2017.
In violazione degli obblighi
assunti con tale accordo, lo Stato avrebbe rideterminato il contributo della
Regione alla finanza pubblica, imponendole «di trasferire allo Stato fondi
"equivalenti” alla riduzione del fondo sanitario nazionale concordata con le
Regioni a statuto ordinario, per una quota virtualmente imputata alla Regione
ricorrente».
5.1.5.– Il nuovo concorso
regionale risulterebbe, inoltre, costituzionalmente illegittimo per
irragionevolezza e quindi per contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., essendo «fondato e parametrato sulla riduzione di un
Fondo al quale la Regione non partecipa», dal momento che essa finanzia
integralmente il proprio sistema sanitario con le compartecipazioni ai tributi
erariali, ai sensi dell’art. 1, comma 144, della legge 23 dicembre 1996, n. 662
(Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
Sarebbe dunque contrario
all’evocato parametro un sistema in cui il legislatore statale, avendo
diminuito il fabbisogno di spesa sanitaria nazionale, da un lato riduce i
trasferimenti in favore delle Regioni a statuto ordinario, dall’altro «chiede
alla Regione Friuli-Venezia Giulia la restituzione di parte delle
compartecipazioni che la stessa Regione introiterebbe in eccesso rispetto al
fabbisogno del sistema sanitario regionale», in quanto la Regione finanzia il
sistema sanitario «a proprio rischio» con le proprie entrate fiscali generali
e, dunque, non si potrebbe computare «una quota ideale di un finanziamento
statale che non c’è, al solo scopo di poterlo sottrarre alla Regione».
Del resto, ricorda la
ricorrente, per le Regioni a statuto speciale che finanziano il proprio
fabbisogno di spesa con risorse del proprio bilancio, la copertura della spesa
sanitaria regionale sarebbe «meramente teorica», dipendendo dall’andamento
delle compartecipazioni ai tributi erariali (che potrebbero crescere in misure
inferiore all’andamento della spesa sanitaria programmata), i cui proventi sono
anche incisi dagli accantonamenti applicati in base alle misure di
coordinamento finanziario fino ad oggi consolidatesi nonché dalle misure di
agevolazione introdotte dallo Stato sui tributi erariali derivati, ciò che
avrebbe influito sulla capacità dell’ente di finanziare la propria spesa
sanitaria. A tale ultimo proposito, la ricorrente indica, come esempio, il
dimezzamento degli introiti a titolo d’imposta regionale sulle attività
produttive (IRAP) – accertati, nell’esercizio 2016, per circa 200 milioni di
euro, a fronte dei 400 milioni di euro del 2015 – i cui effetti sarebbero stati
automaticamente compensati, per le sole Regioni a statuto ordinario (e dunque
con un ulteriore profilo di irragionevolezza, oltre che di discriminazione),
con una maggiore aliquota di partecipazione all’imposta sul valore aggiunto
(IVA).
Tale vizio ridonderebbe sulle
competenze che la Regione esercita in materia di «igiene e sanità, assistenza
sanitaria ed ospedaliera», ai sensi dell’art. 4 (recte:
5), comma 1, n. 16) dello statuto di autonomia (oppure, ove ritenuto più
favorevole, in materia di tutela della salute, ai sensi dell’art. 117, terzo
comma, Cost, in combinazione con l’art. 10 della
legge cost. n. 3 del 2001).
5.1.6.– Risulterebbe, inoltre, «evidente» la
disparità di trattamento operata dal quarto periodo del comma 392 dell’art. 1
della legge n. 232 del 2016, nella parte in cui non estende anche alla Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia la clausola di salvaguardia dell’accordo
stipulato con il Governo, trattandosi di situazioni «comparabili con
riferimento agli obblighi di concorso alla finanza pubblica».
5.1.7.– In via subordinata, con riferimento al
primo periodo dell’appena citato comma 392, la Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia prospetta la violazione del principio di leale collaborazione e, ancora,
del principio di ragionevolezza e di eguaglianza.
Tale disposizione, infatti,
avrebbe ridotto il fondo sanitario nazionale «in misura ulteriore rispetto a
quanto determinato con l’intesa dell’11 febbraio 2016», e, nonostante la
ricorrente non abbia sottoscritto la predetta intesa, essa avrebbe comunque
interesse a che lo Stato non aumenti il contributo di parte regionale rispetto
a quanto concordato, visto che una quota di tale differenza sarebbe posta a
carico della Regione stessa. Anzi, ove «la disposizione fosse intesa nel senso
che l’intera differenza ("gli effetti finanziari previsti dal presente comma”)
è posta a carico delle sole Regioni a statuto speciale e delle Province
autonome, palese sarebbe anche l’irragionevolezza e la discriminatorietà»
della norma, in quanto non solo tali enti sarebbero chiamati a concorrere
secondo quanto sancito dall’intesa dell’11 febbraio 2016 (mentre non
dovrebbero, non partecipando al Fondo sanitario nazionale), ma in aggiunta
sarebbe loro accollata «l’ulteriore misura di concorso».
5.1.8.– In conclusione, la
ricorrente osserva che l’ulteriore misura di concorso finanziario non potrebbe
essere giustificata con la competenza concorrente dello Stato in materia di
coordinamento della finanza pubblica, giacché il sistema sanitario regionale è
integralmente finanziato dalla Regione e, quando lo Stato non concorre al
finanziamento della spesa sanitaria, «neppure ha titolo per dettare norme di
coordinamento finanziario» (viene citata la sentenza n. 125 del
2015).
Il contributo non sarebbe
«costituzionalmente giustificabile» nemmeno come forma di concorso al
miglioramento dei saldi di finanza pubblica del conto consolidato della
pubblica amministrazione, nel quadro degli obblighi che derivano dalla
partecipazione dell’Italia all’Unione europea, in quanto a tali obblighi la
Regione ricorrente fa «ordinariamente fronte» attraverso l’osservanza delle
regole sul pareggio di bilancio stabilite dall’art. 9 della legge n. 243 del
2012. A tal proposito, la ricorrente riconosce che il comma 5 dell’art. 9
citato consente la previsione di ulteriori obblighi a carico degli enti
territoriali, ma, osserva, il successivo comma 6 precisa che le disposizioni
del comma 5 «si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province
autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi
statuti e con le relative norme di attuazione». Tale compatibilità, a parere
della ricorrente, difetterebbe, sia sotto il profilo del metodo, sia con
riferimento al contenuto.
Infine, neppure potrebbero
essere addotte «straordinarie contingenze di finanza pubblica», in quanto
queste ultime non parrebbero «concretamente sussistere» e, in ogni caso, non
potrebbero «alterare il riparto costituzionale delle competenze», senza contare
che la misura non sarebbe «affatto occasionale ed eccezionale», ma «addirittura
estesa fino al 2020 dal comma 528», anche per questa ragione censurato.
5.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato non fondato, sulla base delle medesime argomentazioni addotte
nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato su ricorso della Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
ed illustrate al precedente punto 1.5.
Ha aggiunto, tuttavia, con
specifico riferimento alla censura incentrata sulla violazione del principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. – per la
particolare considerazione riservata, dalle disposizioni impugnate, all’accordo
concluso tra lo Stato, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le
Province autonome di Trento e di Bolzano – che la posizione di tali autonomie
speciali «risulta oggettivamente differenziata» rispetto alle altre, in quanto
l’accordo sottoscritto dai predetti enti, diversamente dagli altri accordi
stipulati con le altre autonomie speciali, «fissa limiti alle facoltà dello
Stato di modificare i contributi ivi previsti per far fronte alle esigenze di
finanza pubblica».
6.– La Regione Lombardia, con ricorso
notificato il 20 febbraio 2017 e depositato il 27 febbraio 2017 (reg. ric. n.
23 del 2017), ha impugnato, tra gli altri, il comma 528 dell’art. 1 della
legge n. 232 del 2016.
6.1.– La ricorrente osserva che la disposizione
impugnata ha modificato il comma 680 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015,
estendendo l’obbligo per le Regioni di contribuire alla finanza pubblica fino a
tutto il 2020, nonché stabilendo che, nel rideterminare le modalità di
acquisizione delle risorse da parte dello Stato in caso di mancato
raggiungimento dell’intesa entro il 31 gennaio di ciascun anno, sia anche possibile
«prevedere versamenti da parte delle regioni interessate».
6.1.1.– In tal modo sarebbe
stata imposta, non una riduzione di spesa per ragioni di coordinamento
finanziario, ma «una vera e propria sottrazione di risorse alle Regioni
mediante un transito finanziario all’inverso a favore dello Stato», in
violazione del terzo comma (non essendo tali versamenti collegati
all’istituzione di un apposito fondo perequativo) e del quinto comma (non
essendo prevista la destinazione di somme aggiuntive) dell’art. 119 Cost. ed in contrasto con la
stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (viene citata la sentenza n. 79 del
2014).
6.1.2.– Quanto, in
particolare, all’estensione di un anno del contributo alla finanza pubblica
previsto dal comma 680 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015, la ricorrente
ha osservato che se è vero che il legislatore statale può imporre limiti alla
spesa per finalità di coordinamento della finanza pubblica e per raggiungere
obiettivi di riequilibrio, incidendo anche sulla spesa corrente, ciò sarebbe
tuttavia possibile – secondo la giurisprudenza costituzionale – solo nel
rispetto del carattere della necessaria transitorietà della misura (sono
richiamate le sentenze n. 23 e n. 22 del 2014
e n. 287 del
2013).
La disposizione impugnata,
«lungi dall’essere transitoria», assumerebbe «sempre più il carattere della
stabilità», e, in quanto tale, sarebbe contraria ai principi sanciti sul punto
dalla Corte costituzionale.
Inoltre consentirebbe allo
Stato di imporre una distribuzione del sacrificio disomogenea, tenendo "anche”
conto del prodotto interno lordo (PIL) e della popolazione residente, senza
contemplare il passaggio per un fondo perequativo ex art. 119, terzo comma, Cost. e «senza fare i conti con le
premesse e gli obiettivi indicati nel comma 5 dell’art. 119», oltre che
omettendo di «enunciare un vincolo a carico dello Stato alla futura
erogazione».
Sempre nella sentenza n. 79 del
2014, invece, la Corte costituzionale avrebbe distinto tra l’obbligo di
tutti gli enti del settore pubblico allargato, incluse le Regioni, di fornire
un contributo alla finanza pubblica – secondo criteri omogenei – e gli
interventi di perequazione degli squilibri economici, chiarendo che questa
seconda strada è quella che viene percorsa quando si chiedono sacrifici
differenziati e che essa deve necessariamente passare per le forme dell’art.
119, terzo e quinto comma, Cost.
La norma impugnata, in
definitiva, non mirerebbe affatto ad attuare «un obbligo indefettibile di tutti
gli enti del settore pubblico allargato» di proporzionalmente contribuire agli
oneri delle manovre di finanza pubblica, ma vorrebbe, invece, «consentire allo
Stato dei prelievi dai contorni oltretutto indefiniti e differenziati», al di
fuori delle forme imposte dai parametri costituzionali evocati.
6.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato non fondato.
Secondo la difesa statale, in
particolare, la sentenza
n. 79 del 2014 della Corte costituzionale, citata dalla ricorrente, non
avrebbe dichiarato «illegittimo in sé» il recupero al bilancio statale di
risorse proprie regionali, ma soltanto sancito l’incostituzionalità di
meccanismi che commisurano le riduzioni di spesa all’ammontare delle spese
sostenute dalle Regioni per i consumi intermedi, in quanto i medesimi
determinerebbero un effetto perequativo implicito che non soddisfa i requisiti
di cui all’art. 119 Cost. Effetto perequativo
implicito che sarebbe stato escluso, in relazione proprio alle disposizioni
"prorogate” di cui si discute, impositive di contributi alla finanza pubblica,
dalle successive sentenze n. 65 e n. 141 del 2016,
le quali avrebbero chiarito che le disposizioni censurate non comportano,
neppure indirettamente, «una riduzione degli squilibri tra le Regioni, mirando
piuttosto a coinvolgere tutti gli enti nell’opera di risanamento, secondo
criteri di progressività dello sforzo, proporzionati alla dimensione del PIL e
della popolazione, senza alcun effetto di livellamento».
In ogni caso, osserva
l’Avvocatura generale dello Stato, le doglianze regionali dovrebbero
considerarsi «superate alla luce dell’Intesa sancita in sede di Conferenza
Stato-Regioni nella seduta del 23 febbraio 2017», in cui si sarebbe previsto un
accordo tra Governo e Regioni in merito alle proposte normative da approvare in
apposito provvedimento, tra cui un emendamento volto ad eliminare l’espressa
previsione della possibilità di versamenti diretti al bilancio statale, con
conseguente sopravvenuta carenza di interesse della Regione ricorrente a
coltivare l’impugnazione.
6.3.– Con atto depositato il
30 agosto 2017, in forza di delibera di Giunta regionale del 12 luglio 2017, la
Regione Lombardia ha parzialmente rinunciato al ricorso, in considerazione del
fatto che l’art. 28 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni
urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali,
ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, in legge 21 giugno 2017, n. 96, ha
soppresso, all’art. 1, comma 680, secondo periodo, della legge n. 208 del 2015,
le parole: «inclusa la possibilità di prevedere versamenti da parte delle
regioni interessate,», che erano state aggiunte proprio dal comma 528 dell’art.
1 della legge n. 232 del 2016.
La rinuncia, dunque, opera
solo per i profili di doglianza connessi alla parte di disposizione soppressa,
fatti «salvi gli ulteriori e diversi motivi di impugnativa anche in relazione
al predetto comma 528 dell’art. 1 della legge 232/2016», rispetto ai quali la
Regione Lombardia conferma «il pieno interesse alla decisione».
6.4.– L’Avvocatura generale dello Stato, in
data 10 novembre 2017, ha depositato la deliberazione del 19 ottobre 2017 con
la quale il Consiglio dei ministri ha accettato la rinuncia parziale al ricorso
della Regione Lombardia.
7.– La Provincia autonoma di
Trento, con ricorso
notificato il 20 febbraio 2017 e depositato il 28 febbraio 2017 (reg. ric. n.
24 del 2017), ha impugnato, tra gli altri, i commi 392, primo, secondo e
terzo periodo, e 394 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, ritenuti in
contrasto, per la parte di ricorso qui esaminata, con: gli artt. 8, numero 1),
9, numero 10), 16, 69, 79, 80, 81, 103, 104 e 107 del d.P.R. n. 670 del 1972, nonché le correlative norme di
attuazione in materia finanziaria (contenute nel d.lgs.
n. 268 del 1992); gli artt. 117, terzo comma,
e 119 Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge
cost. n. 3 del 2001; il principio di leale
collaborazione, in relazione all’art. 120 Cost. ed
all’accordo del 15 ottobre 2014, recepito con legge
n. 190 del 2014; il principio di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 97 Cost.;
l’art. 27 della legge
n. 42 del 2009; l’art.
81 Cost. e l’art. 9
della legge
n. 243 del 2012.
7.1.– La ricorrente, in premessa, chiarisce di
non ignorare l’esistenza della clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1,
comma 638, della legge n. 232 del 2016, ma esclude che essa sia idonea «a
evitare che le disposizioni specificamente indirizzate alle autonomie speciali,
e in particolar modo alla Provincia autonoma di Trento (nonché aventi contenuto
lesivo dell’autonomia stessa, come le norme impugnate), possano trovare
comunque applicazione».
7.1.1.– La Provincia autonoma di Trento passa,
poi, ad illustrare il contenuto normativo delle disposizioni impugnate e,
soffermandosi sul quarto periodo del comma 392, ritiene che «la posizione della
ricorrente Provincia dovrebbe essere perfettamente salvaguardata, dal momento
che essa corrisponderebbe pienamente a quella concordata con lo Stato».
Tuttavia, aggiunge che «non è chiaro se sia realmente cosi», dal momento che il
periodo precedente a sua volta espressamente prevede che anche «le province
autonome di Trento e di Bolzano» siano tenute a concludere accordi diretti ad
assicurare «gli effetti finanziari previsti dal presente comma», con
riferimento alla disposizione che pone a carico delle Regioni ad autonomia
speciale un contributo da determinarsi mediante accordo con lo Stato,
«correlato alla riduzione del Fondo sanitario nazionale».
Inoltre, anche la norma
contenuta nel comma 394 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016 – che
disciplina l’intervento statale in caso di mancata stipula degli accordi entro
il 31 gennaio 2017 – «potrebbe essere ritenuta applicabile alla Provincia
autonoma di Trento», stante la menzione delle «regioni a statuto speciale»
unitariamente considerate.
Di qui, l’impugnativa proposta
in via cautelativa.
7.1.2.– Secondo la ricorrente,
le disposizioni censurate costituiscono attuazione illegittima di quanto già
previsto dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, il quale, a sua
volta, imponeva alle autonome speciali un ulteriore contributo al risanamento
della finanza pubblica, avendo cura di precisare (al terzo periodo), la
necessità di stipulare appositi accordi con ciascuna di esse e salvaguardando
(al quinto periodo) la posizione della Regione autonoma Trentino-Alto
Adige/Südtirol e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, prevedendo
che, per queste ultime, l’applicazione delle disposizioni avvenisse nel
rispetto dell’accordo sottoscritto con il Governo in data 15 ottobre 2014 e
recepito con legge n. 190 del 2014.
Anche in quel caso, tuttavia, ricorda
inoltre la Provincia autonoma di Trento, non era chiaro come la disposizione
del quarto periodo (impositivo dell’obbligo di assicurare il finanziamento dei
LEA, come rideterminato appunto ai sensi dell’art. 1, comma 680, della legge n.
232 del 2016), che ancora espressamente menzionava le Province autonome, si
coordinasse con il quinto periodo, sicché era stato necessario, ancora una
volta, ricorrere alla Corte costituzionale.
7.1.3.– La ricorrente espone
che, in attuazione dell’appena menzionato comma 680, lo Stato e le Regioni
hanno concluso un’intesa in data 11 febbraio 2016, nella quale hanno
individuato nel fondo sanitario nazionale – di cui è stata conseguentemente
concordata la riduzione di 3.500 milioni di euro per il 2017 e di 5.000 milioni
di euro a decorrere dal 2018 – «la principale posta su cui concentrare la
riduzione di spesa relativa al contributo» (quantificato dalla medesima
disposizione di legge in 3.980 milioni di euro per il 2017 e in 5.480 milioni
di euro per il 2018 e il 2019) e hanno rinviato «a successive intese le
determinazioni inerenti i restanti 480 milioni di euro», contemplando, in
mancanza, una clausola di salvaguardia secondo cui il fondo sanitario nazionale
viene in ogni caso ridotto degli importi oggetto dell’intesa.
