SENTENZA N. 311
ANNO 2009
Commenti alla
decisione di
I. Antonio Ruggeri, Conferme
e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU, per gentile
concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
II. Renzo Dickmann, La
legge d’interpretazione autentica viola il diritto al giusto processo di cui
all’art. 6 della CEDU?, per gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
Francesco AMIRANTE Presidente:
Ugo DE SIERVO Giudice
Paolo MADDALENA "
Alfio FINOCCHIARO "
Alfonso QUARANTA "
Franco GALLO "
Gaetano SILVESTRI "
Sabino CASSESE "
Maria Rita SAULLE "
Giuseppe TESAURO "
Paolo Maria NAPOLITANO "
Giuseppe FRIGO "
Alessandro CRISCUOLO "
Paolo GROSSI
"
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
- Legge finanziaria 2006), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del
4 settembre 2008 e dalla Corte d’appello di Ancona con n. 5 ordinanze del 26
settembre 2008, rispettivamente iscritte ai numeri 400 del registro ordinanze
2008, 15, 16, 17, 18 e 19 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 52, prima serie speciale, dell’anno
2008 e 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione
di N. P. nonchè gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
del 3 novembre 2009 e nella camera di consiglio del 4 novembre 2009 il Giudice
relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Isacco Sullam, Nicola Zampieri e Arturo Salerni
per N. P. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. –
2. –
Il Tribunale, con la
sentenza di cui è chiesta la cassazione, aveva accertato «l’invalidità e la
conseguente inefficacia» della disposizione contenuta nell’art. 3, comma 1,
dell’accordo tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (d’ora in poi ARAN) ed i rappresentanti delle organizzazioni e
confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, recepito nel decreto ministeriale
5 aprile 2001, per contrasto con quanto stabilito dal combinato disposto dei
commi 2 e 3 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.
2.1. – A giudizio della
Corte rimettente tale norma possiede i requisiti essenziali delle norme
interpretative, in quanto procede a riscrivere una regola destinata ad operare
in termini generali per le controversie in corso e per quelle future. Il citato
comma 218 avrebbe l’espresso intento di precisare e chiarire la portata della
norma interpretata, limitandosi ad intervenire, con effetti retroattivi,
soltanto su quei suoi profili applicativi che avevano originato un contenzioso.
Il contenuto normativo della disposizione corrisponderebbe ad uno dei possibili
significati ascrivibili alla disposizione interpretata, in quanto il
legislatore avrebbe optato per una lettura restrittiva del sintagma «anzianità
giuridica ed economica» di cui al comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del
1999.
Ciò posto, in punto di
rilevanza il giudice rimettente sottolinea la necessità di dover dare
applicazione, nel giudizio a quo, allo ius superveniens,
mediante accoglimento del ricorso, con la conseguenza di dover, peraltro,
operare un revirement rispetto alle conclusioni cui
era pervenuta, in ordine al senso da attribuire alla disposizione del comma 2
dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999.
Ancora, a giudizio della
Corte i dubbi di legittimità costituzionale della norma interpretativa,
peraltro sollecitati dalla controricorrente, in relazione alla violazione
dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la protezione dei diritti
dell’uomo, investono la norma di legge della quale dovrebbe farsi applicazione
per la decisione del ricorso.
Non sarebbe, invece,
configurabile una questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato
CE, per stabilire se la fattispecie a giudizio sia riconducibile o meno alla
direttiva 77/187/CEE (modificata dalla direttiva 98/50/CE), in quanto la
vicenda del trasferimento, previsto dalla legge n. 124 del 1999, sarebbe
estranea al campo di applicazione delle direttive comunitarie in materia di
trasferimento d’azienda.
2.2. – La ritenuta rilevanza
della questione nel giudizio a quo conduce la rimettente a sottoporre il dubbio
di legittimità costituzionale allo scrutinio di non manifesta infondatezza.
