SENTENZA N. 233
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Riccardo CHIEPPA, Presidente
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del codice civile, promosso con ordinanza del 20 giugno 2002 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Manetti Luciano ed altri contro Ingretolli Daniela ed altri, iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2003 il Giudice relatore Annibale Marini.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di Roma, con ordinanza dell’11 maggio 2002, depositata il 20 giugno 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ.
In punto di rilevanza, il rimettente espone di doversi pronunciare su domande di risarcimento del danno morale avanzate dagli eredi di persone decedute in un sinistro stradale nei confronti dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro stesso. Aggiunge che nessuna delle parti è riuscita a superare la presunzione di colpa in pari misura concorrente posta a carico di ciascuno dei conducenti dall’art. 2054, secondo comma, cod. civ., cosicché le suddette domande risarcitorie dovrebbero essere respinte, stante la limitazione posta dall’art. 2059 cod. civ., dovendo – per diritto vivente – escludersi la risarcibilità, ex art. 185 cod. pen., del danno morale nel caso in cui la responsabilità dell’autore del fatto illecito, pur astrattamente costituente reato, sia accertata in base ad una presunzione di legge e non in base all’oggettiva ricostruzione del fatto.
La previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge, contenuta nella norma impugnata, sarebbe tuttavia lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., oltre ad essere fonte di inique ed ingiustificate disparità di trattamento, tali da violare il principio di eguaglianza. Sotto altro aspetto, essa avrebbe prodotto – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi – ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, rispetto al tertium comparationis rappresentato dall’art. 2043 cod. civ.
Con riguardo al primo dei profili considerati, il rimettente osserva che la norma impugnata si fonderebbe, in definitiva, sull’assunto secondo cui i diritti della personalità non costituiscono elementi del patrimonio del titolare e la loro lesione non darebbe perciò luogo a risarcimento.
Siffatto assunto non potrebbe tuttavia trovare cittadinanza nell’ordinamento costituzionale, posto che tutti i diritti della personalità, nessuno escluso, ricevono tutela dagli artt. 2 e 3 Cost., come è del resto riconosciuto sia dalla giurisprudenza di legittimità e di merito sia dalla migliore dottrina. Né, d’altro canto, potrebbe sostenersi che la sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da alcun precetto costituzionale e quindi – non costituendo un diritto della personalità – non possa essere risarcita se non nei limiti stabiliti dall’art. 2059 cod. civ.
L’assurdità di una simile tesi, sul piano giuridico, risulterebbe – secondo il rimettente - palese ove si consideri che, secondo l’orientamento prevalente della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, l’art. 2 Cost. sancisce il valore assoluto della persona umana ed è norma a contenuto precettivo e non programmatico, cosicché ogni proiezione della persona nella realtà sociale sarebbe suscettibile di assurgere al rango di diritto soggettivo perfetto, con la conseguente configurabilità di una tutela risarcitoria in caso di lesione.
Non potendo dubitarsi che la famiglia sia una delle formazioni sociali nelle quali l’individuo esplica la propria personalità e che i vincoli famigliari costituiscano proiezione della persona nella realtà sociale, ne discenderebbe che i suddetti vincoli costituiscono, ex art. 2 Cost., oggetto di un diritto soggettivo perfetto. L’art. 2059 cod. civ., impedendone la risarcibilità in caso di lesione, salvo i casi previsti dalla legge, violerebbe perciò tanto l’art. 2 Cost., frustrando un diritto fondamentale, quanto l’art. 3, con riguardo al principio di eguaglianza, differenziando ingiustamente la situazione di chi perde un congiunto in conseguenza di un illecito accertato e quella di chi invece lo perde in conseguenza di un illecito presunto ex art. 2054 cod. civ.
La norma impugnata, d’altro canto, non sarebbe - ad avviso del rimettente – suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata, così da superare il prospettato dubbio di legittimità con riferimento al canone di ragionevolezza.
In particolare, non ritiene il giudice a quo di poter condividere la tesi secondo la quale la lesione di un diritto costituzionalmente protetto sarebbe comunque risarcibile, nonostante il tenore dell’art. 2059, in base al combinato disposto dell’art. 2043 e della norma costituzionale di volta in volta violata.
In primo luogo, tale orientamento si fonda sull’assunto che l’art. 2043 sia una norma in bianco, ma siffatto assunto è stato ormai abbandonato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 500 del 1999, nella quale il danno risarcibile è espressamente definito come la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse leso, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega. In tale ottica la risarcibilità discende dunque dal fatto che l’interesse leso sia rilevante per l’ordinamento, a prescindere dall’esistenza di una garanzia costituzionale, e non vi è dubbio – ad avviso sempre del giudice a quo – che l’interesse alla propria serenità morale sia preso in considerazione, sotto molti aspetti, dall’ordinamento.
