SENTENZA N. 24
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Silvia Fabbretti
La Corte costituzionale su contumacia e consenso dell’imputato minorenne ai fini della pronuncia della sentenza di irrilevanza del fatto
(per gentile concessione della Rivista telematica Diritto Penale Contemporaneo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Roma nel procedimento penale a carico di U.M.T. con ordinanza del 22 maggio 2012, iscritta al n. 161 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 16 gennaio 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
1.– Con ordinanza del 22 maggio 2012, il Giudice collegiale dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 31, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui – sulla base dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità – esclude che, in caso di contumacia dell’imputato, il consenso alla definizione del processo nell’udienza preliminare possa essere validamente prestato dal difensore non munito di procura speciale.
Il giudice a quo premette di essere investito della richiesta di rinvio a giudizio di un cittadino rumeno minorenne, imputato del delitto di furto aggravato (artt. 624 e 625, primo comma, numero 2, del codice penale). Nel corso dell’udienza preliminare, il difensore dell’imputato, dichiarato contumace, aveva chiesto di poter prestare il consenso alla definizione del processo in tale fase. A fronte dell’opposizione del pubblico ministero – motivata con il carattere personalissimo di tale atto, riservato pertanto esclusivamente all’imputato – il difensore aveva eccepito l’illegittimità costituzionale della norma censurata.
Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che l’imputato è chiamato a rispondere del furto di due specchietti e di due copri valvole, asportati da un esercizio commerciale previa eliminazione dei dispositivi antitaccheggio. Poiché l’imputato è immune da precedenti penali e il fatto risulta di particolare tenuità, il procedimento potrebbe celermente concludersi con l’emissione, nell’udienza preliminare, di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto o per concessione del perdono giudiziale.
L’art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988, come riformulato a fini di adeguamento ai principi del «giusto processo», subordina, tuttavia, tale possibilità al consenso dell’imputato: ciò, in considerazione del fatto che le predette sentenze – le quali presuppongono un’affermazione di colpevolezza – sono basate, se emesse nell’udienza preliminare, su prove non formate nel contraddittorio tra le parti, ma raccolte unilateralmente dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.
La norma è stata costantemente interpretata dalla Corte di cassazione nel senso che la scelta di definire anticipatamente il processo nell’udienza preliminare ha carattere personalissimo ed è, quindi, riservata all’interessato, che deve esprimerla direttamente o a mezzo di procuratore speciale. Di conseguenza, ove l’imputato sia rimasto contumace e non abbia conferito procura speciale al suo difensore, quest’ultimo non è abilitato a prestare il consenso. Nel caso di specie, si imporrebbe pertanto il rinvio a giudizio del minore, con il risultato che lo stesso, per godere dei «benefici» dianzi indicati ed uscire dal circuito processuale, dovrebbe attendere il dibattimento.
Ad avviso del rimettente, un simile regime contrasterebbe con plurimi parametri costituzionali.
Così intesa, la norma censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3 Cost., determinando una ingiustificata disparità di trattamento tra l’imputato comparso in udienza preliminare e l’imputato che – nell’esercizio di una facoltà pienamente garantitagli dall’ordinamento processuale – abbia scelto invece di restare contumace. A parità di situazione sostanziale, solo il primo potrebbe, infatti, fruire dei benefici previsti dal diritto penale minorile senza dover attendere il dibattimento.
La disposizione denunciata sarebbe in contrasto anche con l’art. 24 Cost., compromettendo il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato.
L’imputato contumace è, infatti, rappresentato dal difensore, al quale competono i diritti e le facoltà che la legge riconosce all’imputato stesso, salvo che siano riservati personalmente a quest’ultimo (art. 99 cod. proc. pen.). La legge indica, d’altro canto, espressamente i casi nei quali un atto deve essere compiuto personalmente dall’imputato o da un suo procuratore speciale (artt. 46, comma 2, 419, comma 5, 438, comma 3, 446, comma 3, 571, comma 1, 589, comma 2, 645, comma 1, cod. proc. pen.) e una simile indicazione non si rinviene nella norma censurata. In questa prospettiva, la negazione al difensore della legittimazione a prestare il consenso si risolverebbe in una ingiustificata limitazione dell’attività difensiva, posto che la contumacia impedisce di fatto al giudice di richiedere il consenso direttamente all’imputato. La scelta di definire anticipatamente il processo è basata, d’altronde, su valutazioni che presuppongono cognizioni tecnico-giuridiche che solo il difensore può possedere: riconoscere a quest’ultimo la relativa legittimazione costituirebbe, perciò, necessaria attuazione del «principio di garanzia della difesa tecnica», a sua volta funzionale alla realizzazione del giusto processo, assicurando «un contraddittorio più equilibrato e una sostanziale parità tra accusa e difesa».
