ORDINANZA N. 191
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 64 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 15 febbraio 2002 dal Tribunale di Monza, nel procedimento penale a carico di S.A., iscritta al n. 373 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 marzo 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che il Tribunale di Monza ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 64 del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento debba dare all’imputato in sede di esame gli avvisi di cui alla disposizione suddetta";
che il rimettente premette, in punto di fatto, che, terminata l’escussione dei testi della accusa nel dibattimento in corso di celebrazione, l’imputato ha acconsentito a sottoporsi all’esame: pertanto – sottolinea il giudice a quo – dovendosi fare riferimento alla disciplina che il codice detta in tema di esame dell’imputato, verrebbe in rilievo l’impossibilità di applicare all’esame stesso le disposizioni dettate dall’art. 64 del medesimo codice in tema di interrogatorio, in particolare per ciò che attiene all’obbligo del giudice di dare, fra l’altro, avviso all’imputato che, se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altre persone, assumerà in ordine a tali fatti l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità di cui all’art. 197 e le garanzie di cui all’art. 197-bis cod. proc. pen.;
che, infatti, dal testo del richiamato art. 64 del codice di rito e dalla elencazione dei casi in cui si rende necessario l’avviso anzidetto (come può dedursi dal richiamo espresso che compare nell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen.), "sembrerebbe evincersi che la disposizione non si possa applicare nel caso di esame dell’imputato che si svolga nel corso del processo a suo carico. Questi infatti, non è persona "sottoposta alle indagini", ed essendo sentita in dibattimento non può dirsi soggetta a "interrogatorio"; infine, non si rientra in nessuno dei casi, pur estensivamente interpretati, di cui all’art. 210 cod. proc. pen.";
che, a colmare questa lacuna – ad avviso del giudice rimettente – non potrebbe neppure soccorrere l’analogia, cui sarebbero di ostacolo non soltanto considerazioni di ordine sistematico, nonché la circostanza che lo status di testimone, attese le peculiarità che lo caratterizzano, "non può essere attribuito se non sul presupposto di una specifica disposizione di legge"; quanto, e soprattutto, il rilievo che la sanzione di inutilizzabilità, conseguente alla omissione dell’avviso di cui innanzi si è detto, ha carattere tassativo, a norma dell’art. 191 cod. proc. pen.: pertanto – conclude il rimettente – "in forza di tale principio, un’eventuale applicazione analogica dell’art. 64, comma 3, lett. c), si risolverebbe in una norma senza sanzione, posto che l’inutilizzabilità comminata dal comma 3-bis dell’art. 64 cod. proc. pen., per l’ipotesi di omesso avvertimento, non potrebbe essere estesa per analogia";
che, alla luce degli accennati rilievi, si profilerebbe, pertanto, un contrasto con il principio della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione; tale principio – imponendo di "eliminare tutti quei passaggi procedimentali che non rivestano alcuna reale utilità operativa, ovvero che non siano espressione di ulteriori valori o principi di rilievo costituzionale" – risulterebbe leso nel caso di specie dalla circostanza che l’imputato, ancorché dichiarante erga alios nel processo a suo carico, non può assumere l’ufficio di testimone in relazione a quelle dichiarazioni: con la conseguente necessità – non riconducibile ad esigenze di garanzia o di carattere investigativo – di un successivo interrogatorio da parte del pubblico ministero, al fine di poter effettuare gli avvisi di cui all’art. 64 cod. proc. pen., necessari per assumere tale ufficio;
che, secondo il rimettente, sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza a norma dell’art. 3 della Carta fondamentale, posto che risulterebbe di tutta evidenza la "grave incoerenza di ordine sistematico" nel configurare il diritto dell’imputato, nel corso del processo a suo carico, di rendere dichiarazioni accusatorie erga alios, senza contemplare un correlativo obbligo di testimonianza e nonostante egli abbia già assunto "naturaliter il ruolo di testimone": anzi – conclude il giudice a quo – sotto questo profilo, l’accoglimento del quesito, "lungi dal creare ex novo detta qualità in capo al dichiarante, si limiterebbe in realtà a rimuovere un ingiustificato privilegio che sottrae l’imputato dichiarante erga alios a tale status";
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondata la questione; a parere della difesa erariale, infatti, la situazione normativa in esame consentirebbe una interpretazione estensiva dell’art. 64 cod. proc. pen., atteso che "il coordinato disposto dell’art. 64, comma 3, lett. c) e dell’art. 197, lett. b), impone di leggere il primo articolo con estensione alla persona dell’imputato", con la conseguente applicabilità della norma censurata in sede di esame dibattimentale ed eliminazione di ogni profilo di illegittimità costituzionale.