Sottolinea, ancora, la
ricorrente che le Regioni speciali e le Province autonome che non avevano
partecipato all’intesa dell’11 febbraio 2016 avevano rifiutato «di aderire ad
alcun riparto che prevedesse un onere a proprio carico», nelle more dell’impugnazione
proposta, innanzi alla Corte costituzionale, contro il comma 680 più volte
citato, anche perché, ad eccezione della Regione Siciliana, nessuna delle altre
autonomie speciali partecipa alla ripartizione del fondo sanitario nazionale,
che era stato invece individuato, nell’intesa raggiunta l’11 febbraio 2016,
come «oggetto del "taglio”».
Del resto, rammenta infine la
ricorrente, la suddetta intesa dell’11 febbraio 2016 prevedeva espressamente
che la parte del contributo al risanamento dei conti pubblici a carico delle
Regioni a statuto speciale venisse «demandata a singoli accordi bilaterali tra
il Governo e le singole Regioni a statuto speciale», e che, in mancanza del
raggiungimento di un accordo «entro un termine ragionevole», la copertura
integrale del contributo sarebbe stata conseguita con una maggiorazione della
quota gravante sulle Regioni a statuto ordinario, non potendo la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano disporre della posizione delle autonomie speciali senza il
loro assenso.
7.1.4.– In questo quadro si
inseriscono le disposizioni impugnate, le quali, a parere della ricorrente:
riducono il fondo sanitario nazionale in misura ulteriore rispetto a quella
fissata con l’intesa dell’11 febbraio 2016 (comma 392, primo e secondo
periodo); impongono alle Regioni speciali ed alle Province autonome di
concorrere a tali misure, sostenendo parte di tale contributo, determinato
mediante intese bilaterali (comma 392, terzo periodo); impongono alle Regioni
speciali, con i medesimi accordi di cui al comma 392, di assicurare il
contributo a loro carico previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016 (comma
394); consentono al Ministero dell’economia e delle finanze di attuare, con
proprio decreto, l’intesa dell’11 febbraio 2016, al fine di garantire il
conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per il settore
sanitario (comma 394).
Tali previsioni sarebbero
costituzionalmente illegittime, ove si dovessero interpretare nel senso di
imporre anche alle Province autonome di sostenere il contributo di cui al primo
periodo del comma 392, nonostante la precisa clausola di salvaguardia di cui al
quarto periodo del medesimo comma 392, o nel senso di imporre anche alle
Province autonome di assicurare il contributo a loro carico previsto
dall’intesa conclusa in data 11 febbraio 2016.
Secondo la ricorrente,
peraltro, proprio tale interpretazione sembrerebbe essere alla base della nota
del 31 gennaio 2017, con la quale il Ministro degli affari regionali ha
sottoposto alla Provincia autonoma di Trento, per la sottoscrizione, una bozza
di accordo relativo ai contributi di cui all’art. 1, commi 392 e 394, della
legge n. 232 del 2016, richiedendo il versamento all’entrata del bilancio dello
Stato di tali contributi entro il 30 aprile di ciascun anno (2017, 2018, e
2019) e avvisando che, in assenza di tale versamento nel suddetto termine, i
contributi sarebbero stati trattenuti a valere sulle quote di tributi erariali
spettanti alle Province autonome.
7.1.5.– L’imposizione di un
ulteriore contributo unilaterale alla manovra di finanza pubblica, correlato al
finanziamento del fabbisogno sanitario, violerebbe l’autonomia finanziaria
dell’ente, nei termini in cui essa è garantita dallo statuto speciale, e
lederebbe, altresì, l’accordo concluso con lo Stato in data 15 ottobre 2014 e
recepito dall’art. 1, commi da 406 a 413, della legge n. 190 del 2014, violando
il principio di leale collaborazione (di cui all’art. 120, secondo comma, Cost.) e il principio pattizio (desumibile sia dagli artt.
103 e 104 dello statuto speciale, sia dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009)
che regola i rapporti finanziari tra lo Stato e la Provincia autonoma.
In particolare, sarebbe
«chiaramente violato» l’art. 79, comma 4, dello statuto di autonomia, che
porrebbe «una clausola di esaustività in relazione al concorso della Provincia
autonoma agli obblighi di finanza pubblica», nonché le ulteriori disposizioni
del medesimo art. 79, come introdotte dalla legge n. 190 del 2014, in
esecuzione dell’accordo concluso con lo Stato in data 15 ottobre 2014, che già
avrebbero «precisamente ed esaustivamente quantificato l’impegno finanziario
della Provincia autonoma a titolo di concorso agli obblighi di finanza pubblica
anche per gli anni considerati dalla misura qui impugnata», e che potrebbero
essere modificate esclusivamente con la procedura prevista dall’articolo 104
dello statuto di autonomia.
7.1.6.– Secondo la ricorrente, la violazione
degli evocati parametri costituzionali e statutari non sarebbe esclusa dalla
previsione di singoli accordi con lo Stato, da stipulare entro il 31 gennaio
2017.
A prescindere dalla già
operata considerazione, secondo cui gli oneri e pesi gravanti sulla finanza
provinciale sarebbero già stati definiti con l’accordo del 2014 e trasfusi
nell’art. 79 dello statuto speciale e nelle altre disposizioni concordate
introdotte dalla legge n. 190 del 2014 (sicché ogni ulteriore richiesta sarebbe
«comunque in violazione delle regole stabilite»), la ricorrente osserva che la
«misura complessiva» del nuovo concorso delle autonomie speciali sarebbe già
definita unilateralmente dalla legge statale.
Conseguentemente, la
conclusione dei previsti accordi sarebbe «obbligata e dovuta entro un termine
molto stretto (31 gennaio 2017)», a pena di un intervento unilaterale statale
che attui comunque, entro 30 giorni decorrenti dal predetto termine, la
riduzione prevista per gli anni 2017 e successivi.
Tutto ciò, ancora una volta,
in violazione dell’accordo concluso tra la Provincia autonoma di Trento e lo
Stato in data 15 ottobre 2014, non ricorrendo «le eccezionali esigenze di
finanza pubblica che ne consentirebbero, entro certi limiti, una variazione
unilaterale».
In violazione degli obblighi
assunti con tale accordo, lo Stato avrebbe rideterminato il contributo della
Provincia autonoma di Trento alla finanza pubblica, imponendole «di trasferire
allo Stato fondi "equivalenti” alla riduzione del fondo sanitario nazionale
concordata con le Regioni a statuto ordinario, per una quota virtualmente
imputata alla Provincia autonoma ricorrente».
7.1.7.– Allo stesso modo, sarebbe illegittimo,
sempre per violazione del principio di leale collaborazione e delle regole
dettate dall’art. 120, secondo comma, Cost., il comma
394, se interpretato nel senso di una attribuzione al Ministro dell’economia e
finanze, di concerto con il Ministro della salute, del potere unilaterale di
imporre alla Provincia i suddetti contributi, decorso il termine del 31 gennaio
2017, anche in assenza di accordo.
7.1.8.– Il nuovo concorso provinciale
risulterebbe, inoltre, costituzionalmente illegittimo per irragionevolezza e
quindi per contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost.,
essendo «fondato e parametrato sulla riduzione di un Fondo» al quale la Provincia
non partecipa, dal momento che essa finanzia integralmente il proprio sistema
sanitario con le compartecipazioni ai tributi erariali, ai sensi dell’art. 34,
comma 3, della legge n. 724 del 1994.
Sarebbe dunque contrario
all’evocato parametro un sistema in cui il legislatore statale, avendo
diminuito il fabbisogno di spesa sanitaria nazionale, da un lato riduce i
trasferimenti in favore delle Regioni a statuto ordinario, dall’altro «chiede
alla Provincia autonoma la restituzione di parte delle compartecipazioni che la
stessa Provincia introiterebbe – secondo lo Stato – in eccesso rispetto al
fabbisogno del sistema sanitario regionale», in quanto la Provincia autonoma di
Trento finanzia il sistema sanitario «a proprio rischio» con le proprie entrate
fiscali generali e, dunque, non si potrebbe computare «una quota ideale di un
finanziamento statale che non c’è, al solo scopo di poterlo sottrarre alla
Provincia».
Del resto, ricorda la
ricorrente, per le autonomie speciali che finanziano il proprio fabbisogno di
spesa con risorse del proprio bilancio, la copertura della spesa sanitaria
regionale o provinciale sarebbe «meramente teorica», dipendendo dall’andamento
delle compartecipazioni ai tributi erariali (che potrebbero crescere in misura
inferiore all’andamento della spesa sanitaria programmata).
Tale vizio ridonderebbe sulle
competenze che la Provincia autonoma di Trento esercita in materia di
«organizzazione degli uffici e proprio personale», ai sensi degli artt. 8,
numero 1), e 16 dello statuto di autonomia, e in materia di «igiene e sanità,
ivi compresa l’assistenza sanitaria e ospedaliera», ai sensi degli artt. 9,
numero 10), e 16 dello statuto di autonomia (oppure, ove ritenuto più
favorevole, in materia di tutela della salute, ai sensi dell’art. 117, terzo
comma, Cost, in combinazione con l’art. 10 della
legge costituzionale n. 3 del 2001).
7.1.9.– In via subordinata, con riferimento al
primo periodo dell’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016, la Provincia
autonoma di Trento prospetta la violazione del principio di leale
collaborazione e, ancora, del principio di ragionevolezza e di eguaglianza.
Tale disposizione, infatti,
avrebbe ridotto il Fondo sanitario nazionale «in misura ulteriore rispetto a
quanto determinato con l’intesa dell’11 febbraio 2016», e, nonostante la
ricorrente non abbia sottoscritto la predetta intesa, essa avrebbe comunque
interesse a che lo Stato non aumenti il contributo di parte regionale rispetto
a quanto concordato, visto che una quota di tale differenza sarebbe posta a
carico della Provincia stessa (ove la norma dovesse essere così interpretata e
ritenuta legittima). Anzi, ove «la disposizione fosse intesa nel senso che
l’intera differenza ("gli effetti finanziari previsti dal presente comma”) è posta
a carico delle sole Regioni a statuto speciale e delle Province autonome,
palese sarebbe anche l’irragionevolezza e la discriminatorietà»
della norma, in quanto non solo tali enti sarebbero chiamati a concorrere
secondo quanto sancito dall’intesa dell’11 febbraio 2016 (quando essi non
dovrebbero, non partecipando al fondo sanitario nazionale), ma in aggiunta
sarebbe loro accollata «l’ulteriore misura di concorso».
7.1.10.– In conclusione, la
ricorrente osserva che l’ulteriore misura di concorso finanziario non potrebbe
essere giustificata con la competenza concorrente dello Stato in materia di
coordinamento della finanza pubblica, giacché il sistema sanitario provinciale
è integralmente finanziato dalla Provincia autonoma di Trento e, quando lo
Stato non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, «neppure ha titolo
per dettare norme di coordinamento finanziario» (viene citata la sentenza n. 125 del
2015).
Il contributo non sarebbe «costituzionalmente
giustificabile» nemmeno come forma di concorso al miglioramento dei saldi di
finanza pubblica del conto consolidato della pubblica amministrazione, nel
quadro degli obblighi che derivano dalla partecipazione dell’Italia all’Unione
europea, in quanto a tali obblighi la Provincia autonoma ricorrente fa
«ordinariamente fronte» attraverso l’osservanza delle regole sul pareggio di
bilancio stabilite dall’art. 9 della legge n. 243 del 2012. A tal proposito, la
ricorrente riconosce che il comma 5 dell’art. 9 citato consente la previsione
di ulteriori obblighi a carico degli enti territoriali, ma, osserva, il
successivo comma 6 precisa che le disposizioni del comma 5 «si applicano alle
regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano
compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di
attuazione». Tale compatibilità, a parere della ricorrente, difetterebbe, sia
sotto il profilo del metodo, sia con riferimento al contenuto.
7.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato inammissibile o, comunque, non fondato, riproponendo le difese articolate
nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato su ricorso della Provincia
autonoma di Bolzano ed illustrate al precedente punto 3.3.
8.– La Regione Siciliana, con ricorso
notificato il 20 febbraio 2017 e depositato il 28 febbraio 2017 (reg. ric. n.
25 del 2017), ha impugnato l’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del
2016.
8.1.– La ricorrente ritiene che la norma
censurata, nell’estendere al 2020 il contributo alla finanza pubblica già
previsto dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, comporterebbe
«ulteriori effetti negativi sul bilancio regionale», aggravati dalla
contemporanea introduzione della «possibilità di prevedere versamenti da parte
delle regioni interessate».
8.2.– Le indicate disposizioni sarebbero
contrastanti con gli artt.
81, ultimo comma, e 97, primo comma, Cost. «(per l’aspetto della garanzia degli equilibri di
bilancio delle pubbliche amministrazioni)», la cui lesione ridonderebbe,
limitandole, sia sulla «potestà amministrativa regionale sancita dall’art. 20
dello Statuto,
segnatamente negli ambiti attribuiti nelle materie di cui agli artt. 14, 15,
17», sia sull’autonomia di spesa «come sancita dall’art. 36 dello Statuto
e 2, comma 1, delle norme di attuazione dello statuto in materia finanziaria» (d.P.R.
26 luglio 1965, n. 1074, recante «Norme di attuazione dello Statuto della
Regione siciliana in materia finanziaria»).
Gli indicati parametri
statutari e di attuazione statutaria sarebbero, poi, anche autonomamente lesi
dalla disposizione censurata, unitamente all’art. 43 del regio
decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della
Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.
2.
Il comma 528 dell’art. 1 della
legge n. 232 del 2016, inoltre, sarebbe direttamente lesivo dell’art. 117, terzo comma, Cost. «sul coordinamento della
finanza pubblica», nonché dell’art. 119, primo,
secondo, terzo, quarto e ultimo comma, Cost.,
«anche in riferimento all’art. 10 della legge
costituzionale 3 del 2001».
Sarebbe, infine, violato il
principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
8.3.– La Regione Siciliana
muove dalla considerazione generale che il contributo da versare in forza del
citato art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, anche in seguito alla
modifica ad esso apportata dalla disposizione impugnata, «va a sommarsi alle
già insostenibili riduzioni di risorse subite dalla stessa Regione negli ultimi
anni», sicché sarebbe stato reso impossibile lo svolgimento delle funzioni
regionali, in quanto la finanza regionale sarebbe «già gravemente compromessa
dalla circostanza che al bilancio regionale affluisce solo una ridotta parte
del gettito tributario riscosso o meglio maturato […] in Sicilia».
La riprova sarebbe costituita
dal susseguirsi «delle precedenti leggi di bilancio», tutte impositive di
contributi alla finanza pubblica anche a carico della Regione Siciliana.
8.3.1.– Ciò posto, sarebbero, in primo luogo,
violati gli artt. 81, ultimo comma, e 97, primo comma, Cost.
(in relazione alla garanzia degli equilibri di
bilancio delle pubbliche amministrazioni), in quanto non sarebbe stata prevista
«alcuna specifica destinazione in ordine al contributo che la Regione è tenuta
a versare anche per l’anno 2020».
In particolare, la previsione
di un ulteriore contributo in favore dello Stato «mediante generico riferimento
ai risparmi di spesa», da concordarsi annualmente entro il 31 gennaio, non
sarebbe idonea ad assicurare la copertura finanziaria richiesta dalla disposizione
dell’art. 81, ultimo comma, Cost., non essendo stati
individuati «specificatamente i capitoli di spesa della Regione sui quali
effettuare i risparmi né quelli di entrata del bilancio dello Stato sui quali i
detti risparmi di spesa della Regione devono confluire».
Quanto alla lesione dell’art.
97, primo comma, Cost., sarebbe compromessa la possibilità di erogare servizi
«anche in settori di primaria importanza», per i quali la Regione Siciliana
«esercita competenza legislativa sia esclusiva che concorrente con le connesse
funzioni amministrative».
Verrebbero in rilievo, nello
specifico, ambiti relativi a diritti fondamentali dei cittadini «la cui
affermazione e tutela è garantita dalle disponibilità economiche della Regione
[…] quali istruzione, assistenza sociale ecc.».
Nella ricostruzione regionale,
la disposizione censurata, sottraendo «ulteriormente e genericamente» somme al
bilancio regionale «da riversare allo Stato senza specifica destinazione»,
inciderebbe «pesantemente» sull’espletamento delle funzioni di competenza
regionale.
La lesione delle citate
disposizioni costituzionali, quindi, ridonderebbe, incidendole «pesantemente»,
sulle prerogative legislative di cui agli artt. 14, 15 e 17 dello statuto di
autonomia e su quelle amministrative di cui al successivo art. 20,
compromettendo anche l’autonomia finanziaria regionale «con la sottrazione di
somme che, malgrado risparmiate dalla Regione per essere destinate
all’esercizio di proprie funzioni istituzionali, vanno ad impinguare le casse
dello Stato».
In definitiva, pur
riconoscendo il dovere delle pubbliche amministrazioni di concorrere
all’equilibrio finanziario del bilancio dello Stato ed alla sostenibilità del
debito pubblico, la ricorrente evidenzia che «tale obiettivo, perseguito con la
tecnica annualmente adottata dal legislatore statale, mette in crisi il
raggiungimento dell’equilibrio finanziario del bilancio regionale», violando
pertanto, «prevedendosene l’applicabilità a prescindere dalle necessarie norme
di attuazione, anche l’art. 43 dello Statuto».
8.3.2.– La «genericità della
destinazione del contributo», inoltre, sarebbe lesiva dell’art. 2, comma 1,
delle norme di attuazione dello statuto in materia finanziaria – come
sostituite dal decreto legislativo 11 dicembre 2016, n. 251 (Norme di
attuazione dello Statuto della Regione Siciliana recante modifiche al decreto
del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074, recante: «Norme di
attuazione dello Statuto della Regione Siciliana in materia finanziaria») –
laddove ribadisce che la riserva allo Stato di entrate tributarie presuppone
che il loro gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri
diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello
Stato specificate dalle leggi medesime.