Tanto premesso,
Ad avviso della rimettente,
occorre verificare se la disposizione in esame violi l’obbligo dello Stato
italiano di rispettare l’art. 6, comma 1, CEDU, così come interpretato dalla
Corte di Strasburgo, che fornisce concretezza e contenuto al parametro
costituzionale invocato del rispetto degli obblighi internazionali.
Il giudice di legittimità
sottolinea come in precedenza la sentenza n. 677 del 2008 aveva negato che
l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005 violasse l’obbligo imposto
dall’art. 6, comma 1, della Convenzione, dal momento che non sarebbe sussistito
alcun elemento che inducesse a ritenere la disposizione nazionale come
esclusivamente diretta ad influire sulle controversie in corso. Piuttosto,
risultava che il legislatore aveva provveduto ad un complessivo riassetto
organizzativo, nell’ambito del quale dovevano ritenersi sussistenti «pressanti
ragioni di interesse generale» che rendevano quindi legittimo l’intervento retroattivo.
Diversamente,
A giudizio della Corte
rimettente, proprio tali condizioni ricorrerebbero nel caso in esame, in quanto
il notevole contenzioso in atto, inerente alla norma di interpretazione autentica,
in relazione alla quale più volte la medesima Corte ha già avuto modo di
pronunciarsi, unitamente al rilevante numero di ricorsi pendenti aventi ad
oggetto proprio l’interpretazione di detta normativa, indurrebbero
ragionevolmente a ritenere che la definizione di tale contenzioso «nel senso,
favorevole allo Stato amministrazione, imposto dalla norma interpretativa,
rientrasse certo tra le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione
di quest’ultima norma».
Non solo, ma l’esigenza di
«governare una operazione di riassetto organizzativo» non potrebbe comunque
integrare le «imperiose ragioni d’interesse generale», richieste dalla
giurisprudenza di Strasburgo come condizione per superare il divieto
d’ingerenza. Del resto, nel procedimento legislativo non vi sarebbe traccia
alcuna di siffatta esigenza o di altre ragioni "imperiose o meno”, come sarebbe
dimostrato dal fatto che tale comma, non presente nell’originario disegno di
legge governativo, risulta inserito dalla relatrice nella seduta della V
Commissione e votato nei successivi passaggi, caratterizzati dal voto "di
fiducia”.
Tale conclusione non
potrebbe essere esclusa neppure dalla considerazione che il legislatore sarebbe
comunque libero di emanare norme interpretative che incidano, in materia
civile, su diritti attribuiti dalle leggi in vigore, poiché nel caso in esame
non si tratterebbe di ciò, quanto piuttosto dell’intervento, a mezzo di leggi
retroattive, sui giudizi pendenti dei quali è parte lo Stato-amministrazione.
Infatti, il senso della giurisprudenza della Corte europea è che «la parità
delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo
non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire
sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di
controversie», scopo questo desunto «dall’incidenza oggettiva che la norma
denunciata ha sull’esito di controversie pendenti e dalla qualità di parte
dello Stato-amministrazione in tali controversie».
Del resto, a giudizio della
rimettente, il fatto che la retroattività sia coessenziale alle norme
d’interpretazione autentica non sarebbe di ostacolo al rispetto del vincolo in
questione, in quanto tale vincolo esigerebbe soltanto che «il legislatore
escluda dall’ambito di applicazione della norma interpretativa o, più in
generale, della norma dichiarata retroattiva i processi in corso alla data di
entrata in vigore della norma, secondo uno schema che il legislatore nazionale
ben conosce ed ha più volte praticato».
A nulla varrebbe la
possibile obiezione secondo cui una simile tecnica legislativa provocherebbe un
proliferare d’iniziative giudiziarie volto a rendere immodificabile una
situazione di vantaggio, in quanto ciò sembrerebbe postulare «uno
Stato-legislatore che, in rapporti di cui sia parte come Stato-amministrazione,
accordi una situazione di vantaggio per non adempiere l’obbligazione che su di
esso Stato-amministrazione ne deriva, riservandosi poi d’intervenire con legge
interpretativa».
