SENTENZA N. 227
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Francesco GUIZZI, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 24 dicembre 1998 dal Pretore di Padova sul ricorso proposto da Tania Catarama contro il Prefetto di Padova, iscritta al n. 121 del registro ordinanze 1999, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1. – Il Pretore di Padova ha sollevato, con ordinanza del 24 dicembre 1998, questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), disposizione ora contenuta nell’art. 13, comma 8, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in riferimento all’art. 24 della Costituzione.
2. – Il Pretore è chiamato a definire il ricorso di una cittadina extracomunitaria avverso il decreto di espulsione amministrativa del Prefetto, ricorso che è stato proposto oltre un mese dopo la comunicazione del decreto, mentre l’art. 13, comma 8, del citato decreto legislativo stabilisce a tal fine il termine di cinque giorni; a spiegazione del ritardo, riferisce l’ordinanza di rimessione, la ricorrente, cittadina rumena, ha allegato la difficoltà di comprensione del contenuto dell’atto, redatto in lingua italiana e tradotto in inglese.
Osserva il Pretore che l’art. 11 della legge n. 40 del 1998 (ora art. 13 del testo unico) stabilisce, al comma 7, che “il decreto di espulsione e il provvedimento di cui al comma 1 dell’art. 12 [ora art. 14 del t.u.], nonché ogni altro atto concernente l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione, sono comunicati all’interessato unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione e ad una traduzione in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola”.
La traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato, cioè – secondo il rimettente – “nella lingua del suo paese natale”, costituirebbe dunque un presupposto di forma necessario e non sostituibile perché il provvedimento di espulsione possa produrre effetti nei confronti del destinatario. Ciò equivale, prosegue il Pretore, a escludere la possibilità, per l’amministrazione, di un accertamento in concreto della conoscenza o comunque del grado di conoscenza della lingua italiana da parte del cittadino extracomunitario; sarebbe del resto una probatio diabolica la dimostrazione, da parte dell’interessato, di una conoscenza piena e approfondita della lingua italiana o di un’altra lingua (diversa dalla madrelingua) e comunque un’indagine del genere potrebbe comportare fraintendimenti e incertezze, assegnando uno spazio eccessivo di discrezionalità all’autorità di polizia.
Dunque, osserva il Pretore, l’ipotesi di traduzione dell’atto in una delle lingue principali e più diffuse – inglese, francese o spagnolo – si configurerebbe come strettamente residuale, quando cioè risulti oggettivamente impossibile effettuare la traduzione nella lingua originaria dello straniero, ad esempio per la estrema rarità di detta lingua o del dialetto parlato dal cittadino extracomunitario; solo così si giustificherebbe la presunzione normativa di conoscenza di una di dette lingue internazionalmente più utilizzate, e l’esclusione di un accertamento in concreto, caso per caso, dell’effettiva conoscenza linguistica. Ma di regola, “quando ciò sia possibile”, come nel caso di specie, è necessario che il decreto di espulsione venga consegnato all’interessato “unitamente a una traduzione del provvedimento medesimo” nella lingua del destinatario.
Questo requisito di forma del resto si collega direttamente al rimedio giurisdizionale esperibile contro il decreto di espulsione, quale delineato sul piano procedimentale dai successivi commi 9, 10 e 11 dell’impugnato art. 11 della legge n. 40 del 1998. Ora, rileva il giudice rimettente, il comma 8 di questo stesso articolo, nel fissare il termine - perentorio - di cinque giorni per la proposizione del ricorso, “non prevede alcun meccanismo di rimessione in termini o di proroga del termine nel caso in cui il provvedimento sia stato notificato allo straniero in una lingua da lui non conosciuta”.
Ed è appunto in ciò che il rimettente ravvisa la violazione del diritto di azione e difesa in giudizio tutelato dall’art. 24 della Costituzione: nella perdita del potere di ricorrere contro il decreto di espulsione, per l’intempestività del rimedio, nonostante che per l’omessa traduzione dell’atto nella lingua madre dell’interessato questi non sia stato messo in grado di comprenderne adeguatamente il contenuto.
