[ELG:SOMMARIO]
SENTENZA N. 50
ANNO 2010
[ELG:COLLEGIO]
SENTENZA N. 50
ANNO 2010
REUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
[ELG:PREMESSA]
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 637, terzo comma, del codice di procedura civile promossi dalla Corte di cassazione, con due ordinanze del 30 gennaio 2009, iscritte ai nn. 155 e 156 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di L. E. e L. F., della A. S. Roma s.p.a. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Carmine Punzi e Roberto Poli per L. E. e L. F., Antonio Briguglio e Francesca Rolla per la A. S. Roma s.p.a. e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
[ELG:FATTO]
Ritenuto in fatto1.— La Corte di cassazione, con due ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 155 e n. 156 del 2009), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 637, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui, stabilendo che gli avvocati possono altresì proporre domanda d’ingiunzione nei confronti dei propri clienti al giudice competente per valore del luogo in cui ha sede il Consiglio dell’ordine degli avvocati, al cui albo sono iscritti al momento di proposizione della domanda stessa, attribuisce esclusivamente a tali professionisti la possibilità di scegliere un foro facoltativo in alternativa a quelli di cui agli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ.
2.— La Corte rimettente premette di essere chiamata a pronunciare in due giudizi d’impugnazione per regolamento necessario di competenza, promossi dagli avvocati E. e F. L. avverso due sentenze emesse dal Tribunale di Milano, depositate il 5 luglio 2007, con le quali il detto Tribunale, in accoglimento delle opposizioni proposte dalla A. S. Roma s.p.a. avverso due decreti ingiuntivi per il pagamento di compensi professionali chiesti dai menzionati avvocati, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio e la nullità dei decreti.
Infatti, secondo il Giudice milanese, competente a conoscere dei ricorsi per decreto ingiuntivo sarebbe stato il Tribunale di Roma, sul rilievo che, per le cause aventi ad oggetto il pagamento degli onorari dei professionisti, il codice prevede il foro del luogo in cui ha sede il Consiglio dell’ordine al quale i professionisti stessi sono iscritti al momento della scadenza della prestazione, e nella specie l’avv. E. L., in quel momento, aveva il domicilio professionale in Roma ed ivi aveva sede la banca presso la quale dovevano affluire i pagamenti dei corrispettivi dovuti per l’attività professionale (ordinanza n. 155 del 2009); e sul rilievo che, nel caso in esame, trovano applicazione le norme regolatrici della competenza per territorio in materia di obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, che devono essere corrisposte nel luogo in cui il creditore ha il domicilio al momento della scadenza, e l’avv. F. L., al momento della richiesta di pagamento della parcella (anno 2000), era residente in Roma ed ivi aveva il domicilio (ordinanza n. 156 del 2009).
2.1.— La Corte rimettente prosegue rilevando che, con unico motivo, l’avv. E. L., denunciando violazione ed omessa applicazione dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., nonché vizi di motivazione, censura la decisione impugnata lamentando che essa, nel dichiarare l’incompetenza territoriale del giudice adito per esser competente il Tribunale di Roma, ha posto a base della decisione una lettura della suddetta norma non corrispondente alla sua formulazione, avendo individuato il foro competente con riferimento al luogo in cui ha sede il Consiglio dell’ordine al quale l’avvocato è iscritto al momento della scadenza della prestazione e così richiamando una nozione non prevista dalla norma stessa. Invece, ad avviso del ricorrente, la disposizione stabilisce, in favore degli avvocati nei rapporti con i propri clienti relativi ai crediti per prestazioni professionali, un foro alternativo e concorrente con quelli di cui agli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., attribuendo rilevanza al luogo nel quale ha sede il Consiglio dell’ordine cui il legale è iscritto quando presenta il ricorso per decreto ingiuntivo. Ciò perché la disposizione ha inteso prevedere che il tribunale competente a decidere sul ricorso per decreto ingiuntivo sia quello presso il quale ha sede il Consiglio dell’ordine che ha formulato il parere di congruità sulla parcella professionale.
Pertanto, nella specie la competenza sarebbe stata del Tribunale di Milano, in quanto il ricorrente era iscritto al Consiglio dell’ordine milanese al momento della proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo; in via subordinata, si sarebbe comunque radicata la competenza del detto Tribunale, anche con riferimento al disposto dell’articolo 1182 codice civile, perché la scadenza dell’obbligazione relativa al compenso dovuto al professionista legale si determina quando essa si concretizza attraverso la liquidazione compiuta con il parere di congruità e in quell’epoca, cioè nel 2005, l’avvocato E. L. era iscritto al Consiglio dell’ordine di Milano.