L’imputato contumace che non approvi l’operato del suo difensore potrebbe valersi, in ogni caso, del rimedio dell’opposizione, previsto dall’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 448 del 1998 ed esteso dalla Corte costituzionale anche alle sentenze di non luogo a procedere che presuppongono un accertamento di responsabilità (sentenza n. 77 del 1993). Rimarrebbe assicurata, in tal modo, all’imputato la possibilità di «ottenere il vaglio dell’accusa nel pieno contraddittorio davanti al giudice del dibattimento».
Alla stregua della corrente lettura della giurisprudenza di legittimità, il censurato art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988 violerebbe, altresì, il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), avendo come effetto «di mantenere nel circuito penale e rinviare al giudice del dibattimento minori che ne potrebbero uscire agevolmente».
La disposizione denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è tenuta a proteggere l’infanzia e la gioventù, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo». Come più volte affermato dalla Corte costituzionale, il processo minorile è finalizzato non solo all’accertamento del fatto di reato contestato, ma anche e soprattutto al recupero e al reinserimento del minore nel contesto sociale: prospettiva nella quale dovrebbero essere particolarmente valorizzati gli istituti che – quale quello in esame – permettano una rapida definizione del procedimento penale e, con essa, la sollecita uscita da esso dell’imputato. Le medesime esigenze sarebbero espresse anche dalle norme internazionali relative alla tutela dei minori e, in particolare, dall’art. 40 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176.
La norma censurata, facendo sì che la semplice contumacia impedisca di fatto al giudice di emettere una «pronunzia personalizzata» nei confronti del minore, verrebbe a contraddire i ricordati principi.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, rilevando come l’ordinanza di rimessione non prospetti argomenti nuovi o diversi da quelli già disattesi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 195 del 2002 e con l’ordinanza n. 110 del 2004.
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui – alla luce dell’interpretazione costantemente offertane dalla giurisprudenza di legittimità – esclude che, in caso di contumacia dell’imputato, il consenso alla definizione del processo nell’udienza preliminare possa essere validamente prestato dal difensore non munito di procura speciale.
Intesa in questi termini, la disposizione censurata violerebbe anzitutto il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione), determinando una ingiustificata disparità di trattamento tra l’imputato comparso nell’udienza preliminare e l’imputato che abbia scelto di rimanere contumace. A parità di condizioni sostanziali, infatti, solo il primo – potendo manifestare il consenso personalmente – sarebbe ammesso a godere dei benefici previsti dal diritto penale minorile senza dovere attendere il dibattimento, in particolare tramite l’emissione da parte del giudice dell’udienza preliminare di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto o per concessione del perdono giudiziale.
Sarebbe compromessa, inoltre, la piena esplicazione del diritto di difesa dell’imputato (art. 24 Cost.), nel particolare aspetto della garanzia della difesa tecnica, posto che la scelta di definire il processo nell’udienza preliminare si basa su valutazioni che presuppongono cognizioni tecnico-giuridiche proprie del difensore.
La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, ancora, con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), imponendo di demandare al giudice del dibattimento la definizione di processi che potrebbero essere celermente conclusi nell’udienza preliminare; nonché, da ultimo, con l’art. 31, secondo comma, Cost., pregiudicando l’interesse ad una rapida uscita del minore dal procedimento penale, interesse funzionale al suo recupero e reinserimento nel contesto sociale.
2.– La questione non è fondata.
L’art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988, come sostituito dall’art. 22 della legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111 della Costituzione), stabilisce, al primo periodo, che «nell’udienza preliminare, prima dell’inizio della discussione, il giudice chiede all’imputato se consente alla definizione del processo in quella stessa fase, salvo che il consenso sia stato validamente prestato in precedenza». Il secondo periodo soggiunge che, ove il consenso sia prestato, il giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall’art. 425 cod. proc. pen., ovvero per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto.