Da ultimo,
3. – Con atto depositato il
30 dicembre 2008, si è costituita in giudizio la parte privata, N. P.,
chiedendo che la norma sia dichiarata incostituzionale. A suo giudizio,
infatti, la disposizione in esame deve ritenersi costituzionalmente illegittima
in quanto incompatibile con le disposizioni della CEDU, norme interposte atte
ad integrare il parametro costituzionale, così come interpretate dalla Corte
europea, e dunque in contrasto con gli artt. 10, 117 e 111 Cost.
La norma sarebbe illegittima
per violazione dei principi della "parità delle armi”, di certezza del diritto
e di indipendenza del giudice, desunti dall’interpretazione fornita dalla Corte
di Strasburgo al diritto all’equo processo, contenuto nell’art. 6 della CEDU.
La parte privata, inoltre,
precisa come in contrario non possa richiamarsi la circostanza che il principio
del maturato economico fosse già contenuto nell’accordo del 20 luglio 2001, poichè tale atto sarebbe «intervenuto nell’ambito del
quadro normativo tracciato dall’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428
(Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria per il 1990), commi da
Qualunque legge
interpretativa che interferisca sulle iniziative giudiziarie promosse nei
confronti dello Stato sarebbe, dunque, lesiva dell’autonomia della funzione
giurisdizionale e del ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, poiché,
anche qualora sussistano situazioni di incertezza nell’applicazione del diritto
o siano insorti contrasti giurisprudenziali, esclusivamente a tale Corte
competerebbe risolvere tali contrasti.
Ancora, si aggiunge, il
rapporto tra la normativa interna e quella della Convenzione europea, come
interpretata dalla giurisprudenza della Corte, è regolato dal principio di
sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, desumibile dagli
articoli 1 e 13, nonché dagli artt. 19, 34 e 35 della medesima Convenzione, che
affidano alla giurisdizione del giudice interno il compito di primo tutore dei
diritti dell’uomo, con conseguente obbligo di disapplicare la disciplina
interna non conforme.
Nel caso di specie la legge
finanziaria per il 2006 avrebbe certamente violato l’art. 6 della Convenzione
europea, atteso che non solo la norma sarebbe contenuta in una legge
normalmente deputata «a far cassa», ma sarebbe stata anche inserita con un
«super-emendamento» governativo ed approvata ricorrendo al voto di fiducia.
Tale soluzione
interpretativa, inoltre, in quanto intervenuta dopo quasi sei anni dall’entrata
in vigore della norma interpretata, avrebbe inciso sul "diritto vivente”
formatosi in relazione al computo dell’anzianità maturata nel comparto enti
locali.
A giudizio della parte, non
varrebbe in contrario richiamare la sentenza della
Corte costituzionale n. 234 del 2007 poiché in tale decisione si darebbe
comunque atto che «la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del
1999, rappresentava una deroga al principio generale vigente all’epoca della
sua entrata in vigore, rispetto alla quale la norma ora censurata si presenta
come ripristino della regola generale».
La parte privata, inoltre,
sottolinea come non ci si trovi affatto in presenza di un’esigenza di governare
una operazione di riassetto organizzativo di ampia portata, non solo perché il
passaggio del personale risale al 1° gennaio 2000, ma anche perché nel caso di
specie non vi sarebbe stata alcuna "riorganizzazione”, poiché i bidelli passati
nei ruoli ministeriali già lavoravano nelle scuole statali e hanno continuato a
svolgere le medesime mansioni.
Si afferma, poi, che anche
il presunto danno finanziario quantificato dall’Avvocatura dello Stato in
alcuni milioni di euro, non potrebbe integrare gli «impérieux
motifs d’intérét général», in quanto
Quanto alla violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., si riconosce che
Dal confronto tra i due
regimi contrattuali risulterebbe, inoltre, evidente che il Ministero, per
effetto dell’inserimento nei propri ruoli del personale ATA prima dipendente
dagli enti locali, avrebbe beneficiato di ingenti risparmi nel monte stipendi
complessivo, derivanti dalla mancata erogazione di tutti quei compensi
individuali accessori previsti dai soli contratti collettivi del comparto enti
locali e coperti solo in parte dal maggiore salario tabellare.