8.3.3.– La Regione Siciliana lamenta la
violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in
quanto la disposizione censurata disporrebbe, con una tecnica legislativa asseritamente elusiva del principio di transitorietà,
l’«estensione del termine triennale di durata del concorso da parte del
legislatore».
La ricorrente si dimostra
consapevole della giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto legittime norme
statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni, in quanto espressione
della funzione di coordinamento della finanza pubblica spettante allo Stato, ma
ricorda che esse devono limitarsi a porre obiettivi di riequilibrio della
spesa, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se
non generale, della spesa corrente (sono richiamate, tra le più recenti, le
sentenze n. 65
del 2016, n.
218 e n. 189
del 2015).
Evidenzia, però, che la stessa
Corte costituzionale avrebbe chiarito che «il costante ricorso alla tecnica
normativa dell’estensione dell’ambito temporale di precedenti manovre, mediante
aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle originariamente previste»,
finirebbe «per porsi in contrasto con il canone della transitorietà, se
indefinitamente ripetuto».
E sarebbe appunto questo il
caso, dal momento che la disposizione censurata modificherebbe, vanificandola,
la previsione di concorso triennale sancita dall’art. 1, comma 680, della legge
n. 208 del 2015, sovrapponendosi, peraltro, alle precedenti manovre di finanza
pubblica, «in assenza di plausibili e riconoscibili ragioni che impediscano in
concreto al legislatore di ridefinire e rinnovare complessivamente, secondo le
ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio, il quadro delle relazioni
finanziarie tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, alla luce di mutamenti
sopravvenuti nella situazione economica del Paese».
Sarebbe dunque «evidente» la
violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. «considerato che, in ordine alle manovre di contenimento
della spesa pubblica a carico delle Regioni, delle Province e dei Comuni»,
sarebbe stata «sancita l’obbligatorietà del limite temporale massimo di durata
in un triennio».
8.3.4.– Per gli stessi motivi, sarebbe violato
anche l’art. 119 Cost., che tutela l’autonomia di
spesa della Regione, i cui commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto, anche
in riferimento all’art. 10 della legge cost. n. 3 del
2001 (invocabile in virtù della clausola di maggior favore recata dall’art. 10
della legge cost. n. 3 del 2001) sarebbero altresì
lesi in quanto la disposizione impugnata pregiudicherebbe «la capacità della
Regione di gestire responsabilmente le risorse economiche di cui dispone»,
incrinando il principio di responsabilità finanziaria ed impedendo alla stessa
di finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuitele.
Sotto altro profilo, sarebbe
in contrasto con l’evocato parametro la previsione del passaggio di risorse dal
bilancio regionale a quello statale (senza alcuna prescrizione sulla
destinazione che lo Stato dovrebbe imprimere ad esse), con conseguente lesione
dell’autonomia finanziaria di spesa e «capovolgimento» dei «meccanismi di compartecipazione
e di trasferimento di risorse dallo Stato alla periferia» (viene citata la sentenza n. 205 del
2016).
8.3.5.– Ulteriore doglianza è incentrata sulla
violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., per il fatto che la previsione del passaggio di
risorse dal bilancio regionale a quello statale «mediante generico riferimento ai
risparmi di spesa da concordarsi annualmente entro il 31 gennaio» non sarebbe
sufficiente a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione.
Difetterebbe, infatti, «il necessario accordo riguardo alla destinazione ai
capitoli del bilancio dello Stato sui quali i risparmi di spesa della Regione
devono confluire».
8.3.6.– Sarebbero, infine,
direttamente violati i parametri statutari di cui agli artt. 14, 15, 17, 20, 36
(quest’ultimo unitamente all’art. 2, comma 1, delle norme di attuazione dello
statuto in materia finanziaria) e 43, sui quali ridonderebbe la già illustrata
lesione degli artt. 81, ultimo comma e 97, primo comma, Cost.,
per le «refluenze negative sul bilancio della
Regione» che impedirebbero di far «fronte alle funzioni amministrative nelle
materie in cui ha competenza legislativa esclusiva e concorrente».
8.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito
nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che il ricorso sia
dichiarato inammissibile o, comunque, non fondato.
La difesa statale sottolinea,
preliminarmente, che la gran parte delle censure avanzate dalla ricorrente sono
volte ad evidenziare, genericamente (e, dunque, inammissibilmente), «i comprensibili
problemi scaturenti a carico della Regione per la limitazione di quanto reso
disponibile in bilancio, e la conseguente difficoltà a far fronte, a propria
volta, all’esigenza di pareggio di bilancio».
Ricorda, tuttavia, che la
Corte costituzionale, in numerose pronunce, avrebbe considerato
costituzionalmente legittima l’imposizione unilaterale, anche alle Regioni ad
autonomia speciale, di un contributo al risanamento della finanza pubblica, nel
rispetto del canone della transitorietà e del principio consensualistico.
L’Avvocatura generale dello
Stato poi, sottolinea che, in base alla disposizione censurata, alla specifica
individuazione delle somme «che saranno destinate al contributo regionale a
favore dello Stato si procederà con Accordi annuali tra Stato e Regione»,
proprio nell’ottica della leale collaborazione, in vista dell’individuazione
del sacrificio «per quanto possibile meno gravoso per la finanza regionale».
La difesa statale ricorda che
la sentenza n.
141 del 2016 della Corte costituzionale avrebbe «sancito la validità» di
disposizioni legislative che si limitano, proprio come quella impugnata, ad
estendere di una annualità il confine temporale di operatività delle misure di
contenimento della spesa.
In ogni caso, osserva infine
l’Avvocatura generale dello Stato, le doglianze regionali dovrebbero
considerarsi «superate alla luce dell’Intesa sancita in sede di Conferenza
Stato-Regioni nella seduta del 23 febbraio 2017», in cui si sarebbe previsto un
accordo tra Governo e Regioni in merito alle proposte normative da approvare in
apposito provvedimento, tra cui un emendamento volto ad eliminare l’espressa
previsione della possibilità di versamenti diretti al bilancio statale, con
conseguente sopravvenuta carenza di interesse della Regione ricorrente a
coltivare l’impugnazione.
9.– In vista dell’udienza pubblica sono state
depositate memorie.
9.1.– La Regione Veneto, con
riferimento all’impugnativa del comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del
2016, richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 192 e n. 169 del 2017,
dalle quali si trarrebbero argomenti a sostegno della censura incentrata sul
carattere totalmente unilaterale e non proporzionato della determinazione del
livello del concorso statale al finanziamento del fabbisogno sanitario in
relazione al triennio 2017-2019.
In particolare, la sentenza n. 169 del
2017, dopo aver enucleato la nozione di "spesa costituzionalmente
necessaria” in riferimento a quella destinata a finanziare il diritto sociale
alla salute, avrebbe posto il principio di leale collaborazione «al centro
della corretta determinazione delle risorse necessarie a tale fine», allo scopo
di garantire l’effettiva programmabilità e la reale copertura finanziaria dei
servizi.
Tale leale collaborazione
sarebbe del tutto difettata, anche in considerazione del mancato rinnovo del
«tradizionale Patto della Salute».
La successiva sentenza n. 192 del
2017 non avrebbe smentito tale assunto, avendo ricordato che in base
all’art. 26, comma 1, del d.lgs. n. 68 del 2011, il fabbisogno sanitario
nazionale standard è determinato tramite intesa: «[s]olo
in relazione alla deroga unilateralmente disposta dalla legge di stabilità per il
2016» la sentenza avrebbe espresso il principio per cui l’accordo non può
condizionare l’esercizio della funzione legislativa.
La Regione Veneto sottolinea,
a questo proposito, che la disposizione impugnata non solo ridurrebbe di oltre
un miliardo di euro l’importo che era stato determinato, per il 2017 e il 2018,
nell’intesa dell’11 febbraio 2016, ma fisserebbe, del tutto unilateralmente, a
115 miliardi di euro l’importo per il 2019, senza che su tale cifra sia mai
stata raggiunta un’intesa o avviata una qualsiasi procedura concertativa.
Evidenzia, poi, che, in
conseguenza della mancata stipula delle intese con le autonomie speciali, il
Governo avrebbe imposto un «supplemento di manovra a carico delle regioni
ordinarie», rideterminando, con il decreto del Ministero dell’economia e delle
finanze 5 giugno 2017 (Rideterminazione del livello del fabbisogno sanitario
nazionale), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13 giugno 2017, il
livello del fabbisogno sanitario nazionale, riducendolo ulteriormente di 423
milioni di euro per il 2017 e, a decorrere dal 2018 (e dunque con carattere
permanente), di 604 milioni di euro.
A sostegno della censura
relativa alla mancanza di adeguata istruttoria della riduzione del livello del
finanziamento del servizio sanitario nazionale, la Regione Veneto richiama i
risultati dell’indagine conoscitiva della Commissione sanità del Senato
pubblicata il 18 gennaio 2018, da cui emergerebbe che l’aumento di circa un
miliardo di euro del finanziamento del Servizio sanitario nazionale per l’anno
2017 non sarebbe sufficiente a coprire le maggiori spese già imposte alle
Regioni per il rinnovo dei contratti e delle convenzioni in atto (per un
importo stimato di circa 1,3 miliardi di euro). Richiama altresì quanto
riportato nell’audizione della Corte dei conti – innanzi alle Commissioni
congiunte bilancio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati –
sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2017, da cui
emergerebbe che la «forte pressione sul contenimento delle risorse si è
riflessa nelle crescenti difficoltà di alcune regioni di garantire con
carattere di efficienza e appropriatezza i livelli essenziali di assistenza».
Con specifico riguardo al
servizio sanitario della Regione Veneto, la ricorrente deduce la necessità di
ridurre alcune prestazioni «in materia di Lea», per effetto «delle minori
risorse disponibili», indicando, a titolo esemplificativo: la fissazione di
nuovi limiti di costo alle aziende sanitarie autorizzate alla prescrizione dei nuovi
farmaci per l’epatite C, per cui nel corso del 2017 sarebbero stati trattati
3.622 pazienti degli oltre 5.000 «arruolabili»; l’impossibilità di trattare con
farmaci specifici il 78 per cento dei pazienti con frattura vertebrale o di
femore o in terapia con corticosteroidi; la necessità di fronteggiare una
perdita previsionale complessiva delle aziende sanitarie pari a oltre 161
milioni di euro.
Quanto al comma 527 dell’art.
1 della legge n. 232 del 2016, la Regione Veneto aggiunge l’auspicio che la Corte
costituzionale dia seguito al secondo "monito” lanciato al legislatore con la
sentenza n. 154 del 2017, sottolineando che la disposizione impugnata – questa
volta – è successiva alla pubblicazione della sentenza n. 141 del
2016.
Illustra, inoltre, offrendo un
prospetto in termini di cifre e differenziali di spesa, la riduzione delle
prestazioni che il contributo imposto dalla disposizione in esame ha
determinato in ambiti connessi a diritti sociali, quali il fondo per le
politiche sociali e il fondo per le autosufficienze, che hanno subito una
diminuzione degli stanziamenti pari all’80 per cento.
Infine, quanto all’art. 1,
comma 528, della legge n. 232 del 2016, la Regione Veneto ribadisce le
argomentazioni già poste a fondamento del ricorso introduttivo.
9.2.– La Provincia autonoma di Bolzano illustra
ulteriormente i motivi di ricorso, richiamando giurisprudenza costituzionale
successiva al deposito dell’atto introduttivo del giudizio.
9.3.– La Regione autonoma
Sardegna indica le ragioni per cui i principi espressi nella sentenza n. 154 del
2017, che ha rigettato il ricorso proposto contro l’art. 1, comma 680, della
legge n. 208 del 2015, non sarebbero automaticamente applicabili anche al caso
qui in esame (a differenza di quanto ritenuto, invece, dall’Avvocatura generale
dello Stato nella memoria pure depositata in prossimità dell’udienza),
sottolineando che l’art. 1, comma 394, della legge n. 232 del 2016 avrebbe
ridotto i «margini di negoziabilità», imponendo a carico delle Regioni ad
autonomia differenziata l’obbligo di assicurare «il contributo a loro carico
previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016», sicché tali autonomie speciali
dovranno «necessariamente "coprire” la somma della quale le Regioni ordinarie
non si sono fatte carico», in violazione dei parametri costituzionali e
statutari evocati. Tale violazione non sarebbe evitabile neppure con
un’interpretazione adeguatrice, a ciò ostando la littera legis.
La ricorrente, infine,
sottolinea che non ha mai inteso sottrarsi al leale confronto con il Governo e,
per comprovarlo, esibisce documentazione attestante le iniziative assunte nei
confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri competenti
al fine di giungere ad un nuovo accordo che sostituisse quello concluso in data
21 luglio 2014, tutte rimaste inascoltate: da qui, in considerazione del
continuo stratificarsi di interventi normativi e dell’inidoneità dei precedenti
accordi di finanza pubblica a garantire una stabilità nelle reciproche
relazioni finanziarie, l’«evidente compromissione» del principio di veridicità
e completezza del bilancio.
9.4.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
argomenta ulteriormente i motivi di ricorso, alla luce delle difese spiegate
dall’Avvocatura generale dello Stato e della sentenza n. 154 del
2017, che ha deciso il ricorso proposto contro l’art. 1, comma 680, della
legge n. 208 del 2015.
La ricorrente, in particolare,
conviene sulle differenze che caratterizzano l’accordo da essa concluso con lo
Stato in data 23 ottobre 2014 rispetto a quello stipulato dalle autonomie della
Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol con il Governo in data 15 ottobre 2014, ma
illustra le ragioni per cui, a suo giudizio, al primo non possa essere «del
tutto negata portata garantistica soltanto in ragione della menzione, contenuta
all’art. 3, punto 4, dell’accordo, della possibilità per lo Stato di modificare
gli importi concordati», richiamando, in particolare, il principio di buona
fede che governa i rapporti tra le parti contrattuali. Tale principio
consentirebbe di imporre nuovi contributi solo in presenza di esigenze di
finanza pubblica «nuove e sopravvenute» rispetto a quelle già valutate
nell’accordo: queste sopravvenienze, a parere della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, non sussisterebbero.
La ricorrente, infine,
evidenzia che l’art. 1, comma 394, della legge n. 232 del 2016 sembrerebbe
suggerire che dall’intesa dell’11 febbraio 2016 sia sorto un vincolo giuridico
a carico delle Regioni a statuto speciale, che sembrerebbe addirittura
coercibile attraverso un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.
La ricorrente, infine, segnala
che in data 31 gennaio 2018 ha concluso un nuovo accordo in materia finanziaria
di finanza pubblica con il Governo, a dimostrazione di non essersi mai
sottratta al dovere costituzionale di collaborare con lo Stato al coordinamento
della finanza pubblica.
9.5.– La Regione Lombardia illustra i motivi di
ricorso aventi ad oggetto disposizioni diverse dall’art. 1, comma 528 della
legge n. 232 del 2016, limitandosi, quanto a quest’ultimo, a richiamare il
contenuto della sentenza
n. 141 del 2016 ed il "monito” in essa contenuta in ordine alla necessità
che le misure di contenimento della spesa pubblica rispettino il canone della
transitorietà.
9.6.– La Provincia autonoma di Trento sviluppa
i motivi di ricorso, riportando ampi passi della motivazione della sentenza n. 154 del
2017 che, a suo dire, confermerebbero la fondatezza delle doglianze
avanzate nell’atto introduttivo.
Contesta, poi, la correttezza
dell’assunto posto a base delle difese dell’Avvocatura generale dello Stato,
secondo cui la riduzione del livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale imporrebbe, parallelamente, una corrispondente riduzione del livello
di finanziamento del Servizio sanitario provinciale, negando qualsiasi
correlazione tra le due grandezze.
9.7.– La Regione Siciliana evidenzia che le
modifiche normative apportate dal d. l. n. 50 del 2017, come convertito e
modificato, non incidono sul proprio interesse a ricorrere, in quanto le norme
impugnate continuano ad imporre «un contributo insostenibile in spregio al
canone della transitorietà». Per dimostrare l’impossibilità di svolgere le funzioni
istituzionali «anche in ambiti relativi ai diritti fondamentali dei cittadini»,
la ricorrente deposita una relazione del ragioniere generale della Regione, da
cui risulta che la situazione di squilibrio finanziario «in atto esistente per
l’intero triennio 2018-2020» non ha consentito la presentazione del bilancio di
previsione relativo a tale periodo.
Tale squilibrio sarebbe
cagionato da «oneri non ricompresi nel Bilancio di previsione» e dalla
riduzione del gettito dell’imposta di bollo, per un importo complessivo di
circa 325 milioni di euro, corrispondente al contributo alla finanza pubblica
per l’esercizio 2020. Ciò «potrebbe determinare», a parere della ricorrente,
una riduzione dei livelli di assistenza sanitaria erogati nel territorio nell’esercizio
2020 o «in alternativa» un deficit del sistema sanitario regionale.
Considerato in
diritto
1.– Con i ricorsi indicati in epigrafe, tutte
le autonomie speciali (ad eccezione della Regione autonoma Trentino-Alto
Adige/Südtirol) e le Regioni Veneto e Lombardia impugnano alcune disposizioni
della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019).
In particolare, le Province
autonome di Trento e di Bolzano impugnano, tra gli altri, l’art. 1, comma 392,
della legge n. 232 del 2016, limitatamente ai primi tre periodi, nonché il
successivo comma 394. La Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste estende l’impugnativa agli interi commi 392 e
394. Le Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna censurano anche il
successivo comma 528, il quale ultimo costituisce, invece, l’unico oggetto di
impugnativa dei ricorsi promossi dalla Regione Siciliana e, tra gli altri,
dalla Regione Lombardia. La Regione Veneto, infine, impugna, tra gli altri,
l’art. 1, commi 392, 527 e 528, della legge n. 232 del 2016.
Tutti i ricorsi
ricostruiscono, in premessa, il contenuto precettivo delle disposizioni
impugnate, che conviene, dunque, illustrare sinteticamente.
L’art. 1, comma 392, della
legge n. 232 del 2016, ridetermina il livello del finanziamento del fabbisogno
sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato, per gli anni 2017 e 2018,
fissandolo, rispettivamente, in 113.000 milioni di euro e in 114.000 milioni di
euro, sulla base dell’intesa sancita in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
in data 11 febbraio 2016. Per l’anno 2019, la disposizione in esame stabilisce
che il medesimo livello di finanziamento sia pari a 115.000 milioni di euro.
