SENTENZA N. 264
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Gabriele PESCATORE
Giudici
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica) e 15, terzo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 marzo 1993 dal Pretore di Treviso nel procedimento civile vertente tra Garbin Raffaele e l'I.N.P.S. ed altro, iscritta al n. 234 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1993;
2) ordinanza emessa il 28 aprile-22 giugno 1993 dal Tribunale di Pordenone nel procedimento civile vertente tra Maccan Pietro e l'I.N.P.S., iscritta al n. 20 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1994;
Visti gli atti di costituzione di Maccan Pietro e dell'I.N.P.S.;
Udito nell'udienza pubblica del 10 maggio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;
Udito l'avv. Carlo De Angelis per l'I.N.P.S.;
1. - Con ordinanza del 28 aprile 1993, il Tribunale di Pordenone ha sollevato questione di legittimità costituzionale - per contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione - dell'articolo 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982 n. 297, secondo cui "per le pensioni liquidate con decorrenza successiva al 30 giugno 1982, la retribuzione annua pensionabile per l'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è costituita dalla quinta parte della somma delle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro, o corrispondenti a periodi riconosciuti figurativamente, ovvero ad eventuale contribuzione volontaria, risultante dalle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione".
Il caso che il Tribunale di Pordenone doveva giudicare riguardava il signor Pietro Maccan, il quale aveva cessato di lavorare alle dipendenze di terzi nel 1979, dopo aver maturato un'anzianità contributiva di oltre 28 anni, di per sé sufficiente ad assicurargli il diritto alla pensione di vecchiaia, una volta che avesse raggiunto l'età pensionabile. In attesa di quel momento, il Maccan si era dedicato - dal 1983 al 1988 - all'attività di "pescatore autonomo". Tale attività era soggetta a contribuzione obbligatoria I.N.P.S. da corrispondere - secondo la legge 13 marzo 1958 n. 250 - sulla base di un salario medio convenzionale notevolmente inferiore rispetto alle retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti. In virtù del meccanismo previsto dal citato articolo 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, la sua pensione era stata calcolata sulla base della retribuzione contributiva degli ultimi cinque anni di contribuzione, il che aveva determinato un importo di lire 317.436 mensili, in luogo di lire 693.487, quale sarebbe stato l'importo della prestazione previdenziale che si sarebbe ottenuto escludendo la contribuzione versata come pescatore autonomo sia dal calcolo della retribuzione contributiva media, sia dal moltiplicatore che esprime le settimane di contribuzione.
Secondo il giudice a quo, il meccanismo sopra descritto è irrazionalmente discriminatorio nei confronti di quegli assicurati che, per un qualunque motivo, scelgano o siano costretti ad esercitare un'attività meno retribuita nel quinquennio precedente la decorrenza della pensione. Esso altera, inoltre, il necessario equilibrio tra contribuzioni versate e trattamento pensionistico ricevuto.
Nell'ordinanza di rimessione si ricorda che la Corte, con sentenza n. 307 del 1989, ha già deciso una questione per molti versi analoga, dichiarando l'illegittimità costituzionale del medesimo articolo 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982 nella parte in cui non prevedeva che, in caso di prosecuzione volontaria nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti da parte del lavoratore dipendente che abbia già conseguito, in costanza di rapporto di lavoro, la prescritta anzianità assicurativa e contributiva, la pensione liquidata non possa essere inferiore a quella che sarebbe spettata al raggiungimento dell'età pensionabile sulla base della sola contribuzione obbligatoria. Il fatto che, nell'ipotesi ora in esame, sia una contribuzione di carattere obbligatorio a determinare il depauperamento anziché l'incremento della prestazione pensionistica non consente - secondo il giudice a quo - di sottrarre il meccanismo normativo, anche per questo versante, al medesimo giudizio di irragionevolezza espresso dalla suddetta pronunzia.
2. - Costituendosi nel giudizio davanti a questa Corte, Pietro Maccan ha ribadito gli argomenti enunciati dal Tribunale di Pordenone, ricordando in particolare come la stessa ratio decidendi della sentenza n. 307 del 1989 era stata applicata dalla successiva sentenza n. 428 del 1992 per dichiarare l'illegittimità costituzionale del medesimo articolo 3, comma 8, della legge n. 297 del 1982 nella parte in cui non consentiva, in caso di pensione di anzianità, il ricalcolo della pensione stessa, dopo il raggiungimento dell'età pensionabile, sulla base della sola contribuzione obbligatoria, qualora ciò portasse ad un risultato più favorevole all'assicurato. Secondo la difesa della parte, l'elemento di diversità del caso ora in esame rispetto a quelli che la Corte ha già esaminato - e cioè il carattere obbligatorio e non facoltativo della contribuzione aggiuntiva - non è idoneo a influire sulla ratio decidendi, essendo comunque irrazionale che si determini un decremento pensionistico quale esclusiva conseguenza di una maggior contribuzione.