Da ultimo, la parte privata
assume che la questione comporta profili di valutazione costituzionale e di
conformità del nostro ordinamento con quello comunitario, in quanto i diritti
garantiti dall’art. 6 della Convenzione europea sarebbero stati "comunitarizzati” dall’art. 6, paragrafo 2, del Trattato
sull’Unione Europea (al quale fa rinvio il successivo art. 46 del Trattato
stesso), nonché dal Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con la legge 2
agosto 2008, n. 130, recante il recepimento della CEDU, quale norma
fondamentale di diritto comunitario.
Del resto, la stessa Corte
di giustizia avrebbe statuito che il diritto ad un equo processo, come si
desume, in particolare, dall’art. 6 della CEDU, costituisce un diritto
fondamentale che l’Unione europea rispetta in quanto principio generale in
forza dell’art. 6, paragrafo 2, TUE. Sicché, la mancata declaratoria della
incostituzionalità della norma in esame si concretizzerebbe in una violazione
dell’art. 6 del Trattato e dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.
4. – Il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 5 gennaio 2009 ed ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.
La difesa erariale,
richiamando la sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella
causa Scordino
c. Italia n. 36813/1997, ritiene che l’interpretazione di tale decisione
sostenuta nell’ordinanza di rimessione sia forzata e ricorda che
Sulla base di tali
indicazioni la difesa erariale puntualizza che, nel caso in esame, non può
ritenersi violato il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione
della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria della
controversia desumibile dalla sentenza cosiddetta Scordino, poiché «scopo
dell’intervento legislativo non era affatto, in via primaria, […] quello di
influenzare l’esito di una controversia, bensì quello […] di regolamentare una
volta per tutte, esprimendo quale fosse l’originario ed autentico intento del
legislatore, una complessa vicenda di passaggio di personale dagli enti locali
allo Stato». Tale scopo è stato perseguito – ad avviso dell’Avvocatura generale
dello Stato – mediante una legge interpretativa, con cui si è puntualizzato
quale fosse il reale significato da attribuire all’art. 8, comma 2, della legge
n. 124 del
5. – In prossimità
dell’udienza pubblica sia la parte privata che l’Avvocatura dello Stato hanno
depositato memorie, rispettivamente in data 12 ottobre 2009 e 13 ottobre 2009,
confermando le conclusioni già formulate, e ribadendo le argomentazioni svolte
a sostegno delle proprie ragioni.
6. – Analoghe questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005
sono state sollevate, con cinque distinte ordinanze (reg. ord. nn. 15, 16, 17, 18 e 19 del 2009), di identico contenuto,
adottate il 26 settembre 2008 dalla Corte d’appello di Ancona, per la
trattazione delle quali
Il giudice rimettente
premette, in fatto, che il Tribunale di Ascoli Piceno aveva respinto la domanda
di alcuni dipendenti di un ente locale, transitati nei ruoli dell’amministrazione
dello Stato ex art. 8 della legge n. 124 del 1999, di riconoscimento del
diritto alla attribuzione della anzianità prestata presso l’ente locale di
provenienza, ai fini della progressione economica e stipendiale nel comparto
scuola, e di corresponsione delle relative differenze economiche. Avverso tale
sentenza i dipendenti proponevano appello dinanzi all’odierno rimettente,
censurando l’interpretazione data dal giudice di primo grado alla norma
predetta nonché agli accordi sindacali ed ai decreti ministeriali
successivamente intervenuti in materia ed insistendo per l’accoglimento della
domanda. L’amministrazione appellata invocava l’applicazione dell’art. 1, comma
218, della legge n. 266 del 2005, di interpretazione autentica dell’art. 8
della legge n. 124 del 1999, e richiamava la pronunzia della Corte
costituzionale n.