Infine, prescrive che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di
Trento e di Bolzano assicurino gli effetti finanziari così previsti, mediante
la sottoscrizione di singoli accordi con lo Stato, da stipulare entro il 31
gennaio 2017. Per la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e per le
Province autonome di Trento e di Bolzano, viene espressamente salvaguardato
l’accordo sottoscritto tra il Governo e i predetti enti in data 15 ottobre 2014.
L’art. 1, comma 394, della
legge n. 232 del 2016 dispone che, con i medesimi accordi di cui al precedente
comma 392, le Regioni a statuto speciale assicurino il contributo a loro carico
previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016, e che, decorso il termine del 31
gennaio 2017, «all’esito degli accordi sottoscritti», il Ministro dell’economia
e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, entro i successivi
trenta giorni, con proprio decreto attui quanto previsto per gli anni 2017 e
successivi dalla citata intesa dell’11 febbraio 2016, al fine di garantire il
conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per il settore
sanitario.
L’art. 1, comma 527, della
legge n. 232 del 2016 estende al 2019 i contributi al contenimento della spesa
pubblica già previsti per le Regioni a statuto ordinario dall’art. 46, comma 6,
del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e
la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, in legge 23 giugno 2014,
n. 89.
L’art. 1, comma 528, della
legge n. 232 del 2016 estende al 2020 il contributo alla finanza pubblica già
previsto dall’art. 1, comma 680, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge di stabilità 2016)», includendo, tra le modalità dell’intervento
sostitutivo statale, «la possibilità di prevedere versamenti da parte delle
regioni interessate».
2.– Così ricostruito il contenuto normativo
delle disposizioni impugnate, occorre procedere alla sintesi delle censure
avanzate dalle ricorrenti, seguendo l’ordine di deposito dei rispettivi
ricorsi.
2.1.– La Regione autonoma
Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
sostiene che l’art. 1, commi 392 e 394, prevederebbe
a suo carico, «se del caso, anche in maniera unilaterale», un concorso alla
riduzione del fabbisogno del Servizio sanitario nazionale, dunque in un ambito
nel quale la ricorrente provvede autonomamente al relativo finanziamento, con
risorse gravanti esclusivamente sul proprio bilancio, senza oneri a carico del
bilancio statale, sicché eventuali economie di spesa potrebbero essere
destinate solo ad interventi relativi al settore sanitario regionale, con
conseguente illegittimità del «loro storno a favore del Servizio sanitario
nazionale».
Sarebbe, per questo,
illegittimo un intervento statale a titolo di coordinamento della finanza
pubblica, che si risolverebbe nell’imposizione di economie di spesa da
destinare a favore del Servizio sanitario nazionale.
Risulterebbero, in tal modo, violati:
l’art. 2, comma 1, lettera a); l’art. 3, comma 1, lettere f) e l); gli artt. 4
e 12 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la
Valle d’Aosta), per l’indebita invasione di ambiti di «potestà legislativa
piena» riconosciuti alla Regione in alcune materie dallo statuto di autonomia.
Sarebbero, ancora, lesi gli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione,
«in combinato disposto» con l’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
Sarebbe, infine, violata la normativa di attuazione statutaria di cui alla
legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento finanziario della
regione Valle d’Aosta), «come integrata» dagli artt. 34 e 36 della legge 23
dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
Evidenzia, ancora, la
ricorrente che le disposizioni impugnate, dopo aver irragionevolmente fissato
un termine troppo breve per il raggiungimento di un’intesa, pretenderebbero di
disciplinare unilateralmente, in mancanza di accordo, aspetti che l’art. 50
dello statuto speciale riserva ad una legislazione attuativa consensuale,
suscettibile di successive modifiche solo attraverso «i peculiari moduli
concertativi previsti dall’art. 48 bis».
Il particolare meccanismo,
definito «suppletivo», di determinazione della quota di concorso imposta alla
ricorrente, sarebbe, dunque, in contrasto con i parametri statutari da ultimo
evocati, nonché con i principi costituzionali di leale collaborazione e
ragionevolezza, essendo tutto incentrato sull’adozione di un decreto
ministeriale che, di fatto, estenderebbe alla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste «un’intesa che
questa non ha sottoscritto», e che non potrebbe coinvolgerla, in quanto
attinente ad un ambito, quello sanitario, per il quale essa non grava
sull’erario.
2.2.– La Regione Veneto
ritiene che l’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016, avrebbe violato
gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., nonché il
principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.,
poiché avrebbe imposto una riduzione del livello di finanziamento del
fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato, rispetto a
quanto stabilito nell’intesa sancita l’11 febbraio 2016 dalla Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano, in mancanza di una nuova intesa con le Regioni, a fronte
di «una prassi» (quella dei cosiddetti Patti per la salute) invalsa fin
dall’anno 2000. Secondo la ricorrente, in particolare, per ridurre la spesa
«relativa a quella particolarissima materia che è la tutela della salute», il
legislatore statale sarebbe tenuto al pieno rispetto del principio di leale
collaborazione, con la previsione di «adeguati strumenti di coinvolgimento
delle Regioni, a difesa delle loro competenze».
La norma impugnata
difetterebbe, inoltre, di un’adeguata istruttoria sulla «sostenibilità del definanziamento» (in violazione quindi degli artt. 3 e 97 Cost.) e sull’adeguatezza delle risorse stanziate in
relazione alla funzione regionale di garantire sul territorio il diritto alla
salute di cui all’art. 32 Cost., soprattutto a fronte di un aumento delle prestazioni da
erogare in conseguenza della definizione dei nuovi livelli essenziali di
assistenza (d’ora in avanti: LEA).
Verrebbe in rilievo, peraltro,
una riduzione «di carattere sostanzialmente permanente», in contrasto con
quanto stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte in ordine al carattere
necessariamente transitorio che devono presentare norme che impongono il
raggiungimento di obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica.
Ancora, il carattere
«meramente lineare dei tagli» che verrebbero imposti alla spesa regionale
interferirebbe in ambiti inerenti a fondamentali diritti civili e soprattutto
sociali, in mancanza di determinazione dei livelli essenziali di assistenza
sociale (LIVEAS). Non sarebbero presi in
considerazione, infatti, né i costi standard né i livelli di spesa di Regioni
virtuose che hanno già raggiunto elevati livelli di efficienza nella gestione
della sanità e che non potrebbero ulteriormente razionalizzare la spesa «senza
mettere a repentaglio la garanzia del diritto alla salute», non potendo
«mantenere l’equilibrio finanziario e nel contempo rispettare l’erogazione dei
Lea».
Sarebbero lese anche le
competenze tutelate dagli artt. 118 e 119 Cost., con particolare riferimento alla programmazione sanitaria
ed alla autonomia impositiva.
La disposizione impugnata, del
resto, determinando uno «scollamento» tra un livello di finanziamento del fondo
sanitario, che verrebbe «pesantemente ridotto», e la necessità di garantire i
LEA, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 5, comma 1, lettera g), della
legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), e con l’art. 11 della legge
24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del
pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione),
che impongono il concorso dello Stato al finanziamento dei livelli essenziali
delle prestazioni inerenti ai diritti sociali nelle fasi avverse del ciclo
economico.
Infine, non vi sarebbe stato
alcun coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della
finanza pubblica, che sarebbe imposto, invece, per la definizione delle manovre
di finanza pubblica, dall’art. 5, comma 1, della legge 5 maggio 2009, n. 42
(Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo
119 della Costituzione).
L’art. 1, comma 527, della
legge n. 232 del 2016, dal canto suo, sarebbe contrastante con gli artt. 3,
117, secondo e terzo comma, e 119 Cost., nonché con il principio di leale collaborazione di cui
agli artt. 5 e 120 Cost.
Secondo la ricorrente, in
primo luogo, la «terza proroga consecutiva della stessa manovra in origine
legata a un ambito triennale», in mancanza di plausibili e riconoscibili
ragioni impeditive di una ridefinizione e rinnovazione complessiva del quadro
delle relazioni finanziarie tra lo Stato e le Regioni, secondo le ordinarie
scansioni triennali dei cicli di bilancio, violerebbe il canone della
transitorietà richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte.
Inoltre, la proroga del
contributo imposto alle Regioni ordinarie sarebbe stata disposta «al buio», in
assenza della definizione dei LIVEAS, sicché la
manovra finanziaria risulterebbe priva degli «indispensabili elementi di
razionalità, proporzionalità, efficacia e sostenibilità».
Per finire, quanto all’art. 1,
comma 528, della legge n. 232 del 2016, sarebbe violato l’art. 119 Cost.,
perché la disposizione impugnata non si limiterebbe ad una semplice proroga del
contributo cui si riferisce, ma, nell’introdurre la possibilità di prevedere
versamenti al bilancio dello Stato, avrebbe trasformato la Regione «in una
sorta di esattore dello Stato», essendo chiamata a riversare a quest’ultimo
risorse proprie.
2.3.– La Provincia autonoma di Bolzano censura
l’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016, limitatamente ai primi tre
periodi, nonché l’intero successivo comma 394.
Ritiene la ricorrente che tali
disposizioni contrastino con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16, 79, 80,
103, 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670
(Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché con le norme di attuazione
statutaria in materia di «igiene e sanità», di «finanza regionale e
provinciale» e di «rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e
provinciali»; con l’art. 117, terzo comma, Cost., in
combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n.
3 del 2001; con il principio di leale collaborazione, in relazione all’art. 120
Cost. e all’accordo del 15
ottobre 2014, recepito con la legge 23 dicembre 2014 n. 190, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge di stabilità 2015)»; e con il principio di ragionevolezza di cui agli
artt. 3 e 97 Cost.
L’impugnativa proposta dalla
Provincia autonoma di Bolzano ha natura dichiaratamente cautelativa, per
l’ipotesi in cui le disposizioni censurate venissero interpretate come
destinate a fare carico alle Province autonome di ulteriori contributi alla
finanza pubblica nazionale (e, specificamente, quale concorso al finanziamento
del fabbisogno sanitario nazionale) rispetto a quelli concordati con lo Stato.
In tal caso, infatti, sarebbero introdotte forme di concorso al livello di
finanziamento del fabbisogno standard del Servizio sanitario nazionale, come
tali incompatibili sia con l’autonomia finanziaria riconosciuta alle Province
autonome nel settore sanitario sia con l’accordo sottoscritto in data 15
ottobre 2014.
La ricorrente, a tale
proposito, ricorda che lo Stato, quando non concorre al finanziamento della
spesa sanitaria, neppure avrebbe titolo per dettare norme di coordinamento
finanziario.
Infine, violerebbe gli evocati
parametri anche l’attribuzione «di un potere monocratico di decretazione» al
Ministro dell’economia e delle finanze, per il caso di mancata intesa entro un
termine predefinito dalla legge.
2.4.– La Regione autonoma Sardegna censura
l’art. 1, commi 392, 394 e 528, della legge n. 232 del 2016, sotto una
pluralità di profili.
In primo luogo, sarebbe
violato il principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 117 Cost., non avendo il legislatore statale previsto alcuna
procedura pattizia idonea ad incidere sul quantum del concorso alla finanza
pubblica, determinato unilateralmente dallo Stato anche a carico delle Regioni
a statuto speciale, in tal modo equiparate alle Regioni ordinarie, tutte
coinvolte nell’intesa sul riparto del contributo dell’11 febbraio 2016 e senza
che le determinazioni assunte in quella sede possano essere ulteriormente
«negoziabili».
Il principio di leale
collaborazione sarebbe altresì leso, unitamente all’autonomia
economico-finanziaria della Regione tutelata dagli artt. 117 e 119 Cost. e dagli artt. 7 e 8 della
legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna),
ed al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.,
per effetto della salvaguardia prevista per il solo accordo stipulato tra
Stato, Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e Province autonome di
Trento e Bolzano, con totale e ingiustificata pretermissione dell’analogo
accordo stipulato tra lo Stato e la Regione autonoma Sardegna in data 21 luglio
2014.
L’intervento del legislatore
statale, in quanto successivo alla stipula degli accordi di finanza pubblica
del 2014, ne avrebbe violato espressamente le clausole, senza prevedere un
meccanismo adeguato di recupero, anche ex post, della leale cooperazione nei
rapporti economico-finanziari. Di qui, la violazione degli artt. 5, 117 e 119 Cost.,
che, unitamente agli artt. 7 e 8 dello statuto speciale, garantiscono
l’autonomia economico-finanziaria della Regione ricorrente, imponendo, nei
relativi rapporti, la leale cooperazione, nonché la lesione del principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
L’imposizione di altri oneri
sottratti alla determinazione consensuale delle parti, comportando, ancora, la
lesione dell’autonomia economico-finanziaria della Regione Sardegna, garantita
dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale e dagli artt. 117 e 119 Cost., si
porrebbe in contrasto anche con l’art. 81 Cost. e con l’art. 9 della legge «rinforzata» n. 243 del 2012,
approvata al fine di sottoporre anche la definizione dei criteri di
«equilibrio» dei bilanci delle autonomie speciali al principio consensualistico, attuato, in materia, dal citato accordo
del 21 luglio 2014.
Tale accordo, del resto, in
quanto recepito dall’art. 42, commi da 9 a 12, del decreto-legge 12 settembre
2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione
delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle
attività produttive), convertito, con modificazioni, in legge 11 novembre 2014,
n. 164, impedirebbe al legislatore statale, in assenza di preventiva intesa con
la Regione, di abrogare, modificare o comunque derogare le previsioni dei commi
sopra menzionati.
Ciò sarebbe invece avvenuto
con le disposizioni impugnate, da leggere unitamente all’art. 1, comma 680,
della legge n. 208 del 2015. Nonostante il mancato inserimento nello statuto
della Regione o nelle relative norme di attuazione, infatti, le previsioni del
menzionato accordo di finanza pubblica, come recepite dal legislatore
ordinario, sarebbero comunque espressione del principio consensualistico
cui sono soggetti i rapporti economico-finanziari tra lo Stato e la Regione
ricorrente, sancito dagli artt. 54, comma 5, e 56 dello statuto speciale,
nonché dall’art. 9 della legge «rinforzata» n. 243 del 2012, anche in
relazione, ancora una volta, agli artt. 7 e 8 dello statuto speciale e agli
artt. 117 e 119 Cost., che tutelano l’autonomia
finanziaria della Regione.
La ricorrente lamenta,
inoltre, la violazione del giudicato costituzionale e, dunque, dell’art. 136 Cost., in quanto le sentenze con le quali questa Corte ha
scrutinato le vertenze insorte tra lo Stato e la Regione autonoma Sardegna a
causa della mancata attuazione della riforma del regime delle entrate regionali
di cui all’art. 8 dello statuto speciale, avrebbero «accertato e dichiarato» un
vero e proprio obbligo giuridico in capo allo Stato di definire consensualmente
con la Regione autonoma il regime dei loro rapporti economico-finanziari.
Sarebbe altresì leso il
principio di affidamento, che trova riconoscimento di rango costituzionale ai
sensi dell’art. 3 Cost. nonché,
per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (e dell’art. 5 Cost.), degli artt.
6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Sostiene la ricorrente che
sarebbe sorto un affidamento in ordine alla «stabilità del quadro di
regolamentazione dei rapporti economici con lo Stato», in seguito all’accordo
concluso in data 21 luglio 2014, la cui violazione – in mancanza di ragioni
imperative di interesse generale – ridonderebbe ancora una volta sull’autonomia
economico-finanziaria della Regione, tutelata dagli artt. 7 e 8 dello statuto
speciale e dagli artt. 117 e 119 Cost.
Anche l’art. 24 Cost. sarebbe violato, in quanto
la Regione autonoma Sardegna, non avendo mai dubitato della validità, della
stabilità e della cogenza dell’accordo del 21 luglio 2014, proprio in
adempimento degli obblighi con esso assunti, avrebbe rinunciato «a numerose
impugnazioni già proposte», non solo innanzi a questa Corte, con conseguente
lesione del diritto di difesa in giudizio.
Infine, il concorso alla
finanza pubblica previsto dalle disposizioni impugnate – che hanno prorogato di
un anno l’originario contributo imposto dall’art. 1, comma 680, della legge n.
208 del 2015 (aumentandone contemporaneamente l’entità) – aggiungendosi a
contributi di finanza pubblica imposti alle Regioni da diversi anni e in misura
sempre crescente, alcuni dei quali senza limiti di tempo, non rispetterebbe il
criterio della «transitorietà» richiesto dalla giurisprudenza costituzionale
per le misure restrittive di finanza pubblica, in tal modo ponendosi in
contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., e con
gli artt. 7 e 8 dello statuto, che tutelano l’autonomia finanziaria della
Regione autonoma Sardegna.
2.5.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
impugna l’art. 1, commi 392, 394 e 528 della legge n. 232 del 2016,
prospettandone il contrasto con gli artt. 3, 119 e 120 Cost.
e con gli artt. 48, 49, 63, quinto comma, e 65 della legge costituzionale 31
gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia); con
il protocollo di intesa tra lo Stato e la Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia per la revisione del protocollo del 29 ottobre 2010 e per la definizione
dei rapporti finanziari negli esercizi 2014-2017 del 23 ottobre 2014,
richiamato dall’art. 1, comma 512, della legge n. 190 del 2014; con l’art. 27
della legge n. 42 del 2009; con i principi pattizio e di leale collaborazione, quest’ultimo
ai sensi dell’art. 120 Cost.
In particolare, la ricorrente
lamenta il fatto che la «misura complessiva» del nuovo concorso delle autonomie
speciali al risanamento della finanza pubblica sarebbe già definita
unilateralmente dalla legge statale, in violazione del metodo pattizio. La
conclusione dei previsti accordi sarebbe, dunque, «obbligata e dovuta entro un
termine molto stretto», a pena di un intervento unilaterale statale comunque
attuativo del risparmio previsto per gli anni 2017 e successivi.
Tutto ciò si porrebbe in
contrasto con l’accordo concluso tra la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
e lo Stato in data 23 ottobre 2014, nel quale, al fine di «definire un "quadro
stabile e certo”» dei rapporti finanziari, sarebbe «precisamente ed
esaustivamente quantificato il contributo finalizzato alla sostenibilità del
debito pubblico fino all’anno 2017», mentre, per quanto riguarda le annualità
successive al 2017, sarebbe sancito l’impegno a rinegoziare nuovi accordi entro
il 30 giugno 2017.