2.2.— L’avv. F. L., a sua volta, denunciando violazione ed omessa applicazione dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., nonché vizi di motivazione, censura la statuizione del Tribunale adducendo che, nel dichiarare la propria incompetenza per territorio per essere competente il Tribunale di Roma, essa ha fatto esclusivo riferimento all’art. 1182, terzo comma, cod. civ., senza neppure prendere in esame l’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., in base al quale egli ha agito con il ricorso per decreto ingiuntivo. Per il resto, il ricorrente svolge argomenti analoghi a quelli esposti dall’avv. E. L.
3.— La Corte di cassazione aggiunge che la società resistente, in via preliminare, ha eccepito l’inammissibilità dei regolamenti di cui all’art. 42 cod. proc. civ., assumendo che i provvedimenti impugnati non potrebbero qualificarsi come sentenze sulla competenza. Essa ha sostenuto, poi, l’esattezza delle decisioni impugnate, osservando che l’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. dovrebbe essere interpretato alla luce dei criteri di cui all’art. 20 del detto codice, individuando il Consiglio dell’ordine (cui lo stesso art. 637 si riferisce) in quello cui il professionista era iscritto al momento della scadenza dell’obbligazione. D’altra parte, ad avviso della resistente, avuto riguardo alla modifica legislativa operata con la legge 21 dicembre 1999, n. 526 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1999), si imporrebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 637, terzo comma. Infatti, la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale di tale norma, aveva posto in evidenza che, secondo la normativa all’epoca vigente, gli avvocati erano obbligati a fissare la residenza nella circoscrizione del Tribunale dove aveva sede il Consiglio dell’ordine nel cui albo erano iscritti, obbligo venuto meno per effetto della menzionata modifica legislativa.
La Corte di cassazione riferisce che la società resistente, per l’ipotesi in cui l’interpretazione da essa propugnata non fosse condivisa, ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma in esame, per contrasto con gli artt. 3 e 25 Cost., rilevando: 1) la disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti, per l’ingiustificato privilegio attribuito agli avvocati che, per il recupero dei crediti professionali, potrebbero cambiare senza particolari difficoltà il Consiglio dell’ordine di appartenenza, al solo fine d’introdurre il giudizio contro i propri clienti presso un foro ritenuto più favorevole; 2) sarebbe rimessa al mero arbitrio dell’attore la scelta del giudice competente, in violazione del precetto costituzionale relativo al giudice naturale, come appunto nella specie sarebbe avvenuto.
4.— Poste le suddette premesse, la Corte di cassazione ha ritenuto, in primo luogo, che le due istanze di regolamento fossero ammissibili, perché la sentenza con la quale – come nel caso in esame – il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo dichiari la nullità del provvedimento opposto esclusivamente per incompetenza del giudice che lo ha emesso, integra una statuizione sulla competenza e non una pronuncia sul merito, essendo la dichiarazione di nullità non soltanto conseguente, ma anche necessaria rispetto alla declaratoria d’incompetenza.
Essa, poi, ha considerato erronea la tesi del Tribunale, secondo cui, ai sensi dell’art. 637 cod. proc. civ., nelle cause aventi ad oggetto il pagamento degli onorari degli avvocati, la competenza spetterebbe al giudice del luogo in cui ha sede il Consiglio dell’ordine presso il quale i professionisti sono iscritti al momento della scadenza della prestazione. Infatti, detta norma non contiene alcun riferimento a tale scadenza o, in generale, ai criteri indicati dagli artt. 20 cod. proc. civ. e 1182 cod. civ. In base al dato normativo, non soltanto sarebbe ingiustificato non identificare il Consiglio dell’ordine, in relazione al quale si determina il giudice competente, in quello cui il legale è iscritto “attualmente”, cioè con riferimento al momento della proposizione del ricorso, ma sarebbe arbitrario appellarsi a criteri di collegamento non previsti dal legislatore.
Né l’interpretazione formulata dal Tribunale potrebbe trovare conferma nella citata sentenza di questa Corte, perché essa non contiene alcun riferimento alla scadenza dell’obbligazione.
Del resto, l’interpretazione letterale del citato articolo trova conferma nella sua ratio ispiratrice, che è quella di agevolare il professionista, altrimenti costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luoghi diversi da quello in cui ha stabilito l’organizzazione della propria attività professionale.
5.— La Corte rimettente, tuttavia, ritiene che l’interpretazione dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., sopra formulata, ponga dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost.