234 del 2007 che aveva respinto l’eccezione di illegittimità costituzionale
della citata norma, mentre le parti appellanti prospettavano questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005,
sotto il profilo del contrasto con l’art. 6 della CEDU.
Il rimettente,
pronunciandosi sulla prospettata questione ed argomentatane la rilevanza,
osserva che il dubbio di contrasto della norma denunciata con
Il rimettente ricorda che
l’art. 6, comma 1, della CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino
c. Italia n. 36813/1997, nel prescrivere il diritto al giusto processo, se
da un lato non assicura nel processo civile l’immutabilità della norma da
applicare per tutti i procedimenti in corso, obbliga dall’altro lo Stato a non
esercitare un’ingerenza normativa finalizzata ad ottenere una determinata
soluzione delle controversie in corso, salvo che l’intervento retroattivo sia
giustificato da «motivi imperiosi di carattere generale».
7. – Anche in questi
giudizi, con atto depositato il 23 febbraio 2009, è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa erariale,
ricordando che analoga questione è stata sollevata dalla Corte di cassazione,
fa integrale richiamo alle argomentazioni svolte nell’atto di intervento già
spiegato in quella sede, atte a confutare la fondatezza della questione di
legittimità costituzionale anche nel caso in esame. Aggiunge, inoltre, che la
medesima norma di legge è stata già oggetto di controllo di costituzionalità
per diverse, ma connesse motivazioni (sentenza n. 234 del
2007 ed ordinanza
n. 400 del 2007) e che la stessa Corte di cassazione, con la sentenza n.
677 del
Considerato
in diritto
1. – Vengono all’esame della
Corte più ordinanze di rimessione – la prima trattata all’udienza pubblica del
3 novembre 2009 e le altre nella camera di consiglio del successivo 4 novembre
– con le quali
1.1. – In virtù
dell’identità delle questioni sollevate va disposta la riunione dei giudizi, ai
fini di un’unica pronuncia.
2. – La norma censurata
interpreta l’art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni
urgenti in materia di personale scolastico), che, nel disciplinare il
trasferimento di dipendenti di enti locali nei ruoli statali del personale
amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) del settore scuola, ne prevedeva
l’inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali
corrispondenti, consentendo l’opzione per l’ente di appartenenza, qualora le
qualifiche e i profili non avessero trovato corrispondenza. La norma aveva
stabilito – questo è il punto controverso – che a detto personale è
riconosciuta «ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente
locale di provenienza». Successivamente, un accordo tra l’ARAN (Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e le organizzazioni
sindacali, recepito da uno dei decreti ministeriali di attuazione della legge
n. 124 del 1999 (decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto
con i Ministri dell’interno, del bilancio e della funzione pubblica del 5
aprile 2001), ai fini del primo inquadramento, aveva considerato il principio
del maturato economico in luogo di quello della complessiva anzianità
conseguita. Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso e la stessa Corte di
cassazione aveva in più occasioni negato che il diritto al riconoscimento
dell’anzianità «ai fini giuridici ed economici» attribuito dalla legge n. 124
del 1999 potesse essere ridotto a quello del maturato economico da una
disciplina di rango inferiore.
È su questo specifico quadro
normativo e giurisprudenziale che ha inteso intervenire il legislatore con la
norma interpretativa qui censurata. Tale disposizione, infatti, allo scopo di
ribadire con legge ordinaria quanto già prefigurato dal decreto ministeriale
sulla base della posizione espressa dalle organizzazioni sindacali, stabilisce:
«il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta
nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale
amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche
funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla
base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del
trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o
immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999
costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché
da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi
nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data
dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione
stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre
1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam
e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della
successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati
formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».
3. –
Tale norma internazionale,
che sancisce il principio del diritto ad un giusto processo dinanzi ad un
tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al legislatore di uno Stato
contraente, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di
Strasburgo, di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo
d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di
controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione
interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento,
salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».