Il nuovo concorso finanziario
regionale, inoltre, risulterebbe irragionevole, in quanto «fondato e
parametrato sulla riduzione di un Fondo al quale la Regione non partecipa», dal
momento che essa finanzia integralmente il proprio sistema sanitario con le compartecipazioni
ai tributi erariali. Lo Stato, dunque, non potrebbe chiedere alla Regione
Friuli-Venezia Giulia la restituzione di parte delle compartecipazioni ai
tributi erariali che la stessa Regione introiterebbe (presuntivamente) in
eccesso rispetto al fabbisogno del sistema sanitario regionale.
Risulterebbe, inoltre,
«evidente» la disparità di trattamento operata dal quarto periodo del comma 392
dell’art. 1 della legge n. 232, nella parte in cui non estende anche alla
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia la clausola di salvaguardia dell’accordo
stipulato con il Governo.
In via subordinata, con
riferimento all’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016, la ricorrente
avrebbe comunque interesse a che lo Stato non aumenti il contributo regionale rispetto
a quanto concordato nell’intesa dell’11 febbraio 2016, visto che almeno una
quota di tale incremento sarebbe posta «a carico della Regione stessa», tenuta,
al pari delle altre autonomie speciali, ad assicurare «gli effetti finanziari»
previsti dalla disposizione impugnata.
Infine, con particolare
riferimento all’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, la nuova misura
di concorso finanziario non sarebbe «affatto occasionale ed eccezionale», ma
«addirittura estesa fino al 2020», in violazione del necessario canone della
transitorietà.
2.6.– L’impugnazione proposta dalla Regione
Lombardia avverso l’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, è
incentrata sulla prospettata violazione dell’art. 119, terzo e quinto comma, Cost.
La Regione Lombardia ha
operato una rinuncia parziale ai profili di censura collegati alla porzione di
disposizione che stabiliva la possibilità «di prevedere versamenti da parte
delle regioni interessate», in quanto abrogata dall’art. 28 del decreto-legge
24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative
a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da
eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, in
legge 21 giugno 2017, n. 96.
Ne deriva che le censure mosse
al citato comma 528 possono ora essere sintetizzate nel modo che segue.
Tale disposizione, in primo
luogo, nell’estendere di un anno il contributo alla finanza pubblica previsto
dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, imporrebbe un limite alla
spesa pubblica in violazione del canone della necessaria transitorietà.
Sotto altro profilo,
consentirebbe allo Stato di imporre una distribuzione del sacrificio
disomogenea, tenendo "anche” conto del prodotto interno lordo (PIL) e della
popolazione residente, senza contemplare il passaggio per un fondo perequativo
ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost. e «senza fare i conti con le premesse e gli obiettivi
indicati nel comma 5 dell’art. 119», oltre che omettendo di «enunciare un
vincolo a carico dello Stato alla futura erogazione».
2.7.– La Provincia autonoma di
Trento propone un’impugnativa dichiaratamente cautelativa dell’art. 1, commi
392 – limitatamente ai primi tre periodi – e 394, della legge n. 232 del 2016,
per l’ipotesi in cui le disposizioni censurate siano interpretate nel senso di
imporre anche alle Province autonome di sostenere il contributo di cui al primo
periodo del comma 392, nonostante la precisa clausola di salvaguardia di cui al
quarto periodo del medesimo comma 392, o nel senso di imporre anche alle
Province autonome di assicurare il contributo a loro carico previsto
dall’intesa conclusa in data 11 febbraio 2016, oppure, ancora, nel senso di
attribuire allo Stato il potere unilaterale di imporre alla Provincia i
suddetti contributi, decorso il termine del 31 gennaio 2017, anche in assenza
di accordo.
Tale interpretazione, a parere
della ricorrente, contrasterebbe con una serie di disposizioni dello statuto
speciale (in particolare con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16, 69, 79,
80, 81, 103, 104 e 107) e delle correlate norme di attuazione in materia
finanziaria (contenute nel decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268, recante
«Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in
materia di finanza regionale e provinciale»). Sarebbero, altresì, lesi gli
artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001; il principio di leale collaborazione,
in relazione all’art. 120 Cost., all’accordo del 15 ottobre 2014 ed all’art. 27 della
legge n. 42 del 2009; il principio di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 97 Cost.; l’art. 81 Cost. e l’art. 9 della legge n. 243 del 2012.
Secondo la Provincia autonoma
di Trento, infatti, l’accordo concluso con lo Stato in data 15 ottobre 2014 – e
recepito dall’art. 1, commi da 406 a 413, della legge n. 190 del 2014 – avrebbe
«precisamente ed esaustivamente» quantificato l’impegno finanziario richiesto
alla ricorrente a titolo di concorso al risanamento della finanza pubblica per
tutti gli anni presi in considerazione dalle disposizioni impugnate. Tale
accordo potrebbe essere modificato esclusivamente con la procedura prevista
dall’art. 104 dello statuto di autonomia.
La definizione unilaterale
della «misura complessiva» del nuovo concorso imposto alle autonomie speciali,
dunque, violerebbe il metodo pattizio, al pari del previsto intervento statale
attuativo del risparmio programmato, in mancanza della conclusione di apposite
intese, non ricorrendo «le eccezionali esigenze di finanza pubblica» che
consentirebbero, entro certi limiti, una variazione unilaterale del contenuto
dell’accordo concluso con lo Stato.
Il nuovo concorso regionale
risulterebbe, in ogni caso, irragionevole, in quanto parametrato sulla
riduzione di un fondo – quello sanitario – al quale la Provincia non partecipa,
dal momento che essa finanzia integralmente il proprio sistema sanitario con le
compartecipazioni ai tributi erariali. Secondo la ricorrente, dunque, lo Stato
non potrebbe chiedere alla Provincia autonoma di Trento la restituzione di
parte delle compartecipazioni che la stessa Provincia introiterebbe
(presuntivamente) in eccesso rispetto al fabbisogno del sistema sanitario
provinciale.
In via subordinata, la
ricorrente sottolinea di avere comunque interesse a che lo Stato non aumenti il
contributo regionale rispetto a quanto concordato, visto che almeno una quota
di tale incremento sarebbe posta «a carico della Provincia stessa», tenuta, al
pari delle altre autonomie speciali, ad assicurare «gli effetti finanziari»
previsti dalla disposizione impugnata.
2.8.– La Regione Siciliana impugna il solo art.
1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, articolando una serie di profili di
censura.
In primo luogo, ritiene lesi
gli artt. 81, ultimo comma, e 97, primo comma, Cost., perché l’estensione
del contributo imposto dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015,
sommandosi alle precedenti manovre finanziarie, graverebbe sul bilancio
regionale in maniera tale da impedire lo svolgimento delle funzioni
«indispensabili» regionali. Sarebbe stato, del resto, reso impossibile anche
l’adempimento dell’obbligo di garantire l’equilibrio finanziario del bilancio
regionale, non essendo stati individuati specificatamente i capitoli di spesa
della Regione sui quali effettuare i risparmi né quelli di entrata del bilancio
dello Stato sui quali essi debbano confluire.
La disposizione impugnata
violerebbe l’art. 43 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455
(Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, essendosi prevista l’applicabilità del
contributo «a prescindere dalle necessarie norme di attuazione».
Ancora, la sottrazione
unilaterale – e in assenza delle condizioni per far luogo a riserva – di
gettito tributario di integrale spettanza regionale contrasterebbe con l’art.
36 dello statuto speciale e con l’art. 2 delle correlate norme di attuazione in
materia finanziaria, oltre che con il principio di leale collaborazione.
L’impugnata disposizione,
inoltre, sarebbe elusiva del principio di transitorietà, e dunque in conflitto
con l’art. 117, terzo comma, Cost.
Pure violato risulterebbe
l’art. 119, primo, secondo, terzo, quarto e ultimo comma, Cost., perché la disposizione
impugnata, in pregiudizio del principio di responsabilità finanziaria,
impedirebbe alla Regione Siciliana di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche attribuitele.
Mancherebbe, poi, in
contrapposizione con il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e
120 Cost.,
la previsione di un «necessario accordo» in ordine alla destinazione ai
capitoli del bilancio dello Stato sui quali i risparmi di spesa della Regione
dovrebbero confluire.
Infine, l’impossibilità di
esercitare le funzioni amministrative nelle materie di «competenza legislativa
esclusiva e concorrente» sarebbe direttamente lesiva degli artt. 14, 15, 17,
20, 36 (quest’ultimo unitamente all’art. 2, comma 1, delle norme di attuazione
dello statuto in materia finanziaria) e 43 dello statuto di autonomia.
3.– I ricorsi vertono su disposizioni
parzialmente coincidenti, sicché appare opportuna la riunione dei relativi
giudizi al fine di una decisione congiunta, restando riservata a separate
pronunce la decisione delle questioni relative alle altre disposizioni
impugnate con i medesimi ricorsi.
4.– Vanno prioritariamente decise alcune
questioni preliminari oggetto di eccezione di parte o, comunque, rilevabili di
ufficio.
4.1.– In primo luogo, le
Province autonome di Trento e di Bolzano e la Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia si mostrano consapevoli della clausola di salvaguardia contenuta
nell’art. 1, comma 638, della legge n. 232 del 2016, secondo cui «[l]e
disposizioni della presente legge si applicano alle regioni a statuto speciale
e alle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con i
rispettivi statuti e le relative norme di attuazione, anche con riferimento
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3».
Ritengono, tuttavia, che i
commi impugnati contengano disposizioni destinate ad applicarsi direttamente
alle autonomie speciali, sicché la portata garantistica della clausola di
salvaguardia risulterebbe vanificata.
Trattasi di una lettura prima facie non implausibile, visto che
l’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016 menziona espressamente le
Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano,
mentre il successivo comma 394, pur riferendosi alle sole Regioni a statuto
speciale, rinvia direttamente agli accordi di cui al comma 392, ancora una
volta, dunque, coinvolgendo nella previsione normativa, almeno formalmente,
anche le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Deve perciò farsi applicazione
del principio, già affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui
l’illegittimità costituzionale di una previsione legislativa non è esclusa
dalla presenza di una clausola di salvaguardia, laddove tale clausola entri in
contraddizione con quanto affermato dalle norme impugnate, con esplicito
riferimento alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome (da
ultimo, sentenze n.
231 e n. 154
del 2017).
Del resto, questa è anche la
ragione che rende ammissibili le impugnative dichiaratamente proposte in via
cautelativa dalle Province autonome di Trento e di Bolzano e, per la parte
concernente l’art. 1, comma 394, della legge n. 232 del 2016, anche da parte
della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste.
Tale modalità di proposizione
dei ricorsi non incide, infatti, sulla loro ammissibilità, atteso che – per
costante giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenze n. 270 e n. 212 del 2017)
– possono trovare ingresso, nel giudizio in via principale, questioni promosse
in via cautelativa ed ipotetica, sulla base di interpretazioni prospettate
soltanto come possibili, purché non implausibili e
comunque ragionevolmente desumibili dalle disposizioni impugnate.
4.2.– Ancora in via preliminare, va rilevato
che la seconda parte dell’impugnato art. 1, comma 528, della legge n. 232 del
2016, ha inserito, tra le modalità di acquisizione delle risorse da parte dello
Stato, la possibilità di prevedere versamenti delle Regioni interessate, in tal
senso modificando l’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015.
Tale profilo è oggetto di
specifica considerazione nei ricorsi proposti dalle Regioni Veneto e Lombardia
e dalla Regione Siciliana.
Successivamente alla
proposizione dei ricorsi, tuttavia, questa porzione normativa è stata abrogata.
L’art. 28 del d.l. n. 50 del
2017, come convertito, ha infatti soppresso, all’art. 1, comma 680, secondo
periodo, della legge n. 208 del 2015, le parole: «inclusa la possibilità di
prevedere versamenti da parte delle regioni interessate,», che erano state aggiunte
proprio dall’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016.
Ciò determina conseguenze
diverse sui singoli ricorsi.
La Regione Lombardia ha
depositato un atto di formale rinuncia parziale al ricorso – per i profili di
doglianza connessi alla parte di disposizione soppressa –accettata dal
Presidente del Consiglio dei ministri. Va dunque dichiarato estinto il
processo, relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, nella parte in cui inserisce, nel
secondo periodo dell’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015, dopo le
parole «modalità di acquisizione delle risorse da parte dello Stato,» le parole
«inclusa la possibilità di prevedere versamenti da parte delle regioni
interessate,».
La Regione Veneto, dal canto
suo, ha incentrato il ricorso avverso il citato comma 528, proprio sulla
previsione normativa aggiunta dalla disposizione impugnata all’art. 1, comma
680, della legge n. 208 del 2015 ed ora soppressa dal d.l. n. 50 del 2017, come
convertito. La modifica, dunque, appare satisfattiva dell’interesse manifestato
dalla ricorrente, sicché, non avendo avuto mai applicazione la norma ora
abrogata, sussistono entrambe le condizioni richieste dalla giurisprudenza di
questa Corte per una dichiarazione di cessazione della materia del contendere
(da ultimo, sentenze n. 38 e n. 5 del 2018).
La Regione Siciliana, invece,
non ha rinunciato al ricorso in parte qua, né ha fondato le censure mosse
all’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016 sulla sola modifica
apportata all’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015 e consistente
nell’aggiunta della porzione normativa poi soppressa dal d.l. n. 50 del 2017,
come convertito. Per questo motivo, nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza pubblica, ha ribadito che lo ius superveniens non fa venire meno il proprio interesse alla
decisione nel merito del ricorso, che andrà complessivamente definito, tenendo
conto della restrizione del thema decidendum
conseguente all’illustrata modifica normativa.
4.3.– Tutte le ricorrenti hanno
sufficientemente motivato sulla ridondanza delle asserite violazioni di
parametri estranei al Titolo V della Parte II della Costituzione sul riparto di
attribuzioni in quest’ultimo previsto. Di qui, l’ammissibilità, sotto questo
profilo, delle relative censure.
4.4.– Devono essere, invece, dichiarate
inammissibili alcune questioni proposte dalla Regione Veneto.
Quanto al prospettato
contrasto dell’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016 con i parametri
costituzionali di cui agli artt. 97, 118 e 119 Cost., infatti, manca
qualsiasi adeguata motivazione a sostegno delle censure.
Secondo la costante
giurisprudenza della Corte, i termini delle questioni di legittimità
costituzionale debbono essere ben identificati, dovendo il ricorrente
individuare le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni delle
violazioni prospettate (ex multis, tra le più
recenti, sentenze n.
247, n. 245
e n. 231 del
2017).
Per ragioni analoghe deve
essere dichiarata inammissibile la questione legata all’asserita mancata
attuazione del disposto dell’art. 5, comma 1, lettera g), della legge cost. n. 1 del 2012, e dell’art. 11 della legge n. 243 del
2012. La censura risulta infatti oscura, poiché non si comprende in che modo la
disposizione impugnata sarebbe lesiva dell’autonomia regionale. La doglianza è,
sul punto, apodittica, limitandosi la ricorrente ad affermare che la riduzione del
livello di finanziamento del fabbisogno sanitario sarebbe, per ciò stesso,
indicativa di una fase avversa del ciclo economico, tale da imporre
l’attivazione dei meccanismi previsti dalle norme richiamate. Del resto, nella
memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, la stessa Regione
Veneto, preso atto della decisione assunta dalla sentenza n. 154 del
2017 su analoga censura, non insiste su di essa.
5.– Il merito dei ricorsi riguarda alcune
disposizioni della legge n. 232 del 2016 – in particolare l’art. 1, commi 392,
394 e 528 – il cui contenuto precettivo è strettamente collegato al contributo
alla finanza pubblica imposto a tutti gli enti del livello regionale dall’art.
1, comma 680, della legge n. 208 del 2015.
L’art. 1, comma 527, della
legge n. 232 del 2016 è impugnato, invece, dalla sola Regione Veneto, dal
momento che esso afferisce al contributo al contenimento della spesa pubblica
già previsto per le sole Regioni a statuto ordinario dall’art. 46, comma 6, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la
giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014,
n. 89.
È opportuno, dunque, trattare
le censure mosse al primo gruppo di disposizioni separatamente rispetto a
quelle avanzate contro il solo comma 527, ulteriormente distinguendo la
posizione degli enti ad autonomia differenziata da quella delle Regioni a
statuto ordinario.
6.– Tutte le autonomie speciali – ad
eccezione della Regione Siciliana – contestano le disposizioni della legge di
bilancio per il 2017 che danno attuazione all’intesa sancita in data 11
febbraio 2016 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, avente ad oggetto il
contributo alla finanza pubblica di cui all’art. 1, comma 680, della legge di
stabilità per il 2016.
Come chiarito nella sentenza n. 154 del
2017, la disposizione da ultimo menzionata determina il concorso di tutte
le Regioni agli obiettivi di finanza pubblica, in misura pari a 3.980 milioni
di euro per l’anno 2017 e a 5.480 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018
e 2019, demandando ai medesimi enti il raggiungimento, entro il 31 gennaio di
ciascun anno, di un accordo – in sede di autocoordinamento
– sulla definizione degli ambiti e degli importi del rispettivo contributo, nel
rispetto dei LEA, facendo sempre salva la necessità di raggiungere un’intesa
bilaterale con ciascuna autonomia speciale e, per le Province autonome e per la
Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, nel rispetto dell’accordo
raggiunto con il Governo in data 15 ottobre 2014.
L’intesa attuativa del citato
comma 680 è stata sancita, senza la partecipazione delle autonomie speciali, in
data 11 febbraio 2016. In essa, le Regioni a statuto ordinario hanno concordato
di imputare al settore sanitario la maggior parte del contributo, precisamente
per l’importo di 3.500 milioni di euro per l’anno 2017 e di 5.000 milioni di
euro a decorrere dall’anno 2018, e rinviando il riparto del contributo residuo
pari a 480 milioni di euro «alle successive intese in Conferenza Stato Regioni
da definire entro il 31 gennaio di ciascun anno». Conseguentemente, nell’intesa
si è prevista la rideterminazione del livello del finanziamento del Servizio
sanitario nazionale nei seguenti importi: 113.063 milioni di euro per l’anno
2017 e 114.998 milioni di euro per l’anno 2018.