La questione sollevata, conclude il Pretore, è rilevante, perché investe l’ammissibilità dell’opposizione al decreto e con essa la validità del provvedimento amministrativo sottoposto a verifica giudiziale.
Considerato in diritto1. – Il Pretore di Padova dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), disposizione ora contenuta nell’art. 13, comma 8, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale stabilisce che «avverso il decreto di espulsione [dello straniero dal territorio dello Stato, nei casi previsti dai commi precedenti del medesimo articolo] può essere presentato [...] ricorso al pretore, entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto [...]». Il giudice rimettente ritiene che tale disposizione violi il diritto di azione in giudizio garantito dall’art. 24 della Costituzione in quanto non prevede, per il caso in cui il decreto stesso, non essendo stato tradotto nella lingua madre dell’interessato, non sia stato da questi adeguatamente compreso, la rimessione in termine dell’interessato o la proroga del termine stesso.
2. – La questione non è fondata.
Il diritto di azione in giudizio contro atti della pubblica amministrazione presuppone ovviamente la conoscibilità del loro contenuto e, di tale conoscibilità, l’uso di una lingua comprensibile all’interessato è evidentemente condizione necessaria. E’ per questa ragione che l’art. 11, comma 7, della legge n. 40 del 1998 (ora art. 13, comma 7, del decreto legislativo n. 286 del 1998) stabilisce che il decreto di espulsione è comunicato all’interessato unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione e ad una traduzione in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola; l’art. 3 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), al comma 3 stabilisce che, se lo straniero non comprende la lingua italiana, il provvedimento deve essere accompagnato da una sintesi del suo contenuto, anche mediante appositi formulari sufficientemente dettagliati, nella lingua a lui comprensibile o, se ciò non è possibile, in una delle lingue inglese, francese o spagnola, secondo la preferenza indicata dall’interessato. Tale disciplina corrisponde largamente, nell’inevitabile limite del possibile, all’esigenza di porre l’interessato nella condizione di conoscere il contenuto del provvedimento che lo riguarda, affinché egli possa eventualmente mettere in atto gli strumenti che l’ordinamento prevede per la difesa dei suoi diritti (commi 9, 10 e 11 dell’art. 11 in questione).
Il sistema legislativo è così costruito sulla garanzia della piena conoscibilità del contenuto del provvedimento, garanzia necessaria all’effettività del diritto di difesa in giudizio, secondo l’art. 24 della Costituzione, nonché secondo varie disposizioni di accordi internazionali in materia ai quali l’Italia ha aderito (v. art. 1 del protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, protocollo adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98; art. 13 del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, fatto a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881). Sulla premessa di tale conoscibilità, vale il termine perentorio di cinque giorni per la proposizione del ricorso, previsto dalla disposizione impugnata. Il caso eccezionale in cui la premessa non si realizza, non essendo stata compresa la lingua impiegata, sta fuori della portata della disposizione impugnata. La mancata previsione di rimedi per ovviare a tale situazione non significa affatto – come invece presuppone il giudice rimettente nel proporre la questione di costituzionalità – che essa debba ricadere nella disciplina del termine previsto a pena di decadenza. Se si tiene ferma l’esigenza che il contenuto del provvedimento sia conoscibile, affinché possano operare le ulteriori scansioni del procedimento previsto dalla legge, ove tale conoscibilità non vi sia occorrerà che il giudice, facendo uso dei suoi poteri interpretativi dei principi dell’ordinamento, ne tragga una regola congruente con l’esigenza di non vanificare il diritto di azione in giudizio, come del resto risulta dalla giurisprudenza dei giudici di merito i quali – per l’ipotesi in esame e sempre che la comunicazione dell’atto non abbia comunque raggiunto lo scopo - hanno ritenuto l’inefficacia del provvedimento non tradotto in lingua comprensibile e la sua inidoneità a far decorrere il termine per il ricorso. Possibilità interpretative di questo genere non sono affatto escluse dalla disposizione sottoposta a controllo, la quale risulta pertanto esente dal vizio di costituzionalità che le viene imputato.
Per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 8, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), disposizione ora contenuta nell’art. 13, comma 8, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dal Pretore di Padova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2000.
Francesco GUIZZI, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata in cancelleria il 22 giugno 2000.