Ad avviso dei rimettenti, il
legislatore nazionale avrebbe emanato una norma interpretativa in presenza di
un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione
sfavorevole allo Stato, in tal modo violando il principio di «parità delle
armi», non essendo l’invocata esigenza di «governare una operazione di
riassetto organizzativo» del settore interessato dell’amministrazione pubblica
sufficiente ad integrare quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che
permetterebbero di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.
4. – Le questioni vanno
esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, non
potendo essere prese in considerazione, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, le censure svolte solo dalle parti del giudizio principale (per tutte,
sentenze n. 310
e n. 234 del
2006, n. 349
del 2007).
Sono pertanto inammissibili
le questioni sollevate dalla parte privata costituitasi nel giudizio di cui
all’ordinanza n. 400 del 2008, con riferimento agli artt. 10 e 111 Cost.,
parametri non invocati dai giudici rimettenti.
5. – Nel merito la questione
non è fondata.
6. – Il contenuto delle
censure impone, in linea preliminare, di ricordare quale sia, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, il rango e l’efficacia delle norme della CEDU
ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di
Strasburgo, nell’interpretazione ed applicazione della Convenzione europea.
Siffatta questione è stata
affrontata e decisa, di recente, dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007,
le quali hanno rilevato che l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare
l’espressione "obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle
norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella
previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo
comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a
livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali
pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma
convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art.
117, primo comma, Cost.
Questa Corte ha, inoltre,
precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice
comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme,
nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa
competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.
Nel caso in cui si profili
un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il
giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della
prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo
delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di
ermeneutica giuridica. Beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea
consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la
sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice
comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte
eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone
c. Italia, ric. n. 22644/03).
Solo quando ritiene che non
sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune,
il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU (allo stato,
a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di
quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna
che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con
Sollevata la questione di
legittimità costituzionale, spetta a questa Corte il compito anzitutto di
verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile
attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma
interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di
Strasburgo.
In caso di contrasto, dovrà
essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma
della CEDU.
Questa Corte ha anche
affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare
l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo,
cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma
alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della
CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto
con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale
ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma
internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art.
117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua
legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione,
della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
7. – Posta questa premessa,
occorre individuare la natura, la portata e gli obiettivi perseguiti dalla
norma censurata, tenendo conto che la disciplina del trasferimento del
personale ATA di cui alla legge n. 124 del 1999 e la norma che ha interpretato
la disposizione qui rilevante hanno già formato oggetto di scrutinio da parte
di questa Corte, sia pure in relazione a parametri costituzionali diversi
dall’art. 117, primo comma, Cost., qui invocato. La sentenza n. 234 del
2007 e le ordinanze n. 400 del 2007
e n. 212 del
2008 hanno, rispettivamente, dichiarato non fondate e manifestamente
infondate le questioni di costituzionalità della predetta norma interpretativa
sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113
Cost.
Per quanto qui interessa, la
disciplina dettata dall’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, è stata
ricondotta all’esigenza di armonizzare, con una normativa transitoria di primo
inquadramento, «il passaggio del personale in questione da un sistema
retributivo disciplinato a regime ad un altro sistema retributivo ugualmente
disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per quanto attiene al profilo
economico, i livelli retributivi maturati e attribuendo agli interessati, a
partire dal nuovo inquadramento, i diritti riconosciuti al personale ATA
statale. Tutto ciò allo scopo di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il sistema
retributivo di tutti i dipendenti ATA, al di là delle rispettive provenienze e,
comunque, salvaguardando il diritto di opzione per l’ente di appartenenza nel
caso di mancata corrispondenza di qualifiche e profili» (sentenza n. 234 del
2007).
In tale contesto, secondo
questa Corte, l’inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale ATA,
in ragione del solo cosiddetto maturato economico, costituiva una delle
possibili e plausibili varianti di lettura della norma, avallata, tra l’altro,
in sede di accordo siglato tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni (ARAN) e i rappresentanti delle organizzazioni e
confederazioni dei dipendenti. Ciò, in particolare, considerando che tale
principio era stato introdotto, con valenza generale, già dalla legge 11 luglio
1980, n. 312, recante «Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale
civile e militare dello Stato».