Contestualmente, l’intesa ha
impegnato il Governo ad ottenere, entro un «termine ragionevole», la stipula
del previsto accordo bilaterale con ciascuna delle autonomie speciali, per
definire la quota di contributo spettante a ciascuna di esse.
La medesima intesa dell’11
febbraio 2016 conteneva anche una sorta di "clausola di salvaguardia”, secondo
cui, decorso inutilmente tale termine senza la stipula degli accordi bilaterali
con le autonomie speciali, il livello del fabbisogno sanitario nazionale
sarebbe stato ulteriormente ridotto, al fine di assicurare in ogni caso gli
effetti per la finanza pubblica pari a 3.500 milioni di euro per l’anno 2017 e
a 5.000 milioni di euro a decorrere dall’anno 2018, così di fatto "addossando”
alle Regioni a statuto ordinario un maggiore contributo al risanamento della
finanza pubblica.
Non essendo stati stipulati i
prescritti accordi tra il Governo e le autonomie speciali, l’impugnato art. 1,
comma 392, della legge n. 232 del 2016 prevede, per gli anni 2017 e 2018,
un’ulteriore riduzione (rispetto agli importi inizialmente previsti dall’intesa
dell’11 febbraio 2016) del livello del finanziamento del fabbisogno sanitario
nazionale standard cui concorre lo Stato, fissandolo, rispettivamente, in
113.000 milioni di euro per l’anno 2017 e in 114.000 milioni di euro per l’anno
2018 (a fronte dei precedenti importi rispettivamente di 113.063 milioni di
euro e di 114.998 milioni di euro).
Per l’anno 2019, invece, il
livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui
concorre lo Stato viene stabilito in 115.000 milioni di euro.
Accanto a questa sostanziale
"maggiorazione” del contributo posto a carico delle Regioni a statuto
ordinario, tuttavia, la medesima disposizione ha fissato un nuovo termine per
il raggiungimento dei necessari accordi tra il Governo e le autonomie speciali
già previsti dall’intesa dell’11 febbraio 2016, disponendo la possibilità di
concluderli entro il 31 gennaio 2017, sempre con la clausola del rispetto
dell’accordo stipulato in data 15 ottobre 2014 tra il Governo e la Regione
autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di
Bolzano.
Il successivo comma 394
dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2017 ha ribadito l’obbligo delle
Regioni a statuto speciale di assicurare il contributo a loro carico previsto
dall’intesa dell’11 febbraio 2016 ed ha disciplinato il meccanismo per il
conseguimento degli effetti positivi per la finanza pubblica complessivamente
pari a 3.500 milioni di euro per l’anno 2017 e 5.000 milioni di euro a
decorrere dall’anno 2018, prevedendo che, decorso il termine del 31 gennaio
2017, con apposito decreto ministeriale sarebbe stato attuato «quanto previsto
per gli anni 2017 e successivi dalla citata intesa dell’11 febbraio 2016».
Nessuna delle autonomie
speciali – le quali (ad eccezione della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste) avevano nel
frattempo impugnato l’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015 innanzi a
questa Corte – ha acconsentito alla stipula dell’accordo con il Governo.
Quest’ultimo, quindi, ha
attivato l’illustrato meccanismo previsto dall’art. 1, comma 394, della legge
n. 232 del 2016, provvedendo – con decreto del Ministro dell’economia e delle
finanze, emanato di concerto con il Ministro della salute, 5 giugno 2017
(Rideterminazione del livello del fabbisogno sanitario nazionale), pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13 giugno 2017 – alla rideterminazione del
livello del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui
concorre lo Stato, riducendolo ulteriormente di 423 milioni di euro, per l’anno
2017, e di 604 milioni di euro, a decorrere dall’anno 2018.
6.1.– Ciò premesso, va
ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, i principi
fondamentali fissati dalla legislazione dello Stato nell’esercizio della
competenza di coordinamento della finanza pubblica si applicano anche alle
autonomie speciali (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2017,
n. 40 del 2016,
n. 82 e n. 46 del 2015),
in quanto funzionali a prevenire disavanzi di bilancio, a preservare
l’equilibrio economico-finanziario del complesso delle amministrazioni
pubbliche e anche a garantire l’unità economica della Repubblica, come
richiesto dai principi costituzionali e dai vincoli derivanti dall’appartenenza
dell’Italia all’Unione europea (sentenza n. 175 del
2014).
I rapporti finanziari tra lo
Stato e le autonomie speciali sono, tuttavia, regolati dal principio
dell’accordo, inteso come vincolo di metodo (e non già di risultato) e
declinato nella forma della leale collaborazione (sentenze n. 88 del 2014,
n. 193 e n. 118 del 2012).
Lo Stato, dunque, può imporre
contributi al risanamento della finanza pubblica a carico delle autonomie
speciali, quantificando l’importo complessivo del concorso, e rimettendo alla
stipula di accordi bilaterali con ciascuna autonomia, non solo la definizione
dell’importo gravante su ciascuna di esse, ma, eventualmente, la stessa
riallocazione delle risorse disponibili, anche a esercizio inoltrato (sentenza n. 19 del
2015).
Di tali principi questa Corte
ha fatto applicazione nel definire i ricorsi proposti dalle autonomie speciali
(ad eccezione della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste) contro l’art. 1, comma 680, della legge di
stabilità per il 2016.
Con la sentenza n. 154 del
2017, infatti, questa Corte ha dichiarato inammissibili oppure non fondate
le censure proposte dalle ricorrenti, fornendo un’interpretazione della
normativa conforme ai parametri costituzionali e statutari di volta in volta
evocati, sicché è stata definitivamente sancita la legittimità costituzionale
del contributo alla finanza pubblica imposto, anche alle autonomie speciali,
dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015.
6.2.– Ciò premesso, i ricorsi delle Regioni
autonome Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste
e Friuli-Venezia Giulia e quelli delle Province autonome di Trento e di Bolzano
pongono questioni che muovono da un comune presupposto interpretativo, che
tuttavia appare non rispondente alla lettera ed alla ratio delle disposizioni
impugnate, con conseguente non fondatezza delle censure prospettate.
Ben vero, infatti, che l’art.
1, comma 680, della legge n. 208 del 2015 – alla cui intesa attuativa stipulata
in data 11 febbraio 2016 le disposizioni qui impugnate mirano a dare concreta
applicazione – impone un contributo al risanamento della finanza pubblica anche
alle autonomie speciali.
Tuttavia, come questa Corte ha
chiarito nella sentenza
n. 154 del 2017, nei confronti delle autonomie differenziate è
espressamente salvaguardato il metodo pattizio, prevedendosi la necessità della
stipula di un’intesa bilaterale con ciascuna autonomia speciale.
Se tale accordo non può
incidere sull’an del contributo finanziario, che
rientra nei poteri di coordinamento spettanti allo Stato – fatte salve espresse
preclusioni di genesi a loro volta pattizia – sicuramente esso svolge un ruolo
essenziale in relazione al quantum ed al quomodo del
contributo gravante su ciascuna autonomia speciale.
Le disposizioni di cui
all’art. 1, commi 392 e 394, della legge n. 232 del 2016 non derogano affatto a
tale schema, costituendone, invece, coerente e logico sviluppo.
Già nella sentenza n. 154 del
2017 questa Corte ha evidenziato che l’intesa sancita in data 11 febbraio
2016 – all’esito di un autocoordinamento che,
peraltro, si era svolto fra le sole Regioni a statuto ordinario – ha operato il
riparto di circa il 90 per cento dell’intero importo della manovra,
individuando nel fondo sanitario nazionale la principale voce su cui
concentrare la richiesta riduzione di spesa. Ma ha altresì precisato che la
stessa intesa, coerentemente con la previsione di legge che l’aveva
autorizzata, ha previsto che con le autonomie speciali sarebbero stati
raggiunti accordi bilaterali, per la determinazione della «parte del contributo
al risanamento dei conti pubblici a carico delle Regioni a Statuto speciale»,
senza alcuna indicazione del settore – in particolare senza alcuna scelta di
quello sanitario – che sarebbe stato oggetto dei futuri accordi bilaterali, per
l’ovvia ragione che gli enti ad autonomia speciale finanziano con proprie
risorse il servizio sanitario regionale, con la parziale eccezione della
Regione Siciliana.
Allo stesso modo, sempre
rispetto alle autonomie speciali, l’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del
2016 ha semplicemente ribadito l’obbligo di contribuire al risanamento della
finanza pubblica, imponendo alle ricorrenti di assicurare «gli effetti
finanziari previsti dal presente comma, mediante la sottoscrizione di singoli
accordi con lo Stato, da stipulare entro il 31 gennaio 2017».
Ancora, sempre rispetto alle
autonomie differenziate, il successivo comma 394 conferma la necessità degli
accordi bilaterali affinché le Regioni ad autonomia speciale assicurino «il
contributo a loro carico previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016»: tale
intesa, è bene ribadire, ha individuato il fondo sanitario nazionale come
oggetto del contributo al risanamento per le sole Regioni ordinarie, rinviando
ad intese bilaterali tra Stato ed autonomie speciali la definizione del
contributo a carico di queste ultime.
Ciò nel pieno rispetto,
peraltro, del principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo
cui «lo Stato, quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria,
"neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario” (sentenza n. 341 del
2009)» (sentenza
n. 125 del 2015).
Alla luce del tenore testuale
e del contesto normativo complessivo in cui si collocano le disposizioni
censurate, dunque, esse non impongono alle autonomie speciali alcun concorso
alla riduzione del fabbisogno sanitario nazionale e neppure la riduzione del
finanziamento che esse assicurano autonomamente al proprio servizio sanitario
regionale, con "storno” delle così prodotte economie di spesa al bilancio dello
Stato. Le disposizioni censurate si limitano a ribadire l’obbligo di assicurare
i medesimi effetti finanziari, a titolo di (ulteriore) contributo alla finanza
pubblica, senza indicare il relativo ammontare gravante su ciascuna di esse né
l’ambito di incidenza.
Non viene effettuata, poi,
alcuna imposizione unilaterale, essendo salvaguardato espressamente il
principio dell’accordo.
La seconda parte del comma
394, infatti, stabilisce che, decorso il termine del 31 gennaio 2017, lo Stato
attua, con proprio decreto, quanto previsto per gli anni 2017 e successivi
dalla citata intesa dell’11 febbraio 2016 con le Regioni ordinarie, al fine di
garantire il conseguimento dell’obiettivo programmatico di finanza pubblica per
il settore sanitario.
Ed è quanto, appunto, accaduto
con il d.m. 5 giugno 2017, il quale non ha riguardato in alcun modo le
autonomie speciali – a tanto non autorizzandolo la disposizione censurata – e
si è limitato, in assenza della sottoscrizione degli accordi previsti con le
autonomie speciali, ad incidere ulteriormente sul livello di finanziamento del
fabbisogno del servizio sanitario nazionale, a tutto discapito delle Regioni a
statuto ordinario.
Non fondata appare anche la
doglianza relativa all’irragionevolezza del termine – asseritamente
troppo breve – imposto per addivenire ai richiesti accordi bilaterali, in quanto
essi avrebbero dovuto essere conclusi già in un «termine ragionevole» a partire
dall’intesa dell’11 febbraio 2016, in forza dell’art. 1, comma 680, della legge
n. 208 del 2015, sicché il censurato comma 394 ha semplicemente fissato un
nuovo termine per la relativa stipula.
6.2.1.– Con specifico
riferimento al ricorso proposto dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
occorre ribadire quanto già evidenziato da questa Corte nella sentenza n. 154 del
2017 in ordine alla presunta illegittimità dell’imposizione di un
contributo alla finanza pubblica non previsto nell’accordo stipulato con lo
Stato in data 23 ottobre 2014 e in relazione al diverso trattamento riservato
dalle disposizioni censurate – come già dal precedente art. 1, comma 680, della
legge di stabilità per il 2016 – all’accordo concluso con lo Stato in data 15
ottobre 2014 dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, che sarebbe di
contenuto analogo e, come tale, ingiustamente privilegiato dalla "clausola di
garanzia” contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 1, comma 392, della legge n.
232 del 2016.
Nella sentenza richiamata
questa Corte dichiarò non fondate analoghe questioni, alla luce del diverso
contenuto degli accordi conclusi con lo Stato da parte delle Province autonome
della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, da un lato, e della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dall’altro.
Nonostante entrambi gli
accordi siano stati recepiti nella legge n. 190 del 2014 (rispettivamente ai
commi da 406 a 413 e ai commi da 513 a 523), soltanto il primo, nel ridefinire
complessivamente i rapporti finanziari tra lo Stato, la Regione autonoma
Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano,
fino al 2022, esclude la possibilità di modifiche peggiorative, salvo esigenze
eccezionali di finanza pubblica e per importi predeterminati già nelle clausole
del patto.
Rispetto a quello stipulato
dalle autonomie della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, infatti,
l’accordo finanziario concluso il 23 ottobre 2014 dalla Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia con lo Stato esibisce contenuti affatto diversi.
A prescindere dalla
considerazione che tale accordo contempla un orizzonte temporale limitato al
2017, esso non subordina espressamente l’imposizione di ulteriori contributi al
risanamento della finanza pubblica al ricorrere di specifiche condizioni,
idonee a limitare il potere unilaterale dello Stato.
Il comma 517 dell’art. 1 della
legge n. 190 del 2014 – inserito nell’ambito delle disposizioni di recepimento
dell’accordo concluso con lo Stato e diretto a riprodurre quanto previsto
dall’art. 3, punto 4, del patto – prevede, anzi, espressamente che «[i]
predetti obiettivi per gli anni dal 2015 al 2017 possono essere rideterminati
in conseguenza di nuovi contributi alla finanza pubblica posti a carico delle
autonomie speciali con legge statale», fermo restando il vincolo del metodo
pattizio, che le disposizioni oggi impugnate continuano a garantire.
La peculiarità dell’accordo
concluso con le autonomie della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol,
dunque, è idonea a giustificarne l’isolata menzione nel quarto periodo del
comma 392, dovendosi, perciò, escludere la violazione del principio di
eguaglianza lamentata dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Non coglie nel segno
l’argomentazione addotta dalla ricorrente nella memoria illustrativa depositata
in prossimità dell’udienza: in essa si richiama, in particolare, il principio
di buona fede che governa i rapporti tra le parti contrattuali, che
consentirebbe di imporre nuovi contributi solo in presenza di esigenze di
finanza pubblica «nuove e sopravvenute» rispetto a quelle già valutate
nell’accordo, nella specie reputate insussistenti.
In realtà, è proprio il
contenuto dell’accordo – poi trasfuso in disposizioni di legge – che non
legittima la tesi della necessità di esigenze sopravvenute per imporre nuovi
contributi alla finanza pubblica. Non solo, infatti, in tale accordo manca (a differenza
di quello concluso con le autonomie del Trentino-Alto Adige), la subordinazione
al ricorrere di «eccezionali esigenze di finanza pubblica», ma le sue clausole
considerano possibile – per concorde volontà delle parti – la rideterminazione
degli obiettivi di finanza pubblica per gli anni dal 2015 al 2017 semplicemente
«in conseguenza di nuovi contributi alla finanza pubblica posti a carico delle
autonomie speciali con legge statale», affidando al metodo pattizio – come più
volte detto, qui pienamente garantito – la determinazione del concorso
finanziario per gli anni successivi.
6.2.2.– Con peculiare riferimento ai ricorsi
proposti cautelativamente dalle Province autonome di Trento e di Bolzano,
occorre aggiungere ulteriori considerazioni.
Come già anticipato, infatti,
l’accordo concluso in data 15 ottobre 2014 è l’unico (tra quelli conclusi nel
medesimo periodo da tutte le autonome speciali) a godere di una particolare
stabilità, in quanto, nel ridefinire complessivamente, fino al 2022, i rapporti
finanziari tra lo Stato, la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, esclude la possibilità di modifiche
peggiorative, salvo esigenze eccezionali di finanza pubblica e per importi
predeterminati già nelle clausole del patto. Esso, dunque, è l’unico che
subordina espressamente l’imposizione di ulteriori contributi al risanamento
della finanza pubblica al ricorrere di specifiche condizioni, idonee a limitare
il potere unilaterale dello Stato perfino sotto il profilo dell’an,
ciò che ne giustifica, peraltro, l’isolata menzione nell’ultimo periodo
dell’impugnato comma 392 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016.
In definitiva, i ricorsi delle
Province autonome di Trento e di Bolzano vanno dichiarati non fondati per erroneità
del presupposto interpretativo. Si deve, infatti, escludere che delle norme
censurate possa darsi la lettura paventata dalle ricorrenti, poiché lo Stato
non può imporre a tali enti ulteriori contributi al risanamento della finanza
pubblica, se non al ricorrere delle condizioni – nel caso di specie neppure
allegate dalla difesa statale – previste dall’accordo del 15 ottobre 2014, non
a caso oggetto della "clausola di salvaguardia” contenuta nel quarto periodo
dell’art. 1, comma 392, della legge n. 232 del 2016.
6.2.3.– Il ricorso della Regione autonoma
Sardegna ripropone, contro l’art. 1, commi 392 e 394, della legge n. 232 del
2016, censure del tutto analoghe a quelle già mosse nei confronti dell’art. 1,
comma 680, della legge n. 208 del 2016.
Le censure che imputano alle
disposizioni impugnate la violazione del metodo pattizio nella determinazione
delle relazioni finanziarie tra lo Stato e le autonomie speciali risultano non
fondate in base alle medesime argomentazioni illustrate al precedente punto
6.2.
Tutte le altre censure,
incentrate sulla presunta violazione dell’accordo stipulato con lo Stato il 21
luglio 2014 e recepito dall’art. 42, commi da 9 a 13, del d.l. n. 133 del 2014,
come convertito, vanno ugualmente dichiarate non fondate, per i motivi chiariti
da questa Corte nella sentenza n. 154 del
2017, che ha escluso che l’imposizione alla Regione autonoma Sardegna di
ulteriori contributi alla finanza pubblica violi le clausole di quell’accordo.
Nella pronuncia da ultimo
richiamata, infatti, questa Corte ha ascritto l’accordo concluso tra lo Stato e
la Regione autonoma Sardegna al cosiddetto coordinamento dinamico della finanza
pubblica, concernente le singole misure finanziarie adottate per il governo di
quest’ultima, come tali soggette a periodico adeguamento.
