SENTENZA N. 157
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra Ministero della giustizia e V.E. ed altri, con ordinanza del 17 febbraio 2014, iscritta al n. 94 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di V.E. ed altri nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 giugno 2015 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi l’avvocato Giunio Massa per V.E. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Chiamato a decidere in ordine alle impugnazioni (riunite) proposte dal Ministero della giustizia avverso undici decisioni del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, relativamente alla parte in cui detto TAR, oltre ad accogliere altrettanti ricorsi in ottemperanza a giudicati di condanna dell’Amministrazione al pagamento di equo indennizzo per eccessiva durata di processi presupposti, aveva anche condannato la stessa amministrazione al pagamento della cosiddetta penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), l’adito Consiglio di Stato, sezione quarta − ritenuto, in premessa, che l’applicazione della suddetta penalità, in quanto subordinata all’assenza di “ragioni ostative”, avrebbe potuto risultare esclusa dal disposto dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) − ha sollevato questione di legittimità costituzionale di detta ultima norma, per la quale «L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili». E ciò per sospetto contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, parametro, quest’ultimo, invocato come norma interposta, in quanto non suscettibile, ad avviso del rimettente, di condurre alla disapplicazione, né ad una interpretazione adeguatrice, della disposizione nazionale censurata.
2.− Si sono costituite, con un’unica memoria, in questo giudizio otto delle parti appellate nel processo a quo, svolgendo argomenti adesivi alla prospettazione di incostituzionalità della norma denunciata, ed escludendo che la correlativa declaratoria possa trovare ostacolo nell’art. 81 Cost., non invocabile per legittimare l’inadempimento delle istituzioni agli obblighi accertati in via definitiva da un proprio organo giurisdizionale.
3.− È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità della questione in esame per non essere suscettibile, la disposizione censurata, di una reductio legitimitatem “a rima obbligata”. E, in subordine, ne ha contestato la fondatezza, sostenendo che «l’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, da parte della Corte di Strasburgo ‒ secondo cui la carenza di risorse disponibili non costituirebbe ex se idoneo fattore giustificativo del ritardo dello Stato nel dare esecuzione alle decisioni di condanna in parola ‒ si pone in contrasto con l’art. 81 Cost. ‒ come novellato, dall’art. 1, della legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012 ‒ che ha introdotto, al comma 1, la regola generale dell’equilibrio di bilancio, alla quale è possibile derogare, ai sensi del successivo comma, facendo ricorso all’indebitamento solo al “verificarsi di eventi eccezionali”».
Con successiva memoria la stessa difesa ha, altresì, segnalato come la giurisprudenza del Consiglio di Stato si sia in prosieguo orientata nel ritenere che «l’art. 114 comma 4 cpa [codice del processo amministrativo] attribuisce al giudice dell’ottemperanza uno strumento per indurre indirettamente l’amministrazione ad eseguire tempestivamente l’ordine di pagamento dallo stesso formulato; strumento ovviamente non utilizzabile per gli inadempimenti pregressi, generanti, piuttosto, obbligazioni di natura risarcitoria».
Considerato in diritto
1.− Il denunciato art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) − nel testo risultante dalla modifica da ultimo introdotta dall’art. 55, comma 1, lettera c), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 − stabilisce che «L’erogazione degli indennizzi [per irragionevole durata del processo] agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili».
2.− Tale disposizione, ovviamente, non comporta che l’esaurimento dei fondi destinati (in bilancio dell’amministrazione erogante) al pagamento degli indennizzi in questione, escluda in via definitiva l’adempimento dei giudicati di condanna ex lege n. 89 del 2001, con riguardo ai quali non vi siano al momento risorse disponibili.
Comporta bensì unicamente che, in conseguenza di quella attuale indisponibilità, il pagamento degli indennizzi di che trattasi sia differito al momento in cui sia ripristinata la disponibilità delle correlative risorse, ed avvenga, quindi, in ritardo rispetto alla data di intervenuta definitività del titolo.
3.− A tal riguardo, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno anche da ultimo ribadito, con sentenza 19 marzo 2014, n. 6312, come il ritardo nel pagamento delle somme dovute in base a titolo esecutivo ai sensi della legge n. 89 del 2001 non possa trovare rimedio nella legge medesima, né dar quindi diritto ad un’ulteriore equa riparazione commisurata all’entità del ritardo.
Le stesse sezioni unite hanno contestualmente, per altro, dubitato che la corresponsione degli interessi (dal giorno della mora debendi a quello del saldo) costituisca rimedio, al ritardo nel pagamento dell’indennizzo per violazione del termine ragionevole del processo, esaustivo e compatibile con il precetto di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Atteso che, per quest’ultima, il ritardo, nella realizzazione del diritto all’indennizzo suddetto, darebbe luogo ad un ulteriore “danno non patrimoniale”, per violazione dell’autonomo «diritto [del soggetto creditore] all’esecuzione delle decisioni interne esecutive»: danno che andrebbe, come tale, a sua volta risarcito.
Ciò premesso, hanno, però, poi concluso quelle sezioni unite che «la scelta ‒ tra le molteplici possibili ‒ del rimedio effettivo a tale ritardo» non possa essere demandata alla Corte costituzionale, ma resti, invece, «attribuita anche dalla stessa Convenzione europea all’“ampia discrezionalità del legislatore”».
4.− La questione ‒ dell’eventuale contrasto della disposizione di cui all’art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001 con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla norma interposta di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU ‒ è, però, ultronea ed eccentrica rispetto all’oggetto del processo a quo.
4.1.− Ciò che, infatti, in quel giudizio il Collegio rimettente è chiamato a decidere è se all’Amministrazione ‒ convenuta in ottemperanza (per ritardato pagamento di indennizzo ex lege n. 89 del 2001) ‒ sia stata legittimamente o meno applicata la penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lettera e), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009 n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), a tenore del quale «Il giudice, in caso di accoglimento del ricorso […] e salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente […]».
4.2.‒ Nel risolvere, in senso affermativo il quesito (oggetto di precedente contrasto all’interno della giurisprudenza amministrativa) sulla applicabilità della suddetta penalità anche alle sentenze di condanna pecuniaria (in difformità da quanto previsto dall’art. 614-bis del codice di procedura civile) ‒ l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25 giugno 2014, n. 15, ha anche ribadito la «peculiare natura giuridica» della suddetta penalità di mora, sottolineando che essa «in virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cc.dd. “astreintes”, assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento» (così testualmente già Consiglio di Stato, sezione quinta, 20 dicembre 2011, n. 6688).
4.3.‒ Nel processo principale è propriamente ed unicamente la penalità di cui all’art. 114, comma 4, lettera e) del citato d.lgs. n. 104 del 2010 a venire, dunque, in rilievo, sia pure in ragione di un (genericamente prospettato) “probabile”, e comunque solo indiretto, effetto ostativo, alla sua applicabilità (nel caso specifico), ricondotto alla disposizione di cui all’art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001.
Di conseguenza, non pertinentemente il Collegio rimettente invece di assumere ad oggetto della questione sollevata il predetto art. 114, comma 4, lettera e) del d.lgs. n. 104 del 2010 (da cui dipende la decisione da adottare nella fattispecie al suo esame), ha viceversa denunciato l’art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001, in riferimento, per di più, all’evocato (interposto) parametro comunitario sul giusto processo e, quindi, nella parte in cui tale ultima norma non garantirebbe il “risarcimento” integrale del danno da irragionevole durata del processo: tema questo estraneo al giudizio a quo.
4.4.‒ Da qui, appunto, l’inammissibilità, per aberratio ictus, della riferita questione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2015.