Subordinando al consenso dell’imputato la definizione del processo nell’udienza preliminare, il legislatore del 2001 ha inteso adeguare il processo minorile alla previsione del novellato art. 111, quinto comma, Cost., in forza della quale – al di là di eccezionali situazioni oggettive, che qui non vengono in rilievo – solo la volontà dell’interessato rende possibili deroghe al generale principio del contraddittorio nella formazione della prova.
Per effetto della sentenza n. 195 del 2002 di questa Corte – che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma, in parte qua, per violazione degli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost. – è possibile prescindere dal consenso dell’imputato nei soli casi in cui debba pronunciarsi una sentenza di non luogo a procedere che non presupponga un accertamento di responsabilità. In tali ipotesi, infatti, la preclusione dell’immediata definizione del processo e la correlata imposizione della fase dibattimentale risultano intrinsecamente irragionevoli e non funzionali all’esercizio del diritto di difesa, non potendo, tra l’altro, l’imputato «comunque ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa».
Questa Corte ha ritenuto, per converso, del tutto legittima, sul piano costituzionale, la previsione del previo consenso dell’imputato ai fini della pronuncia di sentenze che implicano un accertamento di responsabilità, quali segnatamente quelle – estranee al novero dei possibili epiloghi dell’udienza preliminare nel processo ordinario – di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto (ordinanza n. 110 del 2004). Risulta, in effetti, del tutto ragionevole che nel possibile conflitto tra l’interesse ad una sollecita conclusione del processo, richiesta oggi anche dalla Costituzione – interesse di sicura maggiore valenza quando si tratti di imputati minorenni – e il diritto dell’imputato al giusto processo, nel particolare aspetto dell’assunzione delle prove nel contraddittorio dibattimentale, debba prevalere quest’ultimo, non potendo essere imposta all’imputato una decisione che presupponga una affermazione di responsabilità senza il suo consenso all’utilizzazione degli atti assunti unilateralmente dal pubblico ministero, consenso che ha il preciso significato di rinuncia all’istruzione dibattimentale.
3.– Con l’odierna ordinanza di rimessione, il giudice a quo non pone nuovamente in discussione (come sembrerebbe supporre l’Avvocatura dello Stato nelle sue difese) la legittimità costituzionale del requisito del consenso, già scrutinata con le pronunce dianzi citate: censura, invece – con particolare riguardo all’ipotesi di contumacia dell’imputato – la disciplina delle relative modalità di prestazione, quale risultante alla stregua di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, assunto, in sostanza, quale «diritto vivente».
La Corte di cassazione ha rilevato, in effetti, come la definizione del processo minorile nell’udienza preliminare, secondo lo schema delineato dall’art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988, così come emendato dalla sentenza n. 195 del 2002 di questa Corte, risulti strutturalmente omologa ai procedimenti speciali cosiddetti «a prova contratta» previsti nel rito ordinario (giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta delle parti), nei quali l’utilizzazione anche “in malam partem” di elementi probatori acquisiti al di fuori del contraddittorio è resa possibile dall’adesione dell’imputato. Proprio in considerazione di ciò, la scelta di accedere alla definizione anticipata del processo minorile andrebbe configurata – in conformità alla (e in applicazione analogica della) disciplina generale dell’accesso ai riti alternativi (artt. 438, comma 3, e 446, comma 3, cod. proc. pen.) – come personalissima e conseguentemente riservata all’interessato, che potrebbe esprimerla solo direttamente o a mezzo di procuratore speciale. Il difensore privo di procura speciale non sarebbe, di conseguenza, abilitato a prestare il consenso, neanche in caso di contumacia del proprio assistito, che impedisca al giudice di interpellarlo direttamente.
4.– Ciò puntualizzato, deve escludersi che, nella lettura ora indicata, la norma censurata contrasti con i parametri costituzionali evocati dal giudice a quo, onde la questione proposta è infondata.