In primo luogo, essa considera la questione rilevante perché, quando proposero i ricorsi per decreto ingiuntivo, entrambi gli avvocati erano iscritti al Consiglio dell’ordine di Milano, mentre al momento in cui era cessata l’attività difensiva, svolta in favore della società resistente, erano iscritti al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma e in quella città avevano la residenza e il domicilio. Pertanto, ai sensi dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., in base all’interpretazione prima accolta, la competenza per territorio si era radicata presso il Tribunale di Milano, dichiaratosi erroneamente incompetente, sicché le censure mosse con i regolamenti di competenza sarebbero meritevoli di accoglimento.
La Corte di cassazione, inoltre, ritiene che la questione non sia manifestamente infondata.
Richiamato il contenuto della sentenza di questa Corte n. 137 del 1975, la rimettente osserva che, secondo la normativa all’epoca in vigore, l’art. 17 del regio decreto-legge del 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, nel prescrivere i requisiti per l’iscrizione nell’albo professionale, stabiliva al n. 7 che i professionisti dovevano avere la residenza nel capoluogo del circondario nel quale si chiedeva l’iscrizione. Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte costituzionale ritenne giustificata la previsione a favore degli avvocati di un foro speciale per il recupero dei crediti professionali, in deroga ai criteri generali di competenza, anche in considerazione dell’obbligo di fissare la residenza nella località sede del Consiglio dell’ordine presso il quale erano iscritti. Tale considerazione non era stata affatto incidentale o marginale ai fini della decisione, tanto da indurre la Corte a porre in rilievo che proprio nel luogo in cui avevano stabilito la residenza gli avvocati erano portati ad organizzare adeguatamente la propria attività professionale.
Ad avviso della rimettente, la questione ora si pone in termini diversi rispetto a quelli esaminati dalla Corte costituzionale, avuto riguardo alle modifiche normative attuate prima con l’art. 16 della legge n. 526 del 1999, poi con l’art. 18 della legge 3 febbraio 2003, n. 14 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2002). Sulla base della disciplina vigente, infatti, l’iscrizione all’albo è svincolata dalla residenza, nel senso che l’avvocato può iscriversi ad un Consiglio dell’ordine con sede in un luogo in cui abbia fissato il domicilio professionale, pur avendo stabilito altrove la propria residenza. E, benché il domicilio professionale costituisca il centro principale dell’attività professionale, non può non assumere rilievo la circostanza che esso può non coincidere con la residenza, che s’identifica con l’abituale e volontaria dimora nel luogo in cui la persona ha fissato la sede delle relazioni sociali e familiari.
Orbene, la norma de qua era stata formulata sul presupposto che l’avvocato avesse l’obbligo di stabilire la residenza nel luogo in cui aveva sede il Consiglio dell’ordine cui chiedeva di essere iscritto. L’esclusione di tale obbligo, ad avviso della rimettente, induce a ritenere che sia venuta meno la ratio ispiratrice dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. che, avendo la finalità di agevolare il professionista per consentirgli di concentrare le cause nei confronti dei clienti nel luogo in cui aveva l’obbligo di fissare la sede principale dei propri interessi, aveva previsto un foro speciale con riferimento alla sede del Consiglio al quale l’avvocato era iscritto.
In questo quadro, la detta disposizione appare in contrasto con il principio di parità di trattamento e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto attribuisce una posizione privilegiata ad una determinata categoria professionale, rispetto agli altri cittadini e ad altre categorie professionali, in assenza di ragioni oggettive che possano giustificare tale scelta.
Invero, l’ampiezza e l’incidenza della tutela giurisdizionale a favore degli avvocati «avviene con discriminazione in danno dei loro clienti che si vedono convenuti presso un foro diverso da quello previsto in base agli ordinari criteri dettati per la generalità dei consociati». La norma attribuisce esclusivamente a tali professionisti la possibilità di scegliere un foro alternativo a quelli contemplati in via generale dagli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., il che può tradursi in un danno per i clienti stessi. La disposizione, inoltre, realizza una disparità di trattamento nei confronti di altre categorie professionali, in quanto la scelta operata dal legislatore si rivela arbitraria ed irragionevole, perché la disciplina che regola l’accesso e le modalità di svolgimento della professione legale non è tale da giustificare il diverso trattamento riservato ad altre figure professionali, che pure si trovano sottoposte a particolari condizioni e modalità stabilite per l’accesso e lo svolgimento della professione.
6.— Gli avvocati E. e F. L. si sono costituiti con separate memorie, depositate il 23 giugno 2009, sostenendo che la questione sarebbe improponibile e, comunque, non adeguatamente motivata in ordine alla rilevanza.