Ciò esclude la possibilità di
riconoscere, in generale, un affidamento tutelabile in ordine all’immutabilità
delle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni, fermo il metodo pattizio per
le autonomie speciali.
Del resto, lo specifico
contenuto di quell’accordo non esclude espressamente la possibilità di imporre
ulteriori contributi al risanamento dei conti pubblici.
Il comma 9 dell’art. 42 del
d.l. n. 133 del 2014, come convertito, nel recepire, infatti, l’accordo
concluso dalla Regione autonoma Sardegna con lo Stato, ha fissato l’obiettivo
di finanza pubblica cui avrebbe dovuto concorrere la Regione solo per il 2014,
limitandosi ad imporre, per gli anni dal 2015 in poi, l’obbligo di conseguire
«il pareggio di bilancio come definito dall’articolo 9 della legge n. 243 del
2012», dunque inteso come saldo non negativo, in termini di competenza e di
cassa, tra le entrate finali e le spese finali. E ciò non implica l’impossibilità
di imporre ulteriori contributi al risanamento della finanza pubblica.
Per tale ragione, dunque, non
sussiste neppure la prospettata disparità di trattamento rispetto all’accordo
firmato tra lo Stato e le autonomie della Regione autonoma Trentino-Alto
Adige/Südtirol, le cui peculiarità – in precedenza illustrate – ne giustificano
l’isolata menzione nel quarto periodo del comma 392.
Nella memoria illustrativa
depositata in prossimità dell’udienza, la Regione autonoma Sardegna ha indicato
le ragioni per cui le soluzioni adottate nella sentenza n. 154 del
2017 non sarebbero automaticamente applicabili anche al caso qui in esame,
sottolineando che il comma 394 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016 avrebbe
ridotto i «margini di negoziabilità», imponendo a carico delle Regioni ad
autonomia differenziata l’obbligo di assicurare «il contributo a loro carico
previsto dall’intesa dell’11 febbraio 2016».
La censura muove evidentemente
dal presupposto che le intese condizionino anche l’an
dell’imposizione del contributo alle autonomie speciali.
Tale premessa contrasta con la
già richiamata giurisprudenza di questa Corte, ribadita da ultimo nella sentenza n. 154 del
2017, in cui si è chiarito che alle intese bilaterali – salvi altri vincoli
di matrice pattizia (che, allo stato, riguardano solo la posizione delle
autonomie della Regione Trentino-Alto Adige) – è rimessa esclusivamente la
definizione del quantum gravante su ciascuna autonomia speciale e delle
modalità di contribuzione.
Tale conclusione si attaglia
anche alle disposizioni ora in esame, essendo semmai vincolante (ai sensi del
comma 394) solo il quantum complessivo del contributo imposto alle autonomie
speciali, parametrato all’importo non coperto dall’intesa dell’11 febbraio
2016. Tale accordo è stato raggiunto in una sede, quella dell’autocoordinamento, alla quale anche le autonomie speciali
erano chiamate a partecipare, evidentemente proprio per contribuire a definire,
in applicazione del principio di leale collaborazione, tale importo. Ma
l’intesa da ultima citata, naturalmente, non definisce né l’importo gravante su
ciascuna autonomia speciale né il quomodo della
relativa applicazione, ancora rimesso alle singole negoziazioni bilaterali.
6.2.4.– Nel dichiarare non
fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dalle autonomie
speciali contro l’art. 1, commi 392 e 394, della legge n. 232 del 2016, per
erroneità del presupposto interpretativo, questa Corte non può esimersi dal
ribadire quanto già evidenziato, nel solco dei propri precedenti, nella sentenza n. 154 del
2017: il principio di leale collaborazione richiede un confronto autentico,
orientato al superiore interesse pubblico di conciliare l’autonomia finanziaria
delle Regioni con l’indefettibile vincolo, gravante anche sulle Regioni ad
autonomia speciale, di concorrere alle manovre finanziarie. Anzi, una volta
esclusa la violazione dei parametri costituzionali e statutari evocati dalle
ricorrenti, non appare in alcun modo rispondente allo stesso principio di leale
collaborazione il perdurante rifiuto opposto dalle autonomie speciali alla
stipula degli accordi previsti dalle disposizioni impugnate.
In tema di relazioni
finanziarie tra lo Stato e le autonomie speciali, non costituisce fenomeno
nuovo l’impasse determinata dalla mancata collaborazione di queste ultime alla
quantificazione dell’ammontare del contributo al risanamento della finanza
pubblica gravante su ciascuna di esse, e fissato complessivamente per l’intero
comparto.
Questa Corte, già nella sentenza n. 19 del
2015, ha ricordato che il principio dell’accordo impone un dovere di
discussione ricadente su entrambe le parti affinché si realizzi, in tempi
ragionevolmente brevi, un serio tentativo di superare le divergenze «attraverso
le necessarie fasi dialogiche, quanto meno articolate nello schema
proposta-risposta, replica-controreplica (sentenza n.379 del 1992)».
Ciò, da entrambe le parti,
senza dar luogo ad atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o
insufficientemente motivati, di modo che il confronto possa avvenire su basi di
correttezza e di apertura all’altrui posizione.
Ma sempre la sentenza n. 19 del
2015 ha sancito che, ove non si addivenga ad un accordo, «una
determinazione normativa unilaterale provvisoria dello Stato risulta
adempimento indefettibile per assicurare alla manovra di stabilità la sua
naturale scadenza».
Questi principi vanno qui
confermati, a maggior ragione in una situazione in cui la renitenza alla
stipula degli accordi da parte delle autonomie speciali ha determinato, come in
precedenza illustrato, un maggior aggravio a carico delle Regioni ordinarie.
Si tratta di un effetto legato
al meccanismo normativo oggetto dell’attuale scrutinio, fondato su un autocoordinamento che coinvolge Regioni a statuto ordinario
ed autonomie differenziate, senza però vincolare queste ultime, che non vengono
incise da un intervento statale collocato solo "a valle” e teso ad assicurare
comunque i saldi complessivi della manovra finanziaria.
È evidente che la garanzia del
metodo dell’accordo, che pure il procedimento concertativo descritto
salvaguarda, rafforzandolo con l’ulteriore previsione di accordi bilaterali
concernenti le singole autonomie speciali, non può creare il paradosso di
esonerare sostanzialmente queste ultime dall’obbligo, che pure grava su di
esse, di contribuire al processo di necessario risanamento dei conti pubblici
(art. 97, primo comma, ultimo inciso, Cost.), con
l’ingiusto risultato di accollare agli altri enti del livello regionale, che
non godono di pari guarentigie di ordine statutario, l’onere di assicurare
l’effetto finanziario complessivo perseguito dal legislatore statale.
Una simile conseguenza
potrebbe dunque essere scongiurata in futuro, se lo Stato, per il solo caso di
stallo nelle trattative, determinasse in modo unilaterale, sia pur con il
carattere della provvisorietà, il riparto pro quota tra le autonomie speciali
del contributo loro imposto.
Si tratterebbe, come pure già
chiarito dalla citata giurisprudenza costituzionale, di un rimedio finalizzato
ad assicurare il rispetto dei vincoli europei connessi alla manovra di
bilancio, che lascerebbe tuttavia impregiudicato il naturale sbocco della leale
(e reale) collaborazione con la stipula degli accordi bilaterali, in tempi
utili alle decisioni di finanza pubblica, secondo «canoni di ragionevolezza e
di imparzialità nei confronti dei soggetti chiamati a concorrere alla
dimensione complessiva della manovra» (così, ancora, sentenza n. 19 del
2015).
Del resto, sempre nella
pronuncia da ultimo citata, questa Corte ha chiarito che lo strumento
dell’accordo serve «a determinare nel loro complesso punti controversi o
indefiniti delle relazioni finanziarie tra Stato e Regioni, sia ai fini del
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica nel rispetto dei vincoli
europei, sia al fine di evitare che il necessario concorso delle Regioni
comprima oltre i limiti consentiti l’autonomia finanziaria ad esse spettante».
Di qui, l’ulteriore considerazione che l’oggetto dell’accordo è costituito dalle
diverse componenti delle relazioni finanziarie che, nel loro complesso,
comprendono e trascendono la misura del concorso regionale, la quale ultima,
dunque, non costituisce l’unico indice per valutare il maggior o minore margine
di negoziabilità riconosciuto alle autonomie speciali, rimanendo intatta la
possibile negoziazione di altre componenti finanziarie attive e passive,
ulteriori rispetto al concorso fissato nell’ambito della manovra finanziaria.
6.2.5.– Le Regioni autonome Sardegna e
Friuli-Venezia Giulia impugnano – la prima in relazione all’art. 117, terzo
comma, Cost. ed agli artt. 7
e 8 dello statuto speciale; la seconda in relazione all’art. 119 Cost. – l’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016,
che ha esteso al 2020 l’orizzonte temporale di operatività del contributo
introdotto dall’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015.
Esse lamentano la violazione
del canone della transitorietà, cui la giurisprudenza di questa Corte subordina
l’operatività di misure di contenimento della spesa pubblica.
È dunque censurata una
disposizione che si è limitata ad estendere di una sola annualità un contributo
originariamente fissato per il triennio 2017-2019.
Si tratta di situazione
normativa analoga a quella vagliata dalla sentenza n. 141 del
2016, con riferimento al primo ampliamento annuale del contributo alla
finanza pubblica previsto dall’art. 46, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 66
del 2014, come convertito: tale disposizione venne considerata da questa Corte
conforme ai parametri evocati, con l’avviso, tuttavia, che «il costante ricorso
alla tecnica normativa dell’estensione dell’ambito temporale di precedenti
manovre, mediante aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle originariamente
previste, finisce per porsi in contrasto con il canone della transitorietà, se
indefinitamente ripetuto».
Poiché la disposizione ora
censurata estende il contributo per una sola annualità, e per la prima volta,
le questioni sollevate sull’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016
vanno, dunque, dichiarate non fondate.
6.2.6.– La Regione Siciliana impugna l’art. 1,
comma 528, della legge n. 232 del 2016 sotto vari profili.
Quello basato sulla violazione
del canone della transitorietà va dichiarato non fondato per le medesime
ragioni ricordate al precedente punto 6.2.5.
Con le restanti censure la
ricorrente lamenta la violazione del metodo pattizio e l’impossibilità di poter
esercitare le proprie funzioni, per effetto della contrazione delle risorse
derivanti dall’estensione temporale del contributo finanziario prevista dalla
disposizione impugnata.
Anche tali censure non sono
fondate.
Quanto alla prima, la sentenza n. 154 del
2017 ha spiegato le ragioni per cui il metodo pattizio è salvaguardato
dall’art. 1, comma 680, terzo periodo, della legge n. 208 del 2015, di cui la
disposizione impugnata estende il confine temporale al 2020.
Quanto alla seconda, la stessa
sentenza n. 154
del 2017 ha dichiarato non fondate analoghe censure evidenziando che
nessuna prova era stata fornita dalla Regione Siciliana, sulla quale pure
incombeva il relativo onere, in ordine all’impossibilità, asseritamente
conseguente all’imposizione del contributo contestato, di svolgere le proprie
funzioni.
Nel ricorso introduttivo del
presente giudizio la Regione Siciliana si è limitata a specificare rispetto a
quali settori di attività amministrativa – affidati alla propria competenza
esclusiva in base agli evocati parametri statutari – l’estensione temporale del
contributo finanziario determinerebbe l’impossibilità di far fronte ai propri
compiti. Ma nessuna prova è stata, in concreto, neppure allegata per dimostrare
la relativa asserzione.
Solo con la memoria
illustrativa presentata in prossimità dell’udienza, la ricorrente ha depositato
una relazione del ragioniere generale della Regione, che tuttavia non appare
sufficiente ai fini indicati.
Da tale documento, infatti,
risulta che la situazione di squilibrio finanziario «in atto esistente per
l’intero triennio 2018-2020» non avrebbe consentito la presentazione del bilancio
di previsione relativo a tale periodo. Questo scompenso economico sarebbe
cagionato, tuttavia, da «oneri non ricompresi nel Bilancio di previsione» e
dalla riduzione del gettito dell’imposta di bollo, per un importo complessivo
(di circa 325 milioni di euro) asseritamente
corrispondente al contributo alla finanza pubblica per l’esercizio 2020. Ciò
«potrebbe determinare», a parere della ricorrente, una riduzione dei livelli di
assistenza sanitaria erogati nel territorio nell’esercizio 2020 o «in alternativa»
un deficit del sistema sanitario regionale. Trattasi, all’evidenza, di
allegazioni del tutto generiche, dalle quali non emerge neppure un rapporto
causale tra l’estensione del contributo al risanamento della finanza pubblica
disposto dalla norma impugnata e il prospettato squilibrio di bilancio.
Va aggiunto che non si
comprende affatto come l’imposizione di un contributo in favore dello Stato
«mediante generico riferimento ai risparmi di spesa», da concordarsi
annualmente entro il 31 gennaio, impedirebbe di assicurare la copertura
finanziaria richiesta dalla disposizione dell’art. 81, ultimo comma, Cost.
6.3.– Le censure proposte dalla Regione
Lombardia sull’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, dopo la rinuncia
parziale ai motivi di ricorso, si concentrano sulla violazione del canone della
necessaria transitorietà e sulla circostanza che il contributo finanziario di
cui la disposizione impugnata ha esteso l’ambito temporale di operatività
determinerebbe effetti perequativi impliciti, in contrasto con gli evocati
parametri costituzionali.
La prima doglianza, ancora una
volta, va dichiarata non fondata in base alle medesime argomentazioni
articolate al precedente punto 6.2.5.
La seconda poggia sulla
prospettata possibilità concessa allo Stato di imporre una distribuzione del
sacrificio disomogenea, tenendo «anche» conto del PIL e della popolazione
residente, senza contemplare il passaggio per un fondo perequativo ai sensi
dell’art. 119, terzo comma, Cost. e
«senza fare i conti con le premesse e gli obiettivi indicati nel comma 5
dell’art. 119», oltre che omettendo di «enunciare un vincolo a carico dello
Stato alla futura erogazione».
Sarebbero, in tal modo,
violati i principi espressi dalla sentenza n. 79 del
2014 di questa Corte.
Neppure tale censura è
fondata.
La disciplina dell’intervento
sostitutivo statale, per il caso di mancato accordo tra le Regioni in sede di autocoordinamento, è già stato considerato compatibile con
gli evocati parametri costituzionali nella sentenza n. 154 del
2017.
Coglie infatti nel segno la
difesa statale laddove afferma che la sentenza n. 79 del
2014 di questa Corte, citata dalla ricorrente, avrebbe soltanto sancito
l’incostituzionalità di meccanismi che commisurano le riduzioni di spesa
all’ammontare delle spese sostenute dalle Regioni per i consumi intermedi, in
quanto i medesimi determinerebbero un effetto perequativo implicito che non
soddisfa i requisiti di cui all’articolo 119 Cost.
Effetto perequativo implicito che è stato escluso, in relazione a disposizioni
appunto analoghe a quelle di cui si discute, impositive di contributi alla
finanza pubblica, dalle successive sentenze n. 65 e n. 141 del 2016,
e, in relazione proprio all’art. 1, comma 680, della legge n. 208 del 2015,
dalla sentenza
n. 154 del 2017. Quest’ultima pronuncia ha vagliato la versione della norma
anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 528, della legge n. 232
del 2016, qui impugnato, ma utilizzando argomenti che, dopo la soppressione di
tali modifiche ad opera del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, possono
essere in questa sede richiamati.
Le citate pronunce hanno chiarito
che norme di questo tipo non comportano, neppure indirettamente, una riduzione
degli squilibri tra le Regioni, mirando piuttosto a coinvolgere tutti gli enti
nell’opera di risanamento, secondo criteri di progressività dello sforzo,
proporzionati alla dimensione del PIL e della popolazione, senza alcun effetto
di livellamento.
6.4.– La Regione Veneto impugna l’art. 1, commi
392 e 527, della legge n. 232 del 2016. Le censure relative alle due
disposizioni vanno tenute distinte, in quanto diverso è l’esito al quale sono
destinate.
6.4.1.– Con riferimento al comma 392, tutte le
doglianze vanno dichiarate non fondate, per le ragioni già evidenziate nelle
sentenze n. 154
del 2017, n.
141 e n. 65
del 2016 di questa Corte.
In particolare, la prima
pronuncia richiamata, quanto alla mancanza di proporzionalità dei «tagli», al
loro asserito carattere «meramente lineare» e al lamentato difetto di
istruttoria in ordine ai risparmi conseguiti dalle Regioni già considerate
virtuose, ha chiarito che sono in primo luogo queste ultime a decidere l’entità
dell’intervento in ogni singolo ambito. E le Regioni, con l’intesa dell’11
febbraio 2016, hanno deciso, in autocoordinamento, di
concentrare il 90 per cento dei risparmi imposti dallo Stato proprio nel
settore sanitario.
Sempre la sentenza n. 154 del
2017, inoltre, quanto alla mancanza di un esplicito riferimento, nella
disposizione censurata, ai costi ed ai fabbisogni standard regionali, ha chiarito
che tale carenza non impedisce l’impiego anche di tali criteri per la
distribuzione della riduzione di spesa.
Rafforza questa conclusione lo
ius superveniens costituito
dal d.l. n. 50 del 2017, come convertito.
Sempre la sentenza n. 154 del
2017 ha, infatti, precisato che l’art. 24, comma 2, lettere a) e b), di
tale decreto-legge ha soppresso – a decorrere dall’anno 2018 – i periodi
dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, e dell’art. 1,
comma 680, della legge n. 208 del 2015, che prevedevano appunto l’intervento
sostitutivo statale. Esso ha contestualmente aggiunto due commi, il 534-bis e il 534-ter, all’art. 1
della legge n. 232 del 2016: il comma 534-ter, nel
disciplinare ex novo l’intervento statale sostitutivo, in caso di mancato
raggiungimento dell’intesa in Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ha reso
prioritaria – rispetto al riferimento al PIL ed alla popolazione residente – la
considerazione dei fabbisogni standard come approvati secondo il meccanismo
innovativo introdotto dal comma 534-bis.
In tal modo, per evitare un
intervento sostitutivo statale improntato a criteri incentrati prioritariamente
su indicatori qualitativi, le Regioni dovranno necessariamente adeguarsi a tali
parametri già nella fase iniziale dell’autocoordinamento.
