Ordinanza n. 70 del 2006

 CONSULTA ONLINE 

 

ORDINANZA N. 70

ANNO 2006

 

Commento alla decisione di

 

Irene Pellizzone e Vincenzo Sciarabba

 

 

La (ripetuta) riforma del falso in bilancio e il problema dei "confini" del favor rei

 

(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Annibale                    MARINI         Presidente

- Franco                      BILE                  Giudice

- Giovanni Maria          FLICK                        "

- Francesco                 AMIRANTE               "

- Ugo                          DE SIERVO               "

- Romano                    VACCARELLA          "

- Paolo                        MADDALENA           "

- Alfio                          FINOCCHIARO        "

- Alfonso                     QUARANTA              "

- Franco                      GALLO                      "

- Luigi                          MAZZELLA               "

- Gaetano                    SILVESTRI                "

- Sabino                      CASSESE                   "

- Maria Rita                 SAULLE                     "

- Giuseppe                   TESAURO                  "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come modificati dal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promossi con ordinanze del 21 gennaio 2003, del 20 novembre 2002 e del 6 marzo 2003 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo e del 19 gennaio 2005 dalla Corte d'appello di Napoli, rispettivamente iscritte ai numeri 162, 232, 335 del registro ordinanze 2003, e 331 del registro ordinanze 2005, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 14, 18, 24, prima serie speciale, dell'anno 2003, e 27, prima serie speciale, dell'anno 2005.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che con le tre ordinanze, di analogo tenore, indicate in epigrafe, emesse nell'ambito di distinti processi penali nei confronti di persone imputate del reato di false comunicazioni sociali, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha sollevato, in riferimento agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione ed alla direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come sostituiti dall'art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), «nella parte in cui non consentono l'effettività, a mezzo di idoneo meccanismo processuale, della adeguata sanzione penale prevista dalla direttiva medesima e nella parte in cui non prevedono adeguato mezzo processuale in grado di consentire la celebrazione del processo penale entro i termini di prescrizione dei reati previsti dalle stesse norme»;

    che, ad avviso del rimettente, la nuova disciplina del reato di false comunicazioni sociali, introdotta dalla legge (recte: dal decreto legislativo) n. 61 del 2002, si porrebbe in contrasto con la direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968 (intesa a coordinare, rendendole equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell'art. 58, secondo comma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi): direttiva che, priva di efficacia normativa diretta, sarebbe tuttavia fonte di obblighi inderogabili per il legislatore nazionale in virtù degli artt. 10, 11 e 117 Cost.;

    che le norme impugnate violerebbero, in particolare, l'art. 6 della direttiva, che impone agli Stati membri di prevedere «adeguate sanzioni» per i casi di «mancata pubblicità del bilancio e del conto dei profitti e perdite, come prescritta dall'art. 2, paragrafo 1, lettera f», e di «mancanza nei documenti commerciali delle indicazioni obbligatorie di cui all'art. 4» della direttiva medesima;

    che infatti, da un lato, a fronte della ratio della direttiva – di tutela dei soci e dei terzi che hanno come unica garanzia il patrimonio sociale – alla condotta di omessa pubblicazione dovrebbe essere senz'altro equiparata quella di falsificazione dei documenti considerati e, amplius, delle comunicazioni sociali, la quale implica una lesione degli interessi protetti uguale e «forse più insidiosa» della prima;

    che, dall'altro lato, alla luce dei principi affermati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, l'adeguatezza delle sanzioni postula l'effettività, la proporzionalità e la capacità dissuasiva della sanzione comminata;

    che, in tale ottica, l'obbligo posto dalla direttiva dovrebbe considerarsi «eluso in radice» dalla normativa nazionale, stante l'estrema difficoltà di pervenire, in base ad essa, non solo e non tanto all'applicazione di una sanzione penale adeguata, quanto piuttosto, e prima ancora, di una sanzione qualsiasi;