Premesso che la norma censurata contiene due proposizioni, la prima relativa agli avvocati e la seconda ai notai, in relazione al disposto dell’art. 633, n. 3, cod. proc. civ., che si riferisce però anche «ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata», i due professionisti sostengono che la Corte rimettente avrebbe dovuto accertare se in via interpretativa, in base alla lettura coordinata degli artt. 633, n. 3, e 637, terzo comma, seconda parte, cod. proc. civ., la particolare facoltà prevista da tale norma non debba essere riconosciuta anche agli altri esercenti professioni o arti (con tariffa legale), per la loro riconosciuta equiparazione ai notai ai sensi del precedente art. 633, n. 3, accertamento non compiuto dal giudice a quo ad onta del suo carattere essenziale.
In ogni caso, la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto riguardare non la prima, ma la seconda proposizione dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., cioè quella relativa ai notai e si sarebbe dovuta porre in relazione alla detta norma «in quanto non prevede il riconoscimento della stessa facoltà agli altri esercenti arti o professioni con tariffa legale» rispetto ai notai, ai quali essi sono sostanzialmente equiparati dal precedente art. 633, n. 3.
Ferma la detta eccezione, i deducenti sostengono che la questione di legittimità costituzionale qui sollevata è già stata esaminata da questa Corte con la citata sentenza n. 137 del 1975, che l’ha dichiarata non fondata sulla base di una valutazione sostanziale della posizione dei professionisti avvocati e delle relative peculiarità. Il richiamo alla circostanza che in quell’epoca la sede del legale dovesse coincidere con la residenza anagrafica ha avuto carattere soltanto incidentale, sicché è da escludere che il venir meno di quel requisito possa oggi condurre ad una decisione di segno opposto.
Invero, la ratio della norma, individuata dalle stesse ordinanze di rimessione, è quella di agevolare il professionista, che sarebbe altrimenti costretto a seguire le cause relative ai propri crediti professionali in luoghi diversi da quello in cui ha stabilito l’organizzazione della propria attività. Orbene, all’epoca della precedente sentenza ed anche attualmente, il domicilio professionale, in relazione al quale si determina l’Ordine d’iscrizione, rappresenta il centro principale dell’attività professionale, onde a tale elemento si deve fare riferimento per individuare l’Ordine di appartenenza. In tal senso il richiamo contenuto nella sentenza n. 137 del 1975 al requisito della residenza assume carattere incidentale, mentre di particolare rilievo è il dato costituito dal riconoscimento, da parte del Consiglio dell’ordine, dell’esistenza del domicilio professionale, sulla cui base l’iscrizione viene effettuata, con il conseguente controllo deontologico che si esercita in sede di approvazione della parcella.
I deducenti osservano ancora che, nella parte conclusiva della propria ordinanza, la Corte di cassazione solleva la questione soltanto con riferimento alla disparità di trattamento per gli altri professionisti rispetto agli avvocati. Nel testo dell’ordinanza, peraltro, si rinvengono anche considerazioni nel senso che «l’ampiezza e l’incidenza della tutela giurisdizionale posta a favore degli avvocati avviene con discriminazione in danno dei loro clienti che si vedono convenuti presso un foro diverso da quello previsto in base agli ordinari criteri dettati per la generalità dei consociati». Tale prospettazione, a parte la sua inammissibilità in quanto non effettivamente sollevata in sede di dispositivo dell’ordinanza, sarebbe del tutto infondata in relazione a quanto già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 137 del 1975, la quale escluse che la facoltà attribuita agli avvocati dalla norma censurata potesse essere qualificata come un ingiustificato privilegio, definendola invece come una razionale agevolazione per una categoria di lavoratori autonomi.
7.— Anche la A. S. Roma s.p.a., in persona del Presidente, si è costituita con distinte memorie depositate il 1°giugno 2009, chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., in riferimento all’art. 3 Cost.
La società, richiamando a sua volta la sentenza già citata, si riporta agli argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione, che condivide. Rileva, poi, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della norma censurata, in relazione al combinato disposto degli artt. 25 e 3 Cost.
Infatti, venuto meno, per gli avvocati, l’obbligo di avere la residenza nella circoscrizione del Tribunale nel cui albo sono iscritti, al professionista sarebbe data la possibilità di determinare arbitrariamente il foro competente (quello dell’ordine al quale egli è iscritto al momento della proposizione del ricorso per ingiunzione) mediante il semplice trasferimento del proprio domicilio professionale e, dunque, del Consiglio dell’ordine di appartenenza. Tale trasferimento sarebbe ben più agevole che non quello della residenza e, come emergerebbe anche dai fatti dei giudizi principali, effettuabile perfino nell’imminenza dell’istanza monitoria e perciò ad essa direttamente preordinabile.
Sotto questo profilo, una delle possibili letture costituzionalmente orientate della norma censurata sarebbe quella proposta dalla società nei procedimenti per regolamento di competenza, consistente nel collegare l’individuazione del foro competente per il decreto ingiuntivo con il luogo dove ha sede il Consiglio dell’ordine presso cui l’avvocato è iscritto al tempo in cui è stata resa la prestazione da cui scaturisce il credito azionato.