Quanto al difetto di
istruttoria, da parte dello Stato, in ordine alla sostenibilità del «definanziamento» del fondo sanitario rispetto alla
determinazione dei nuovi LEA (oggi definiti dal decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017, recante «Definizione e aggiornamento
dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502»), ritenuti dalla ricorrente
"evidentemente sottostimati” da parte dello Stato, questa Corte ha già
evidenziato che, in considerazione del vincolo legislativo di assicurare il
finanziamento dei LEA, l’accordo tra le Regioni deve garantire che ogni realtà
territoriale debba assicurarli in condizioni di efficienza ed appropriatezza,
sicché ogni singolo ente avrà la responsabilità di allocare i risparmi su
quelle voci il cui sacrificio non pregiudica i servizi essenziali per i
cittadini.
Grava, d’altro canto, sulla
Regione ricorrente l’onere di dimostrare l’impossibilità di garantire i LEA
definiti dallo Stato, in conseguenza della riduzione delle risorse messe a
disposizione.
A tale proposito, non appaiono
decisive le ulteriori argomentazioni contenute nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza, con le quali la Regione Veneto ha dedotto la necessità
di ridurre alcune prestazioni «in materia di Lea», per effetto «delle minori
risorse disponibili».
La ricorrente, infatti, non
prospetta l’impossibilità di assicurare un livello di offerta delle prestazioni
corrispondente ai LEA, ma espone difficoltà nell’erogazione di specifiche
prestazioni per soddisfare tempestivamente l’intera platea degli utenti.
È pur vero, tuttavia, che, sul
lungo periodo, la continua imposizione di contributi alla finanza pubblica alle
Regioni a statuto ordinario, inevitabilmente incidenti sul livello del
finanziamento del Servizio sanitario nazionale, potrebbe comportare in futuro
il rischio dell’impossibilità di assicurare il rispetto dei LEA fissati dallo
Stato. Su quest’ultimo incombe perciò l’onere di evitare tale rischio,
eventualmente mediante il reperimento di risorse in ambiti diversi da quelli
afferenti la spesa regionale, per rispettare gli obblighi, contratti anche a
livello europeo, di garantire l’equilibrio finanziario dell’intero settore
pubblico allargato.
In ordine al mancato
coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza
pubblica, già la sentenza
n. 154 del 2017 ha ricordato che, pur dovendosi riconoscere l’inevitabile
incidenza sull’autonomia finanziaria delle Regioni dell’obbligo ad esse imposto
di concorrere alla finanza pubblica, è necessario, ma anche sufficiente,
«contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la
garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite» alle autonomie (sentenza n. 139 del
2012), garantendo il loro pieno coinvolgimento (sentenza n. 88 del
2014). E, come pure già rilevato da questa Corte (sentenza n. 65 del
2016), tale coinvolgimento è assicurato da disposizioni, come quella
censurata, che riconoscono, nella fase iniziale, un potere di determinazione
autonoma, da parte delle Regioni, in ordine alla modulazione delle necessarie
riduzioni nei diversi ambiti di spesa (sentenza n. 141 del
2016). Del resto, nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza,
la stessa Regione Veneto, preso atto di quanto stabilito dalla sentenza n. 154 del
2017 su analoga censura, non insiste su tale motivo di ricorso.
La Regione Veneto, ancora, asserisce
che la diminuzione – rispetto a quanto stabilito nell’intesa sancita l’11
febbraio 2016 – del livello di finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale
standard cui concorre lo Stato, sarebbe avvenuta senza che sia stata prevista o
attuata una nuova intesa con le Regioni, a fronte di «una prassi» (quella dei
cosiddetti Patti per la salute) invalsa fin dall’anno 2000.
In particolare, la
disposizione impugnata non solo ridurrebbe di oltre un miliardo di euro
l’importo determinato, per gli anni 2017 e 2018, nell’intesa dell’11 febbraio
2016, ma fisserebbe, del tutto unilateralmente, a 115 miliardi di euro
l’importo per l’anno 2019, senza che su tale cifra sia mai stata raggiunta
un’intesa o avviata una qualsiasi procedura concertativa, da ritenere, invece,
imposta dagli evocati parametri costituzionali.
Anche tale censura si rivela
non fondata.
Nella sentenza n. 192 del
2017, pure richiamata dalla ricorrente nella memoria illustrativa, questa
Corte ha chiarito che «[è] ben vero che, in base al già citato art. 26, comma
1, del d.lgs. n. 68 del 2011, il fabbisogno sanitario nazionale standard è
determinato "tramite intesa”, ma questo principio legislativo non vincola in
modo assoluto e inderogabile le leggi successivamente approvate dalle due
Camere. D’altra parte, la determinazione del concorso statale al fabbisogno
sanitario nazionale standard lascia ampio spazio, a valle, alle singole Regioni
per disciplinare, programmare e organizzare i servizi sanitari».
Si può osservare, in aggiunta,
che l’ulteriore riduzione del livello di finanziamento del fabbisogno sanitario
– per il caso di mancato accordo con le autonomie speciali – era stata già
prevista nell’intesa dell’11 febbraio 2016, fino al 2018, per effetto
dell’accollo alle Regioni ordinarie della quota di contributo gravante sulle
autonomie differenziate, sicché il problema si porrebbe, al più, soltanto per
la determinazione anticipata, in assenza di procedura concertativa, del fabbisogno
sanitario anche per il 2019.
Ma, a ben vedere, tale
determinazione unilaterale trova giustificazione in due ordini di
considerazioni.
In primo luogo, essa è imposta
dalla necessità di redigere il bilancio pluriennale statale per l’arco temporale
dal 2017 al 2019.
In secondo luogo, essa appare
proprio funzionale alla salvaguardia della possibilità, per le Regioni, di
programmare per tempo l’erogazione dei servizi in condizioni di efficienza e di
appropriatezza. A tale ultimo proposito, ancora la sentenza n. 192 del
2017 ha chiarito che la garanzia di servizi effettivi, che corrispondono a
diritti costituzionali, richiede certezza delle disponibilità finanziarie, nel
quadro dei compositi rapporti tra gli enti coinvolti. Ha aggiunto tuttavia
un’importante considerazione, che va in questa sede ribadita, sottolineando che
se è vero che anche la tutela del diritto alla salute non può non subire i
condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse
finanziarie disponibili, tuttavia non deve mai essere compromessa la garanzia
del suo nucleo essenziale, sicché le determinazioni sul fabbisogno sanitario
complessivo «non dovrebbero discostarsi in modo rilevante e repentino dai punti
di equilibrio trovati in esito al ponderato confronto tra Stato e Regioni in
ordine ai rispettivi rapporti finanziari». Nella specie, questa condizione
appare rispettata, in quanto la fissazione del livello di finanziamento per
l’anno 2019 non si discosta in modo rilevante dal livello concertato per gli
anni precedenti.
6.4.2.– Con riferimento alle censure mosse contro
l’art. 1, comma 527, della legge n. 232 del 2016, occorre subito precisare che
la disposizione impugnata estende temporalmente l’ambito di operatività di due
distinti contributi alla finanza pubblica. Tali contributi risultano imposti,
alle sole Regioni a statuto ordinario, rispettivamente dal primo e dal terzo
periodo dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
Delle due censure mosse contro
l’estensione temporale di entrambi i contributi, quella incentrata sulla
prospettata assenza degli «indispensabili elementi di razionalità,
proporzionalità, efficacia e sostenibilità» risulta non fondata, per le medesime
ragioni illustrate nella sentenza n. 154 del
2017.
Anche in questa occasione –
come già allora evidenziato da questa Corte – la ricorrente non ha dimostrato
l’impossibilità di assicurare un adeguato soddisfacimento dei bisogni connessi
alle prestazioni sociali, pur in assenza della determinazione statale dei LIVEAS, eventualmente mediante la riallocazione delle
risorse disponibili.
Quanto alla censura attinente
alla violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., per inosservanza del
canone della transitorietà delle misure di contenimento della spesa pubblica,
essa è fondata solo con riferimento al contributo previsto dal primo periodo
della norma modificata dalla disposizione qui impugnata.
Non è, invece, fondata la
questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il contributo
previsto dal terzo periodo della medesima disposizione.
Va ricordato, a tale
proposito, che l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito,
oltre ad imporre per l’anno di riferimento (il 2014) un contributo pari a 500
milioni di euro, prevedeva, per il successivo triennio dal 2015 al 2017, un
contributo annuale di 750 milioni di euro.
Con l’art. 1, comma 398,
lettera a), numero 2), della legge n. 190 del 2014, tale contributo venne
esteso al 2018. Contemporaneamente, la lettera c) del medesimo art. 1, comma
398, della legge di stabilità per il 2015 introdusse un terzo periodo all’art.
46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, con il quale impose – per la prima volta
– un distinto contributo aggiuntivo, per il quadriennio dal 2015 al 2018, di
3.452 milioni di euro annui.
Questa Corte, con la sentenza n. 141 del
2016, ha rigettato una questione di legittimità costituzionale analoga a
quella avanzata in questa sede e proposta contro l’art. 1, comma 398, lettera
a), numero 2), della legge n. 190 del 2014, che prorogava di un anno
l’orizzonte temporale del contributo previsto dal primo periodo dell’art. 46,
comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, escludendo che una sola proroga potesse
contrastare con il criterio della transitorietà.
Con l’art. 1, comma 681, della
legge n. 208 del 2015, il legislatore, per la seconda volta, ha esteso di un
anno (portandolo al 2019) il contributo di cui si discute, e, per la prima
volta, ha esteso l’operatività del diverso contributo previsto dal terzo
periodo dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e poi
modificato dalla legge n. 190 del 2014.
Questa Corte, investita
dell’impugnativa proposta sempre dalla Regione Veneto, e in base ai medesimi
parametri costituzionali, contro la ricordata previsione della legge di
stabilità per il 2016, con la sentenza n. 154 del
2017 ha nuovamente escluso l’inosservanza del canone della transitorietà,
per entrambi i contributi.
L’art. 1, comma 527, della
legge n. 232 del 2016, oggi impugnato, introduce la terza proroga (al 2020) del
contributo di 750 milioni di euro imposto alle Regioni ordinarie dall’art. 46,
comma 6, primo periodo, del d.l. n. 66 del 2014, in tal modo raddoppiando i
confini temporali della misura finanziaria, originariamente limitati al
triennio dal 2015 al 2017.
La disposizione censurata in
questo giudizio, inoltre, ha prorogato per la seconda volta il contributo
imposto dal terzo periodo del medesimo art. 46, comma 6, appena citato,
dilatandone la durata di un ulteriore anno (fino al 2020), in tal modo
estendendo a sei anni una misura originariamente prevista per il quadriennio
dal 2015 al 2018.
A differenza del contributo
previsto dal terzo periodo dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, la
cui durata è stata aumentata di due anni rispetto a quella quadriennale
originariamente programmata, il raddoppio della durata del sacrificio imposto
dal primo periodo, da tre a sei anni, risulta in frontale contrasto con il
principio di transitorietà. Infatti, norme statali che fissano limiti alla
spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla condizione, tra
l’altro, che si limitino a prevedere un contenimento complessivo della spesa
corrente dal carattere transitorio (ex multis, tra le
più recenti, sentenze n. 154 del 2017,
n. 65 del 2016,
n. 218 e n. 189 del 2015;
nello stesso senso, sentenze n. 44 del 2014,
n. 236 e n. 229 del 2013,
n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012,
n. 182 del 2011).
Non è in discussione il potere
del legislatore statale di programmare risparmi anche di lungo periodo relativi
al complesso della spesa pubblica aggregata. E questa Corte ha, anzi, già
chiarito che «[u]na censura che lamenta il presunto
carattere permanente dello specifico contributo non è provata dalla circostanza
che essa si aggiunga agli effetti delle precedenti manovre di finanza pubblica»
(sentenza n. 154
del 2017).
Tuttavia, le singole misure di
contenimento della spesa pubblica devono presentare il carattere della
temporaneità, al fine di definire in modo appropriato, anche tenendo conto
delle scansioni temporali dei cicli di bilancio e più in generale della
situazione economica del Paese, «il quadro delle relazioni finanziarie tra lo
Stato, le Regioni e gli enti locali, evitando la sostanziale estensione
dell’ambito temporale di precedenti manovre che potrebbe sottrarre al confronto
parlamentare la valutazione degli effetti complessivi e sistemici di queste
ultime in un periodo più lungo» (sentenza n. 169 del
2017).
Questa Corte ritiene che venga
appunto sottratta al trasparente confronto parlamentare la valutazione delle
ricadute di lungo periodo di una manovra economica, tutte le volte in cui la
relativa durata venga raddoppiata, attraverso la tecnica normativa
dell’aggiunta progressiva di ulteriori annualità a quelle inizialmente
previste.
Nel caso di specie, peraltro,
non emergono dai lavori parlamentari, né dalla relazione tecnica allegata al
disegno di legge di iniziativa governativa e neppure dalle difese spiegate nel
presente giudizio dall’Avvocatura generale dello Stato, le ragioni per le quali
non sarebbe stato possibile – in luogo dell’estensione temporale di precedenti
misure restrittive – provvedere ad una trasparente ridefinizione complessiva
delle relazioni finanziarie tra gli enti coinvolti nell’ambito della nuova
manovra finanziaria.
Non è un caso, del resto, che
già nella sentenza
n. 141 del 2016, proprio con riferimento al contributo imposto dal primo
periodo dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, questa
Corte avesse segnalato che il costante «ricorso a tale tecnica normativa
potrebbe, infatti, prestare al canone della transitorietà un ossequio solo
formale, in assenza di plausibili e riconoscibili ragioni che impediscano in
concreto al legislatore di ridefinire e rinnovare complessivamente, secondo le
ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio, il quadro delle relazioni
finanziarie tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, alla luce di mutamenti
sopravvenuti nella situazione economica del Paese», ribadendo, nella successiva
sentenza n. 154
del 2017 e sempre con riferimento al medesimo contributo, l’invito al
legislatore ad evitare il ricorso a tale tecnica.
Deve, dunque, essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 527, della legge
n. 232 del 2016, limitatamente alle parole «al primo e».
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle
altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati
in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 527, della legge 11 dicembre
2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e
bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), limitatamente alle parole «al
primo e»;
2) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
392, della legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento gli artt. 97, 118 e
119 della Costituzione, nonché in riferimento all’art. 5, comma 1, lettera g),
della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), e all’art. 11 della legge 24
dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio
di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), dalla
Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara cessata la
materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, promossa, in riferimento
all’art. 119 Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in
epigrafe;
4) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392 e 394, della
legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e
119 Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione), all’art. 2, comma 1, lettera a), all’art. 3, comma
1, lettere f) e l), agli artt. 4, 12, 48-bis e 50
della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la
Valle d’Aosta), alla legge 26 novembre 1981, n. 690 (Revisione dell’ordinamento
finanziario della regione Valle d’Aosta), come integrata dagli artt. 34 e 36
della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), nonché ai principi di leale collaborazione e ragionevolezza, di cui
agli artt. 5, 120 e 3 Cost., dalla Regione autonoma
Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste,
con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392, primo,
secondo e terzo periodo, e 394, della legge n. 232 del 2016, promosse, in
riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, agli artt. 8, numero 1), 9, numero
10), 16, 79, 80, 103, 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto
1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali
concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), all’art. 2 del d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello
statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità), al
decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e
provinciale), all’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme
di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il
rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché
la potestà statale di indirizzo e coordinamento), nonché al principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost. ed al principio di ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso
indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392, 394 e 528,
della legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 81,
116, 117, terzo comma, 119 e 136 Cost., all’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848, agli artt. 7, 8, 54 e 56 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), e
all’art. 9 della legge n. 243 del 2012, dalla Regione autonoma Sardegna, con il
ricorso indicato in epigrafe;
7) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392, 394 e 528,
della legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 119 Cost.,
agli artt. 48, 49, 63, quinto comma, e 65 della legge costituzionale 31 gennaio
1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), al principio
di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. e al principio pattizio in materia finanziaria, desumibile
anche dall’art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della
Costituzione), dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, con il ricorso indicato
in epigrafe;
8) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 392, primo,
secondo e terzo periodo, e 394, della legge n. 232 del 2016, promosse, in
riferimento agli artt. 81, 117, terzo comma, e 119 Cost., in combinato disposto
con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, agli
artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16, 69, 79, 80, 81, 103, 104 e 107 del d.P.R. n. 670 del 1972, al d.lgs. n. 268 del 1992, all’art.
9 della legge n. 243 del 2012, nonché ai principi di leale collaborazione, di
cui all’art. 120 Cost. e
all’art. 27 della legge n. 42 del 2009, e di ragionevolezza, di cui agli artt.
3 e 97 Cost., dalla Provincia autonoma di Trento, con
il ricorso indicato in epigrafe;
9) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 528, della legge
n. 232 del 2016, promosse, in riferimento agli artt. 81, ultimo comma, 97,
primo comma, 117, terzo comma, 119, primo, secondo, terzo, quarto e ultimo
comma, Cost., agli artt. 14, 15, 17, 20, 36 e 43 del
regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto
della Regione siciliana), all’art. 2, comma 1, del d.P.R.
26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione
siciliana in materia finanziaria), nonché al principio di leale collaborazione,
di cui agli artt. 5 e 120 Cost., dalla Regione
Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;
10) dichiara non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 528,
della legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento all’art. 119, terzo e
quinto comma, Cost., dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in
epigrafe;
11) dichiara non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 392,
della legge n. 232 del 2016, promosse, in riferimento agli artt. 3, 32 e 117,
terzo comma, Cost., all’art. 5, comma 1, della legge 5 maggio 2009, n. 42
(Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione), nonché al principio di leale
collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., dalla
Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
12) dichiara estinto il
processo relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 528, della legge n. 232 del 2016, nella parte in cui inserisce, nel
secondo periodo dell’art. 1, comma 680, della legge 28 dicembre 2015, n. 208,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge di stabilità 2016)», dopo le parole «modalità di acquisizione
delle risorse da parte dello Stato,» le parole «inclusa la possibilità di
prevedere versamenti da parte delle regioni interessate,» promossa dalla
Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il
23 maggio 2018.