Le pronunce sopra richiamate
hanno escluso la sussistenza di un legittimo affidamento con riferimento al
trattamento retributivo derivante dalla valutazione, ai fini giuridici ed
economici, dell’intera anzianità maturata presso gli enti di provenienza, in
considerazione sia del tipo di interpretazione adottata in sede di
contrattazione collettiva, pressoché contestualmente all’entrata in vigore
della citata legge, sia del richiamo, espresso, al principio dell’invarianza
della spesa in sede di primo inquadramento del personale proveniente dagli enti
locali.
Questa Corte ha dunque
negato, come anche in precedenti più remoti (sentenze n. 618 del 1987
e n. 296 del
1984), che si potesse postulare l’illegittimità di qualsiasi
regolamentazione transitoria che non si limitasse «alla conservazione del
trattamento precedente "ad esaurimento” o alla pura e semplice applicazione
illimitatamente retroattiva del trattamento nuovo: soluzioni, certo, possibili,
ma non imposte dal precetto costituzionale in argomento».
Infine, la sentenza n. 234 del
2007 ha anche escluso che la disposizione interpretativa censurata desse
luogo ad una disparità di trattamento fra coloro che, all’entrata in vigore
della norma, avessero già ottenuto un giudicato favorevole rispetto alla
disciplina applicabile e coloro che fossero soltanto in attesa della formazione
del giudicato sulla loro pretesa.
8. – Occorre ora verificare
in che modo
I rimettenti ricordano, fra
l’altro, la decisione relativa al caso Scanner
de L’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno
del 2007. In tale occasione
Tale orientamento, che trova
i suoi precedenti nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999,
censura la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino
retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di
legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni
giudiziarie ancora pendenti all’epoca della modifica.
Questa prassi può essere
suscettibile di comportare una violazione dell’art. 6 della CEDU, risolvendosi
in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della
giustizia. Nel caso Zielinski e altri c. Francia, in particolare (come
prima nel caso Papageorgiou c. Grecia, sentenza del 22 ottobre 1997),
si è riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del
legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse
generale».
Ciò posto, occorre rilevare
che
La legittimità di simili
interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché ricorrevano ragioni
storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio
2003).
In questo caso,
In altri casi, nel definire
e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale,
Si tratta, in primo luogo,
della sentenza
23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial
Building Society, Leeds Permanent Building Society e
Yorkshire Building Society c. Regno Unito (utilizzata mutatis
mutandis anche nella citata pronuncia Forrer-Niederthal c. Germania), nella quale è stato
ritenuto che l’adozione di una disposizione interpretativa può essere
considerata giustificata allorché lo Stato, nella logica di interesse generale
di garantire il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio
che l’intenzione originaria del legislatore fosse, in quel caso, sovvertita da
disposizioni fissate in circolari.
Nello stesso solco si pone
la sentenza
del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas,
Ogec St. Pie X e Blanche De
Castille e altri c. Francia, in cui le
circostanze del caso di specie non erano identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. La pronuncia ha affermato che
l’intervento del legislatore non aveva inteso sostenere la posizione assunta
dall’amministrazione dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico
di diritto, al fine di garantire la conformità all’intenzione originaria del
legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione.
Il caso viene, quindi,
assimilato a quello National & Provincial Building Society del 1997, dove
l’intervento del legislatore era giustificato dall’obiettivo finale di
«riaffermare l’intento originale del Parlamento».
9. – In considerazione dei
principi enunciati dalla Corte europea, nonché della ricostruzione della
portata e degli obiettivi della norma qui censurata, già operata da questa
Corte con la citata sentenza n. 234 del
2007, il contrasto denunciato dalla Corte di cassazione e dagli altri
giudici rimettenti non sussiste.