8.— Nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con l’ordinanza n. 156 del 2009, ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
Dopo avere rilevato che la Corte di cassazione ha sollevato la questione con esclusivo riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., la difesa erariale osserva che la norma censurata prevede, in deroga ai criteri generali stabiliti in materia di competenza per territorio dagli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., un foro concorrente e facoltativo, a favore della categoria degli avvocati che azionano il procedimento monitorio per il recupero dei crediti professionali nei confronti dei propri clienti.
Richiamati gli argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione, l’Avvocatura generale dello Stato reputa la questione manifestamente infondata.
Al riguardo, prende le mosse dalla sentenza di questa Corte n. 137 del 1975, riportandone i contenuti che hanno escluso ogni violazione del principio di uguaglianza. Rileva che la Corte rimettente ha ritenuto che la questione si ponga ora in termini del tutto diversi, attribuendo rilievo decisivo ed assorbente alla intervenuta modifica in tema di obbligo di residenza dell’avvocato nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata, obbligo venuto meno per effetto della modifica di cui alla legge n. 526 del 1999.
Ad avviso della difesa erariale, una lettura attenta della sentenza n. 137 del 1975 mette in evidenza il carattere residuale della argomentazione fondata sull’obbligo di residenza, sicché, prescindendo dalla sussistenza o meno di un obbligo di fissare la residenza nella circoscrizione del Tribunale, nel cui albo gli avvocati sono iscritti, per escludere una situazione di disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori autonomi assume rilievo la particolare disciplina che regola l’accesso, le modalità di svolgimento della prestazione e la relativa remunerazione.
Inoltre, l’interpretazione della normativa professionale in tema di obbligo di residenza e iscrizione all’Ordine, addotta dalla Corte di cassazione a sostegno della questione di legittimità costituzionale, non sarebbe corretta. Invero, elemento rilevante per l’individuazione dell’Ordine di appartenenza sarebbe il concetto di domicilio professionale, in relazione al quale si determina l’Ordine d’iscrizione, costituente il centro principale dell’attività professionale (art. 43 cod. civ. e parere del Consiglio nazionale forense del 27 ottobre 2000, richiamati nelle stesse ordinanze di rimessione).
Pertanto, la differenza tra la disciplina previgente e quella attuale «non è nel senso che l’Ordine professionale di appartenenza dovesse essere quello di residenza anagrafica, ma al contrario nel senso che, una volta determinato l’Ordine di appartenenza sulla base del criterio del domicilio professionale, ai fini dell’iscrizione (in passato) il professionista doveva nel suo ambito trasferire la residenza anagrafica al fine di rendere possibile la relativa iscrizione».
Così ricostruito il vero significato del precedente obbligo di residenza, sarebbe a maggior ragione irrilevante l’avvenuta modifica, con riferimento alla norma denunciata rispetto al parametro della ragionevolezza.
9.— In prossimità dell’udienza di discussione le parti private hanno depositato memorie, nelle quali sono ripresi e sviluppati gli argomenti da ciascuno addotti.
[ELG:DIRITTO]
Considerato in diritto
1.— La Corte di cassazione, con le due ordinanze di analogo tenore indicate in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 637, terzo comma, codice di procedura civile, «nella parte in cui, stabilendo che gli avvocati possono altresì proporre domanda di ingiunzione nei confronti dei propri clienti al giudice competente per valore del luogo in cui ha sede il consiglio dell’ordine degli avvocati al cui albo sono iscritti al momento della proposizione della domanda di ingiunzione, attribuisce esclusivamente agli avvocati la possibilità di scegliere un foro facoltativo in alternativa a quelli di cui agli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ.».
La Corte rimettente premette di essere chiamata a pronunciare in due giudizi per regolamento necessario di competenza, promossi da due avvocati avverso sentenze emesse dal Tribunale di Milano che, decidendo due cause di opposizione proposte da una società sportiva contro altrettanti decreti ingiuntivi, ottenuti dai legali per il pagamento di compensi relativi a prestazioni professionali da loro svolte nell’interesse della società stessa, aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio e la conseguente nullità dei decreti, ritenendo che la competenza spettasse al Tribunale di Roma.