    che i termini di prescrizione dei reati di cui ai nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ. (tre anni, prolungabili sino a quattro anni e mezzo in caso di atti interruttivi, per il primo reato, di natura contravvenzionale; cinque anni, prolungabili sino a sette e mezzo, per il secondo, di natura delittuosa) sarebbero, infatti, così ristretti che – a meno di configurare un «meccanismo processuale» che «in alcuni casi» li sospenda – le falsità in comunicazioni sociali sarebbero destinate a rimanere impunite; e ciò non per una «patologia» del sistema processuale, ma per la oggettiva complessità – testimoniata anche dalle cadenze dei procedimenti a quibus – degli accertamenti e delle valutazioni tecnico-contabili che la fattispecie criminosa ordinariamente richiede: complessità la quale impedirebbe, nella generalità dei casi, tenuto conto anche delle garanzie previste dal sistema stesso (comprensive di tre gradi di giurisdizione), di definire il processo con sentenza passata in giudicato prima dell'estinzione del reato;

    che la possibilità di esaurire la verifica processuale prima dello spirare dei termini prescrizionali rimarrebbe circoscritta, in concreto, ai fatti di minore gravità o di più agevole verifica probatoria: determinandosi, così, anche una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla sostanziale impunità dei fatti più gravi, per i quali sono di regola necessarie – come nella specie – indagini particolarmente complesse;

    che nei giudizi di costituzionalità relativi alle ordinanze n. 162 e n. 335 r.o. del 2003 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata;

    che, con successiva memoria, la difesa erariale ha peraltro segnalato come alcune autorità giudiziarie italiane avessero posto alla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell'art. 234 del trattato CEE, quesiti analoghi a quello formulato dal giudice rimettente, rappresentando la conseguente opportunità di attendere la pronuncia della Corte comunitaria;

    che, in accoglimento della richiesta formulata dall'Avvocatura generale dello Stato all'udienza pubblica del 9 marzo 2004, questa Corte, con ordinanza n. 165 del 2004, riuniti i giudizi di costituzionalità, ne ha quindi disposto il rinvio a nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte di giustizia sulle cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02, vertenti su quesito sostanzialmente coincidente con quello oggetto dei giudizi stessi;

    che la Corte di giustizia si è pronunciata su dette cause con sentenza del 3 maggio 2005;

    che con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, ulteriore questione di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., come sostituiti dal d.lgs. n. 61 del 2002;

    che la Corte rimettente riferisce di essere investita, in grado di appello, del processo penale nei confronti di persona imputata di falso in bilancio continuato in relazione agli anni 1993-1997;

    che nel corso del giudizio di primo grado era sopravvenuto il d.lgs. n. 61 del 2002, che ha scisso la fattispecie criminosa di cui all'originario art. 2621 cod.civ. – già punita con la reclusione da uno a cinque anni (oltre la multa) – nelle due distinte ipotesi delineate dalle norme impugnate, prevedendo per quella di cui al nuovo art. 2621 cod. civ. l'arresto fino ad un anno e sei mesi, nonché «soglie obiettive di sussistenza del fatto di reato»; e stabilendo, altresì, per quella di cui al nuovo art. 2622 cod. civ. – punita con la reclusione da sei mesi a tre anni – la perseguibilità a querela;

    che, non avendo il pubblico ministero proceduto a contestazione, neanche suppletiva, degli elementi di fatto che permettessero di ritenere superate le neointrodotte soglie di punibilità, il Tribunale di Napoli aveva quindi assolto l'imputato «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato»;

    che nell'ambito del susseguente giudizio di appello, attivato dal pubblico ministero, il Procuratore generale aveva peraltro eccepito l'incostituzionalità delle disposizioni del d.lgs. n. 61 del 2002, «nella parte in cui introducono una più mite disciplina sanzionatoria del falso in bilancio»;

    che, ad avviso del giudice a quo, la questione di costituzionalità sarebbe rilevante, in quanto, nel caso in cui questa Corte la dichiarasse fondata, «annullando le norme denunciate», il pubblico ministero verrebbe sollevato ex tunc dall'«obbligo di contestazione» delle soglie di punibilità, con ogni conseguente effetto sulla sorte del gravame da esso proposto, ed inoltre verrebbero a modificarsi i termini di prescrizione del reato;