Deve infatti escludersi
l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme
retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto
con
Va dunque ribadito che la
legge n. 124 del
In primo luogo, emerge nella
norma censurata l’esigenza di "ristabilire” una delle possibili direzioni
dell’originaria intenzione del legislatore. Tale direzione aveva determinato
l’interpretazione ad essa conforme delle parti sociali, negli accordi stipulati
per il primo inquadramento (al contrario di quanto accaduto nel caso
Zielinski), poi recepita dalle norme di
attuazione fin da tale fase, sia pure nella forma del decreto ministeriale poi
ritenuta inadeguata da una parte della giurisprudenza.
In secondo luogo, può
ricordarsi come l’intervento del legislatore non abbia vanificato del tutto i
diritti sorti ed acquisiti sulla base della legge interpretata, restando
intatti quelli al trattamento migliore conseguito dopo l’inquadramento nel
nuovo ruolo, mediante la conservazione di un assegno personale.
Inoltre, risulta evidente
soprattutto la conformità di tale interpretazione con la finalità di garantire
una generale perequazione di tutti i lavoratori del comparto scuola, come
peraltro già ritenuto da questa Corte nella più volte ricordata sentenza n. 234 del
2007, nel senso di garantire che a tutti i dipendenti di quel ruolo sia
attribuita una medesima progressione retributiva, al di là delle rispettive
provenienze.
Pertanto, assume rilievo la sussistenza di una "imperfezione” tecnica, nel contesto normativo originario, consistente nel ritenere comunque delegabile all’autonomia delle parti e ad una disciplina regolamentare la fissazione di un criterio rispettoso del principio dell’invarianza di spesa, in aderenza all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), delega poi ritenuta insussistente dalla giurisprudenza di legittimità.
Non solo, ma, a conforto della ritenuta sussistenza di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, il "diritto vivente” nel 2005 non poteva ritenersi formato sul punto, giacché la questione vedeva fronteggiarsi alcune pronunce di legittimità, assunte a sezioni semplici, che avevano ricostruito il fenomeno nel senso della necessità di atti di inquadramento rispettosi dei principi dettati dall’art. 2112 del codice civile, con altre pronunce che risolvevano la questione sul piano dell’efficacia normativa o meno dell’accordo del 20 luglio 2000, recepito nel successivo, già citato, decreto ministeriale del 5 aprile 2001.
Da ultimo, ed in piena coerenza con la
giurisprudenza europea prima ricordata (Forrer-Niederthal
c. Germania), risulta determinante il fatto che il procedimento relativo
alla vicenda del trasferimento dei dipendenti ATA abbia avuto la garanzia di un
processo equo, anche attraverso l’incidente di costituzionalità conclusosi con
una dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto a parametri
costituzionali coerenti con la norma convenzionale, pienamente compatibile,
così interpretata, con il quadro costituzionale italiano.
In definitiva, in aderenza con la ricostruzione normativa già operata da questa Corte in altre occasioni, risulta con chiarezza la compatibilità della norma interpretativa censurata con la giurisprudenza qui rilevante della Corte di Strasburgo, in particolare relativa ai casi Forrer-Niederthal c. Germania, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia e National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito.
Nell’intervento retroattivo
in questione è dato, infatti, riscontrare gli elementi valorizzati dalla Corte
europea per ritenere ammissibili le disposizioni interpretative, tenendo conto
che i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza di quest’ultima
costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare
sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela
del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche, che
questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata.
Peraltro, fare salvi i
«motivi imperativi d’interesse generale» che suggeriscono al legislatore
nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano non può
non lasciare ai singoli Stati contraenti quanto meno una parte del compito e
dell’onere di identificarli, in quanto nella posizione migliore per assolverlo,
trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del
potere legislativo. Le decisioni in questo campo implicano, infatti, una
valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici,
amministrativi e sociali che
10.– In conclusione, il denunciato contrasto fra la norma impugnata e l’art. 6 della CEDU, quindi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non sussiste.
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23
dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006), sollevate, in riferimento
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed all’art. 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione e
dalla Corte di appello di Ancona con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 novembre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2009.