Secondo il Giudice milanese, competente a conoscere dei ricorsi per decreto ingiuntivo sarebbe stato il detto Tribunale di Roma, sul rilievo che, per le cause aventi ad oggetto il pagamento degli onorari dei professionisti, il codice prevede il foro del luogo in cui ha sede il Consiglio dell’ordine al quale i professionisti stessi sono iscritti al momento della scadenza della prestazione e, nella specie, uno degli avvocati, in quel momento, aveva il domicilio professionale in Roma ed ivi aveva sede la banca presso la quale dovevano affluire i pagamenti dei corrispettivi dovuti (ordinanza n. 155 del 2009); e sul rilievo che, nel caso in esame, trovano applicazione le norme regolatrici della competenza per territorio, in materia di obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro che devono essere corrisposte nel luogo in cui il creditore ha il domicilio al momento della scadenza, e l’altro avvocato, al momento della richiesta di pagamento della parcella (anno 2000), era residente in Roma ed ivi aveva il domicilio (ordinanza n. 156 del 2009).
La rimettente prosegue osservando che entrambi i professionisti hanno impugnato le dette sentenze con istanze di regolamento di competenza, denunziando violazione ed omessa applicazione dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. Essa, dopo aver ritenuto ammissibili le istanze di regolamento (per le ragioni di cui in narrativa), ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della citata norma, sollevata dalla società resistente.
2.— I due giudizi di legittimità costituzionale hanno ad oggetto la medesima questione, relativa all’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., con riferimento allo stesso parametro e sulla base di argomentazioni nella sostanza identiche. Pertanto, essi vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
3.— La società sportiva ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale anche in relazione all’art. 25 Cost.
Al riguardo, si deve rilevare che, per giurisprudenza costante di questa Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle norme ed ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze. Sono inammissibili, dunque, e non possono essere prese in esame in questa sede, le deduzioni della società sportiva dirette ad estendere il thema decidendum attraverso il richiamo dell’ulteriore parametro costituito dall’art. 25 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 236 e 56 del 2009 e n. 86 del 2008; ordinanze n. 174 del 2003 e n. 379 del 2001).
4.— I due avvocati, costituiti con separate memorie, hanno eccepito che la questione, «nei termini in cui è prospettata», sarebbe improponibile e, comunque, non adeguatamente motivata in ordine alla rilevanza ai fini del giudizio a quo.
Infatti, premesso che l’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. consta di due parti, la prima concernente gli avvocati, in relazione alla previsione dell’art. 633, n. 2, di detto codice e la seconda concernente i notai, in riferimento alla previsione dell’art. 633, n. 3 (quest’ultima relativa, peraltro, non soltanto ai notai ma anche ad «altri esercenti una libera professione o arte per la quale esiste una tariffa legalmente approvata»), essi sostengono: a) che la Corte di cassazione, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, avrebbe dovuto individuare il «diritto vivente nella specie rilevante» e, quindi, accertare se in via interpretativa, in base alla lettura coordinata della normativa ora citata, la facoltà di cui all’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. non dovesse essere riconosciuta anche agli altri esercenti professioni o arti (con tariffa legale), in base alla loro equiparazione ai notai ai sensi del precedente art. 633, n. 3; b) qualora tale valutazione si fosse conclusa per l’applicabilità dell’art. 637, terzo comma, soltanto ai notai, la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto riguardare non l’art. 637, terzo comma, prima parte (relativo agli avvocati), bensì l’art. 637, terzo comma, seconda parte (relativo ai notai), e si sarebbe dovuta porre in relazione a detta norma, nella parte in cui «non prevede il riconoscimento della stessa facoltà agli altri esercenti arti o professioni con tariffa legale rispetto ai notai».
Nella memoria depositata dai due professionisti in vista dell’udienza di discussione, poi, si sostiene che, nel caso in esame, il contrasto riguardava, da un lato, i professionisti medesimi, che intendevano avvalersi della facoltà di scegliere il foro competente ai sensi dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., dall’altro la parte citata in giudizio. In tale contesto, la questione di legittimità costituzionale in esame sarebbe stata prospettata sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto ad altre categorie professionali che non godono dello stesso beneficio. Questa impostazione, tuttavia, sarebbe illogica e contraddittoria, sia perché la questione (in ipotesi) si sarebbe dovuta porre nella parte in cui la norma non concede il detto beneficio anche ad altre categorie professionali, sia perché essa comunque non potrebbe portare ad alcun risultato positivo per la parte che l’ha sollevata.
4.1.— Questi argomenti non possono essere condivisi.
Il riferimento ai notai e alle altre categorie professionali non è pertinente, perché nei giudizi di legittimità costituzionale di cui si tratta non vengono in rilievo le posizioni degli uni o delle altre, bensì quelle degli avvocati, in relazione ai quali, dunque, l’indagine sulla rilevanza della questione deve essere condotta. Tale indagine è stata puntualmente svolta dalla rimettente che, dopo avere esposto le ragioni che la inducevano a considerare erronee le sentenze d’incompetenza pronunciate dal Tribunale di Milano, ha posto in luce che, ai sensi dell’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., le censure sollevate con i regolamenti di competenza sarebbero state fondate. La Corte di cassazione, quindi, deve fare applicazione della norma censurata, sicché il dubbio sulla sua legittimità costituzionale è, nella fattispecie, rilevante.