    che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva come, per effetto del d.lgs. n. 61 del 2002, la tutela dell'interesse alla «trasparenza delle attività societarie» risulti «enormemente e sconvenientemente assottigliata», a fronte sia della rilevante compressione della risposta sanzionatoria e, conseguentemente, dei termini di prescrizione; sia della descrizione dei fatti incriminati e della sottrazione degli stessi alla «incondizionata perseguibilità»;

    che il nuovo assetto risulterebbe pertanto lesivo degli artt. 10, 11 e 117 Cost., in quanto contrastante con l'art. 6 della direttiva n. 68/151/CEE, che impone agli Stati membri di prevedere adeguate sanzioni per i casi di «mancata pubblicità del bilancio e del conto dei profitti e perdite», come prescritta dall'art. 2, paragrafo 1, lettera f), della medesima direttiva;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

    Considerato che, avendo ad oggetto un quesito di costituzionalità in larga misura analogo, il giudizio relativo all'ordinanza di rimessione della Corte d'appello di Napoli va riunito, in vista della definizione con unica decisione, a quelli relativi alle ordinanze di rimessione del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo, già riuniti a loro volta con la citata ordinanza n. 165 del 2004;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, è intervenuta la legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 301 del 28 dicembre 2005, il cui art. 30 ha sostituito le norme impugnate, modificando l'assetto delle figure criminose in esame in rapporto a plurimi profili investiti dalle censure di costituzionalità (risposta sanzionatoria, impunità dei fatti che restino al di sotto delle «soglie» di rilevanza penale e, indirettamente, prescrizione);

    che il nuovo testo degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., quale risultante a seguito della citata legge – oltre ad includere fra i soggetti attivi del reato anche i «dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari» (nuova figura soggettiva introdotta dall'art. 14, comma 1, lettera n, della stessa legge n. 262 del 2005) – prevede, infatti, rispetto al testo immediatamente precedente, oggetto dell'impugnativa, una pena più elevata nel massimo per la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 2621 cod. civ. (arresto fino a due anni); una pena specifica e più severa (reclusione da due a sei anni) per i fatti delittuosi commessi nell'ambito di società quotate che abbiano cagionato «un grave nocumento ai risparmiatori» (art. 2622, quarto e quinto comma, cod. civ.); nonché l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, unitamente a misure di tipo interdittivo, nei confronti degli amministratori e degli altri soggetti qualificati autori di falsità non punibili come reato, perché non produttive di una alterazione «sensibile» della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, ovvero perché rimaste comunque al di sotto delle «soglie» di rilevanza penale del fatto a carattere percentuale (artt. 2621, ultimo comma, e 2622, ultimo comma, cod. civ.);

    che tale ultima previsione – nella misura in cui valesse a rendere applicabile alle falsità ora indicate la disciplina generale della prescrizione stabilita in rapporto alle violazioni amministrative dall'art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la quale, oltre a contemplare un termine quinquennale, rinvia alle norme del codice civile in tema di interruzione, in forza delle quali la prescrizione non corre nel corso del giudizio (art. 2945, secondo comma, cod. civ.) – verrebbe altresì ad incidere sullo specifico tema sul quale si incentrano le ordinanze di rimessione del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo: ordinanze nelle quali, peraltro, non si precisa se, nel caso concreto, le soglie di rilevanza penale del fatto risultino o meno superate, limitandosi il giudice rimettente a rilevare, in una di esse (ordinanza n. 232 del 2003), l'esigenza di un accertamento sul punto;

    che, avuto riguardo anche al particolare parametro evocato, che postula una valutazione di «adeguatezza» di risposte sanzionatorie non predefinite, compete quindi ai giudici rimettenti verificare se – anche alla luce dei principi in tema di successione delle leggi penali (discutendosi, nei giudizi principali, di fatti commessi sotto il vigore dell'originaria disciplina di cui all'art. 2621, numero 1, cod. civ. e, dunque, in epoca anteriore ad entrambi gli interventi novativi succedutisi nel tempo) – le questioni sollevate restino o meno rilevanti alla luce del ius superveniens;

    che, a tal fine, si impone pertanto la restituzione degli atti ai giudici a quibus.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti ai giudici rimettenti.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio

Annibale MARINI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 febbraio 2006.