Secondariamente, la tesi cosiddetta «del combinato disposto» condurrebbe a svuotare l’art. 2059 cod. civ. di ogni contenuto, atteso che qualsiasi danno morale potrebbe astrattamente ricondursi alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Ma tra una interpretatio abrogans conforme a Costituzione ed una interpretatio utilis con questa contrastante l’interprete – secondo il rimettente - dovrebbe necessariamente scegliere la seconda.
L’orientamento ermeneutico in esame porterebbe, infine, ad una irragionevole duplicazione di risarcimento nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato: in tal caso, infatti, il danneggiato potrebbe agire sia per il risarcimento del danno ingiusto, in base al combinato disposto degli artt. 2 Cost. e 2043 cod. civ., sia per il risarcimento del danno morale in base all’art. 2059 cod. civ.
In via dichiaratamente subordinata, il rimettente solleva poi, in riferimento all’art. 3 Cost., una diversa questione di legittimità costituzionale della stessa norma, nella parte in cui non consente la liquidazione del danno non patrimoniale nei casi in cui la responsabilità dell’offensore venga affermata – come è nel giudizio a quo - in base ad una presunzione di legge.
Il rimettente muove dalla considerazione che siffatta lettura della norma, costituente diritto vivente, nacque in un’epoca storica nella quale, vigendo l’art. 3 cod. proc. pen. del 1930, l’accertamento dell’illecito in sede civile era necessariamente subordinato all’accertamento del reato in sede penale.
L’irrisarcibilità del danno morale in caso di responsabilità presunta, quale conseguenza dell’inesistenza del reato affermata in sede penale, discenderebbe pertanto dalla preminenza logica della giurisdizione penale rispetto a quella civile.
La situazione sarebbe radicalmente mutata a seguito dell’introduzione del nuovo art. 75 cod. proc. pen., per effetto del quale l’azione risarcitoria in sede civile può avere uno svolgimento del tutto autonomo, ed un esito anche contrastante, rispetto all’eventuale azione penale che sia promossa per lo stesso fatto.
La norma impugnata si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto - «in modo irrazionale rispetto al dettato dell’art. 75 cod. proc. pen., considerato quale tertium comparationis» - nonostante la conclamata parità delle giurisdizioni, precluderebbe al danneggiato che agisca in sede civile ai fini del risarcimento del danno morale «di avvalersi di uno dei mezzi di prova più tipici e risalenti del processo civile, cioè la presunzione».
2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di non fondatezza della questione.
Ad avviso della parte pubblica, il senso della norma impugnata sarebbe quello non di negare il riconoscimento dei diritti della personalità tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost., ma di limitare un profilo risarcitorio privo – per la particolare natura di quei diritti - di effettiva idoneità ripristinatoria della perdita subita.
La norma troverebbe in definitiva la propria giustificazione nell’esigenza – pur essa frutto di civiltà giuridica - di evitare che il debitore si trovi assoggettato ad un carico risarcitorio sproporzionato rispetto all’entità del fatto illecito, tanto più che, una volta ammessa la piena risarcibilità del danno morale, sarebbe difficile giustificare la limitazione della tutela risarcitoria – in una fattispecie come quella sottoposta all’esame del giudice a quo - ai soli congiunti e non anche ad altri soggetti legati alle vittime del sinistro da rapporti di diversa natura.
La scelta operata dal legislatore sarebbe dunque frutto di una valutazione non solo ampiamente discrezionale ma altresì riconducibile ad un sistema complessivo, «non suscettibile di riscrittura attraverso una mera pronuncia abrogativa».
Legando la possibilità del risarcimento alla natura penale dell’illecito, l’ordinamento avrebbe inteso, non irragionevolmente, attribuire valore differenziale, tenuto conto della specialità di questo tipo di danni, alla natura della condotta anziché a quella dell’evento.
Considerato in diritto
Il rimettente infatti, in relazione ad una domanda di risarcimento del danno morale derivato agli attori dalla morte di congiunti in uno scontro tra veicoli provocato da fatto illecito altrui, ritiene di non poter accertare concretamente l’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito e di dover quindi ricorrere alla presunzione di pari responsabilità dei conducenti dei veicoli, posta dall’art. 2054, secondo comma, cod. civ. Pertanto il dubbio di costituzionalità da lui sollevato in ordine all’art. 2059 cod. civ., nella parte relativa alla limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge (tra i quali rientra quello del danno derivante da reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen.) in tanto può ritenersi rilevante in quanto si assuma l’esclusione di tale risarcibilità nelle ipotesi in cui il ricordato elemento soggettivo discenda da una presunzione di legge.
Da un lato, infatti, il legislatore ha introdotto ulteriori casi di risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, riguardo ai quali è del tutto inconferente qualsiasi riferimento ad esigenze di carattere repressivo (si pensi, ad esempio, alle azioni di responsabilità previste dall’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, per i danni derivanti da ingiusta privazione della libertà personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie; dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, per i danni derivanti dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del codice civile sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Roma con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata dallo stesso rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Annibale MARINI, Redattore
Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2003.