ORDINANZA N. 117
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della Legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e dell'art. 91 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 2 gennaio 1998 dal Pretore di Avellino nel procedimento civile vertente tra Maietta Roberto e l'Ispettorato provinciale del lavoro di Avellino, iscritta al n. 214 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 10 marzo 1999 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto che nel corso di un procedimento di opposizione avverso un’ordinanza ingiunzione emessa dal locale Ispettorato provinciale del lavoro, il Pretore di Avellino, con ordinanza emessa il 2 gennaio 1998, ha sollevato questione di legittimità costituzionale [dell'art. 23] della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e dell'art. 91 cod. proc. civ., nella parte in cui [secondo la costante interpretazione giurisprudenziale] non consentono al Pretore di condannare il ricorrente, nel caso di soccombenza, e salva l’applicazione dell'art. 92 cod. proc. civ., al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente costituitasi a mezzo di propri funzionari;
che, secondo il rimettente, le norme impugnate si pongono in contrasto: a) con l’art. 24 Cost., in quanto, non essendo prevista alcuna sanzione nel caso di infondatezza dell’opposizione, il ricorrente non subisce alcuna conseguenza pregiudizievole, ricevendo viceversa solo vantaggi dalla proposizione dell’azione, che gli consente comunque, nel peggiore dei casi, di pagare dopo molti anni la stessa somma dovuta nel suo ammontare iniziale, senza neppure gli interessi; b) con l’art. 97 Cost., poichè la gratuità del processo in questione, la previsione di tutti gli adempimenti a carico dell’ufficio, l’assenza di sanzioni, l’inoperatività dell’onere delle spese processuali, da un lato, e la complessità del giudizio, dall’altro, comportano per l’amministrazione della giustizia un aggravio sia quantitativo che qualitativo, spesso sproporzionato rispetto all’entità degli interessi coinvolti, ciò comportando uno sviamento della sua funzione ed un intralcio alla medesima; c) con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a quanto disciplinato, nel nuovo processo tributario, dall’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, in cui si prevede che il Ministero delle finanze, ove stia in giudizio a mezzo di propri funzionari, ha diritto al rimborso delle spese processuali in base alle tariffe degli avvocati, per diritti ed onorari, ridotti questi ultimi del 20 per cento.
Considerato che questa Corte ha più volte riconosciuto, in termini generali, l’ampia discrezionalità spettante al legislatore nel dettare le norme processuali, col solo limite della non irrazionale predisposizione degli strumenti di tutela (cfr. sentenza n. 295 del 1995);
che, più in particolare, essa ha precisato come l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge - con riguardo al tipo di procedimento - in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale (sentenza n. 196 del 1982);
che, inoltre, il regolamento delle spese processuali comunque non incide sulla tutela giurisdizionale del diritto di chi agisce o si difende in giudizio, non potendosi affatto sostenere che la possibilità di conseguire la ripetizione delle spese processuali (ovvero, dei diritti e degli onorari di avvocato) consenta alla parte di meglio difendere la sua posizione e di apprestare meglio le sue difese (v., per tutte, sentenza n. 119 del 1969);
che, d'altra parte, il richiamo all’altrettanto univoca giurisprudenza di questa Corte - secondo cui un modello processuale non necessariamente deve costituire parametro per un rito diverso, essendo giustificata la non simmetrica costruzione delle norme processuali in tema di spese di lite, allorquando esse si sostanzino in strumenti procedimentali ricollegati a differenti sistemi in sè compiuti ed affatto autonomi, diretti a regolare materie non omogenee (sentenze n. 53 del 1998 e n. 79 del 1997) - rende palesemente inidoneo il particolare meccanismo di liquidazione di diritti ed onorari, introdotto nel nuovo processo tributario (art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992), a fungere da tertium comparationis onde verificare il denunciato vulnus al principio di uguaglianza;
che, infine, rimane estraneo alle denunciate norme, regolanti l’esercizio della funzione giurisdizionale, il parametro dell'art. 97 Cost., che attiene unicamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo (cfr. sentenza n. 385 del 1997);
che, pertanto, la sollevata questione risulta manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e dell'art. 91 del codice di procedura civile, sollevata - in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione - dal Pretore di Avellino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1999.
Renato GRANATA, Presidente
Cesare RUPERTO, Redattore
Depositata in cancelleria il 2 aprile 1999.