Considerato che il giudice a quo impugna, per contrasto con il principio di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo, l’art. 64 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi prescritti debbano essere dati all’imputato anche in sede di esame dibattimentale;
che a fondamento della questione sollevata sta l’opzione ermeneutica secondo la quale la disposizione oggetto di impugnativa – essendo relativa alla "persona sottoposta alle indagini" e riguardando "l’interrogatorio" – non potrebbe essere riferita all’esame dibattimentale; sicché gli avvertimenti che consentono al dichiarante erga alios di assumere l’ufficio di testimone, "salve le incompatibilità previste dall’art. 197 e le garanzie di cui all’art. 197-bis", non potendo essere rivolti nel corso dell’esame stesso, determinano la conseguenza di imporre, per il raggiungimento di quegli effetti, un "interrogatorio" in ipotesi del tutto superfluo sul piano investigativo e neppure giustificato da esigenze di tutela del diritto di difesa;
che l’ulteriore ragion d’essere della questione sta nella ritenuta inapplicabilità della analogia (che condurrebbe ad estendere la disciplina prevista dall’art. 64 cod. proc. pen. all’esame dibattimentale), posto che l’assunzione dell’ufficio di testimone non può che derivare direttamente dalla legge; mentre la sanzione della inutilizzabilità delle dichiarazioni, ove non precedute dall’avviso – avendo tale sanzione, ex lege, carattere tassativo – non potrebbe mai operare in riferimento ad un "caso analogo", rendendo, dunque, quest’ultima ipotesi sguarnita di conseguenze, nel caso di inosservanza delle prescrizioni;
che la duplice e concorrente premessa interpretativa di cui innanzi si è detto, fa leva, principalmente, su elementi di carattere formale, per porre in risalto i tratti differenziali che separerebbero fra loro l’interrogatorio, da un lato, e l’esame, dall’altro, giacché essa finisce per concentrarsi essenzialmente – nell’evocare gli elementi tipizzanti del primo – sul destinatario dell’atto (la "persona sottoposta alle indagini") e sulla peculiarità del relativo nomen ("interrogatorio", appunto, e non esame);
che, peraltro, così facendo, il giudice a quo ha trascurato di considerare – nel quadro della prospettata ricostruzione interpretativa e degli effetti che da essa ha preteso di desumere – la consistente serie di dati sostanziali i quali, invece, depongono per l’appartenenza dei due atti processuali ad un medesimo genus;
che da un lato, infatti, è ben vero che l’interrogatorio ha di regola sede all’interno della fase delle indagini preliminari, ma ciò non rappresenta certo una caratteristica ineluttabile di quell’atto, ben potendo l’imputato (e non più, dunque, la "persona sottoposta alle indagini") essere interrogato nel corso della udienza preliminare (artt. 420-quater, comma 3, e 422, comma 4, cod. proc. pen.) e financo nel corso del giudizio, ove sia stata disposta una misura cautelare (art. 294, commi 1 e 4-bis, cod. proc. pen.); mentre per contro – aspetto, questo, che sembra essere stato totalmente negletto dal giudice a quo – l’esame, proprio sul fatto altrui, può anche aver sede nella fase delle indagini preliminari, attraverso l’istituto dell’incidente probatorio (art. 392, comma 1, lett. c), a dimostrazione di come la qualità del dichiarante, in rapporto allo stadio raggiunto dal procedimento (imputato o persona sottoposta alle indagini), non possa assumersi a decisivo parametro di distinzione – agli effetti che qui interessano – al punto da far ritenere la disciplina dell’interrogatorio concettualmente incompatibile con quella dell’esame;
che, d’altro lato, tanto l’interrogatorio che l’esame si iscrivono agevolmente nella categoria degli atti processuali a contenuto dichiarativo; entrambi possono essere ugualmente inquadrati nel novero degli strumenti difensivi; comune è, inoltre, la presenza di connotazioni probatorie; tanto l’uno che l’altro, infine, risultano caratterizzati dalla identica garanzia del nemo tenetur se detegere: è lo stesso rimettente, infatti, a sottolineare, proprio a questo riguardo, come nessun problema si ponga, in realtà, "in relazione agli avvertimenti sub lettere a) e b), di cui all’art. 64 c.p.p., essendo questi ultimi sostanzialmente desumibili già in forza degli artt. 208 e 209, comma 2, c.p.p., che disciplinano l’esame dell’imputato";
che, pertanto, risultando possibili letture del sistema diverse da quella posta a base della questione, e tali da vanificare la premessa su cui essa si radica – potendosi legittimamente far leva su di una interpretazione che consente di rendere applicabile la disciplina degli avvisi anche all’istituto dell’esame – i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal rimettente si rivelano manifestamente infondati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 64 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Monza con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2003.