Quanto alla denunciata disparità di trattamento tra imputato presente e imputato contumace (in asserita violazione dell’art. 3 Cost.), vale osservare che l’impossibilità per il secondo di ottenere già nell’udienza preliminare la concessione del perdono giudiziale o la dichiarazione di irrilevanza del fatto consegue ad una sua duplice, volontaria scelta: quella di non presenziare a detta udienza e quella di non conferire al difensore una procura speciale che lo abiliti a prestare il consenso in sua assenza. D’altro canto, se è vero che la decisione dell’imputato di non presenziare al processo a suo carico costituisce espressione di una libera opzione difensiva (libertà peraltro temperata, nel processo minorile, dalla previsione dell’art. 31, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988), è altrettanto vero, tuttavia, che detta decisione implica l’accettazione delle eventuali conseguenze sfavorevoli, derivanti dall’impossibilità di compimento di atti processuali che presuppongono la presenza del giudicabile (sentenza n. 384 del 2006).
Sulla base di tali considerazioni, questa Corte ha ritenuto che non sia lesiva degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. la definitiva perdita del diritto di accesso ai riti alternativi in cui incorre l’imputato rimasto contumace nell’udienza preliminare del processo ordinario e che non abbia conferito procura speciale al difensore, anche nel caso in cui si sia proceduto in detta udienza alla modifica dell’imputazione (sentenza n. 384 del 2006).
A maggior ragione la conclusione si impone nell’ipotesi oggi in esame, nella quale l’imputato, a seguito della duplice volontaria scelta di cui si è detto, non incorre affatto nella perdita definitiva della possibilità di ottenere la concessione del perdono giudiziale e la dichiarazione di improcedibilità per irrilevanza del fatto: l’una e l’altra potendo comunque aver luogo (quanto alla seconda, per effetto della sentenza n. 149 del 2003 di questa Corte) all’esito del dibattimento. Per questo verso, la scelta dell’imputato di non comparire all’udienza preliminare e di non conferire la procura speciale al difensore equivale, agli effetti pratici, a quella di negare il consenso alla definizione anticipata, la quale si limita, al pari della prima, a precludere l’adozione delle pronunce in questione nella fase in corso.
5.– Alla luce delle considerazioni che precedono, non è ravvisabile, altresì, alcun profilo di contrasto della norma censurata, come letta dal «diritto vivente», con il diritto di difesa dell’imputato (art. 24 Cost.).
L’esigenza – postulata dalla giurisprudenza di legittimità – che il consenso sia riconducibile direttamente alla persona dell’interessato, risponde, per quanto si è detto, alla medesima ratio dell’omologo regime stabilito per l’accesso ai riti speciali che implicano la possibile utilizzazione, in danno dell’imputato, di elementi probatori acquisiti fuori del contraddittorio: regime che questa Corte ha ritenuto non lesivo dell’art. 24 Cost., tenuto conto degli effetti particolarmente incisivi della relativa opzione sulla sfera giuridica del soggetto, sia sul terreno sostanziale che su quello processuale (ordinanze n. 57 del 2005 e n. 143 del 1993).
Il “rimedio” al riguardo prospettato dal rimettente – per cui, in pratica, l’imputato potrebbe togliere effetto a posteriori al consenso prestato dal difensore e recuperare il diritto all’assunzione della prova in contraddittorio, proponendo opposizione avverso la sentenza ai sensi dell’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 448 del 1988 – è, d’altro canto, con ogni evidenza, disfunzionale e asistematico.
6.– Parimenti infondate sono le residue censure, riferite agli artt. 111, secondo comma, e 31, secondo comma, Cost.
Vale, a proposito delle modalità di manifestazione del consenso, quanto già osservato con riguardo al requisito del consenso in sé considerato. Non può ritenersi, cioè, irragionevole un assetto normativo che, nel conflitto fra l’esigenza di agevolare la sollecita definizione del processo – esigenza pure particolarmente avvertita nel caso di processo a carico di minorenne – e quella di rimettere direttamente all’imputato la scelta di rinunciare ad una delle garanzie fondamentali del «giusto processo», quale la formazione della prova in contraddittorio, dia la prevalenza alla seconda, segnatamente allorché si tratti di pronunciare sentenze che, sebbene di non luogo a procedere, presuppongono comunque una affermazione di responsabilità.
7.– La questione va dichiarata, pertanto, non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 32, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 31, secondo comma e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta l'11 febbraio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2013