Ne deriva che la questione è ammissibile.
5. – Essa, tuttavia, non è fondata.
L’art. 637, terzo comma, cod. proc. civ. dispone che «Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d’ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono».
La norma individua un criterio di competenza territoriale, facoltativa e concorrente con quelli di cui al primo e al secondo comma del medesimo articolo.
Essa fu già sottoposta all’esame di questa Corte che, con sentenza n. 137 del 1975, dichiarò non fondata la relativa questione di legittimità costituzionale, all’epoca sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
La citata sentenza, per quanto qui rileva, osservò: a) che la norma censurata riguardava i rapporti professionali tra gli avvocati ed i propri clienti, e non gli altri cittadini estranei a tali rapporti, i quali non erano avvantaggiati o danneggiati dalla norma medesima; b) che il dettato normativo acquistava pratico rilievo qualora il giudice individuato in base ad esso non fosse quello del luogo di residenza o domicilio dell’intimato, o quello del luogo in cui era sorta o doveva eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio, ai sensi degli artt. 18 e 20 del codice di rito, ovvero «l’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce» (art. 637, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo ora vigente), sicché l’ambito di applicazione della norma era ben contenuto e limitato; c) che gli avvocati, in vista e per il fatto dell’esercizio della professione, erano in una posizione avente aspetti di peculiarità idonei a differenziarli da quella di tutti gli altri prestatori d’opera intellettuale, in ordine al pagamento dei compensi loro dovuti (sentenza n. 132 del 1974); d) che i professionisti legali dovevano avere la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo erano iscritti e, per far fronte ad un’esigenza crescente, erano portati ad organizzare in modo adeguato la loro attività di lavoro autonomo; e) che la qualità di avvocato era il riflesso di una disciplina cui si riferivano interessi pubblici o collettivi e nella quale concorrevano coerenti mezzi e modi di tutela, sicché essa non si prestava ad un esame analitico ma andava verificata, in sede di controllo della sua conformità a Costituzione, nel suo complesso; f) che, pertanto, non si poteva prescindere dall’ampiezza e portata della tutela giurisdizionale prevista per i suddetti professionisti, i quali, per realizzare le loro pretese patrimoniali nei confronti dei clienti, potevano adire il magistrato dando vita ad un ordinario processo di cognizione, o chiedendo l’emissione di un decreto ingiuntivo, o giovandosi della speciale procedura di cui all’art. 28 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocati e di procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile), e successive modificazioni, norma della quale è stata riconosciuta la legittimità costituzionale (sentenza n. 22 del 1973); g) che, pertanto, l’attribuzione agli avvocati del potere di scegliere la competenza per territorio, in tema di procedimento per ingiunzione, appariva sufficientemente giustificata.
Le ordinanze di rimessione prendono le mosse dalla pronunzia ora riassunta e rilevano che, secondo la normativa all’epoca in vigore (art. 17, primo comma, n. 7, regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, recante «Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore», convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36), gli avvocati dovevano «avere la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l’iscrizione è domandata». Ad avviso della rimettente, questa Corte ritenne giustificata la previsione, a favore degli avvocati, di un foro speciale per il recupero dei crediti professionali, in deroga a criteri generali di competenza, anche considerando l’obbligo di fissare la residenza nella sede del consiglio dell’ordine presso il quale erano iscritti. Tale considerazione avrebbe avuto un ruolo non marginale nella citata sentenza, in quanto in essa si pose in evidenza che «nel luogo in cui avevano stabilito la residenza gli avvocati sono portati ad organizzare adeguatamente la propria attività professionale».
La questione di legittimità costituzionale della norma, però, si porrebbe ora in termini diversi, avuto riguardo all’intervento del legislatore che ha modificato la disciplina. Infatti, con l’art. 16 della legge 21 dicembre 1999, n. 526 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1999), si è stabilito che «Per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, ai fini dell’iscrizione o del mantenimento dell’iscrizione in albi, elenchi o registri, il domicilio professionale è equiparato alla residenza»; poi, con l’art. 18, comma 2, della legge 3 febbraio 2003, n. 14 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2002), si è disposto che «All’art. 17, primo comma, n. 7, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni, dopo la parola “residenza” sono inserite le seguenti: “o il proprio domicilio professionale”».
Pertanto – la rimettente prosegue – in base alla disciplina vigente l’iscrizione all’albo è svincolata dalla residenza. E, anche se il domicilio professionale costituisce il centro principale della relativa attività, assume rilievo la circostanza che esso (a prescindere dalla difficoltà di verificare il luogo in cui il legale, che può aprire studi in più sedi, svolga in prevalenza la professione) può non coincidere con la residenza, cioè con l’abituale e volontaria dimora nel luogo in cui la persona ha fissato la sede delle relazioni sociali e familiari e che, inoltre, è rivelato da elementi obiettivi facilmente accertabili.
Tale circostanza, secondo la Corte di cassazione, induce a ritenere che sia venuta meno la ratio ispiratrice della disposizione censurata, da identificare nella finalità di agevolare il professionista, il quale, in assenza di detta norma, sarebbe costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luoghi diversi da quello in cui ha stabilito l’organizzazione della propria attività.
Pertanto, la norma de qua sarebbe in contrasto con i principii di parità di trattamento e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto attribuirebbe una posizione privilegiata ad una determinata categoria professionale rispetto agli altri cittadini e ad altre categorie professionali, non sussistendo ormai ragioni oggettive idonee a giustificare tale scelta, che si risolverebbe anche in un danno per i clienti, convenuti presso un foro diverso da quello previsto in base agli ordinari criteri dettati per la generalità dei consociati.
Le argomentazioni ora riassunte non possono essere condivise.
Come risulta dall’esposizione che precede, la Corte rimettente individua esattamente la ratio della norma censurata, ravvisandola nella finalità di agevolare l’avvocato, per consentirgli di concentrare le cause, nei confronti dei clienti, nel luogo in cui ha stabilito l’organizzazione della propria attività professionale, cioè la sede principale dei propri affari ed interessi.
Al riguardo, si deve rilevare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore dispone di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, e quindi anche nella determinazione dei criteri attributivi della competenza, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 221 del 2008; n. 237 del 2007 e n. 341 del 2006; ordinanze n. 134 del 2009 e n. 318 del 2008). Nel caso in esame, la suddetta finalità è senza dubbio idonea a giustificare il fondamento della norma e perciò esclude che essa violi il principio di ragionevolezza.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla rimettente, non è esatto che la ratio della disposizione sia venuta meno per effetto della modifica introdotta dalla normativa dianzi citata, e, segnatamente, dall’art. 18, comma 2, della legge n. 14 del 2003. Quella modifica, disposta in esecuzione della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 7 marzo 2002 (in causa C-145/99), si è limitata ad inserire nell’art. 17, primo comma, n. 7, della legge professionale degli avvocati, dopo la parola “residenza” l’espressione “o il proprio domicilio professionale”, rendendo così alternativo per l’iscrizione nell’albo, tra gli altri, il requisito soggettivo della residenza o del domicilio professionale.
Il detto intervento legislativo si è reso necessario perché la menzionata sentenza della Corte di giustizia ha ritenuto in contrasto con l’art. 43 del Trattato CE del 25 marzo 1957 (Trattato istitutivo della Comunità Economica – testo vigente) l’obbligo imposto agli avvocati di risiedere nella circoscrizione del tribunale da cui dipende l’albo al quale essi sono iscritti. Non si vede, però, in qual modo tale intervento possa avere inciso, fino ad escluderla, sulla ratio sottesa alla norma censurata, né le ordinanze di rimessione lo spiegano con chiarezza.
Invero, il domicilio professionale – che non di rado coincide con la residenza – s’identifica con la sede principale degli affari ed interessi del professionista (art. 43, primo comma, codice civile), cioè con il luogo in cui egli esercita in modo stabile e continuativo la propria attività. Si tratta, quindi, di un concetto verificabile sulla base di dati oggettivi (frequenza e continuità delle prestazioni erogate, numero dei clienti, giro di affari), suscettibili dei dovuti controlli ad opera del Consiglio dell’ordine competente. Anzi, proprio con riferimento a tale concetto ben si giustifica lo scopo «di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l’organizzazione della propria attività professionale» (così le ordinanze di rimessione).
Neppure sotto il profilo della disparità di trattamento la questione può dirsi fondata.
Infatti, per quanto riguarda il riferimento «agli altri cittadini» (peraltro evocati in modo del tutto generico), il richiamo non è pertinente, perché la previsione normativa concerne i rapporti professionali tra gli avvocati ed i clienti, sicché gli altri cittadini non ne sono destinatari.
In relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma, si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975.
Infine, quanto al rapporto tra l’avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore.
[ELG:DISPOSITIVO]
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 637, terzo comma, codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2010.
[ELG:FIRME]
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 febbraio 2010.
[ELG:ALLEGATO]