La stessa difesa osserva, infine, che il legislatore ha compreso la necessità di neutralizzare talune incongrue conseguenze che le variazioni della retribuzione possono determinare sul livello del trattamento pensionistico ed infatti, con l'articolo 1 del decreto legislativo 11 agosto 1993 n. 373, ha adottato, per i lavoratori di nuova assunzione, il criterio di escludere dal calcolo della retribuzione media pensionabile quelle retribuzioni che siano di importo inferiore di oltre il 20 per cento rispetto alla media stessa.
3. - Si è costituito anche l'I.N.P.S., rimettendosi alla decisione della Corte, ma rilevando la diversità della questione in esame rispetto a quelle già esaminate e decise dal giudice delle leggi con le sentenze nn. 307 del 1989 e 428 del 1992, nelle quali il giudizio di irrazionalità era incentrato sul contrasto tra la funzione tipica della contribuzione volontaria - che è quella di produrre un trattamento pensionistico più favorevole - ed il contrario effetto che invece la contribuzione volontaria produceva nelle ipotesi considerate in ragione di un perverso effetto collaterale del meccanismo normativo.
4. - Analoga questione è stata sollevata dal Pretore di Treviso con ordinanza del 18 marzo 1993 (r.o. n. 234/1993) nel corso di un procedimento civile promosso, nei confronti dell'I.N.P.S. da Raffaele Garbin, il quale era stato per 30 anni dipendente di una Cassa di risparmio, in qualità di impiegato di concetto e, dopo la cessazione di tale rapporto, aveva prestato, negli anni 1985, 1986 e 1987, attività lavorativa molto limitata (pari a 17 giornate lavorative nel primo anno, 20 nel secondo e 16 nel terzo) alle dipendenze di un'azienda agricola. Quest'ultima aveva per lui corrisposto i contributi previdenziali ragguagliati alla misura convenzionale annua stabilita dall'articolo 15 della legge 30 aprile 1969 n. 153, che prevede una sorta di integrazione contributiva a favore dei lavoratori agricoli ai quali risulti accreditato un numero di contributi inferiore ad un anno. Per effetto dell'articolo 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982 n. 297, l'I.N.P.S. aveva calcolato la pensione dovuta al ricorrente assumendo come retribuzione dell'ultimo quinquennio lavorativo sia la retribuzione percepita in qualità di impiegato bancario (per un biennio) sia la retribuzione media di un bracciante agricolo avventizio (per l'ultimo triennio). In tal modo il ricorrente aveva subi'to una macroscopica diminuzione del trattamento pensionistico rispetto a quanto avrebbe potuto ottenere qualora la retribuzione delle ultime 260 settimane lavorative fosse stata calcolata, secondo la richiesta del ricorrente, facendo esclusivo riferimento al suo rapporto di lavoro con la Cassa di risparmio.
Il Pretore di Treviso denunzia altresì l'illegittimità costituzionale dell'articolo 15, terzo comma, della legge n. 153 del 1969, "nella parte in cui prevede una integrazione contributiva figurativa anche nei casi in cui essa comporta un pregiudizio al lavoratore sotto il profilo del trattamento pensionistico" senza limitarsi, cioè, a rendere possibile l'utilizzazione dei contributi figurativi soltanto se essa determini un risultato più favorevole per il lavoratore.
Il Pretore osserva che, nel caso di specie, l'applicazione combinata delle due norme porta ad un risultato in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del principio di ragionevolezza. La riduzione del trattamento pensionistico che il meccanismo indicato determina, si pone in contraddizione non solo con l'intero assetto normativo in materia previdenziale, ma anche con la ratio della stessa normativa impugnata. Entrambe le disposizioni in esame, infatti, se considerate isolatamente, sono chiaramente ispirate ad un principio di favore per il lavoratore: a) la disciplina del calcolo della pensione, imponendo un riferimento alle ultime 260 settimane di attività (cinque anni), risponde all'intento di assicurare un trattamento pensionistico almeno teoricamente più elevato; b) la norma sui lavoratori agricoli, d'altra parte, prevedendo un meccanismo di integrazione contributiva a carico dell'ente previdenziale, intende garantire un trattamento pensionistico minimo anche a quei lavoratori che abbiano prestato la loro attività in modo precario e discontinuo.
Anche il Pretore di Treviso ricorda, a sostegno della censura, la sentenza n. 307 del 1989, ma il richiamo è esteso anche alla sentenza n. 421 del 1991, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma della legge n. 152 del 1968 che imponeva la liquidazione dell'indennità premio di servizio corrisposta dall'I.N.A.D.E.L. sulla base della retribuzione degli ultimi dodici mesi di servizio senza tener conto della maggior retribuzione percepita in precedenza.
Secondo il giudice a quo, le norme impugnate sono altresì in contrasto con gli artt. 36 e 38 della Costituzione, in quanto danno luogo ad un trattamento pensionistico palesemente inadeguato rispetto sia all'effettivo apporto contributivo fornito nella parte conclusiva dell'attività lavorativa complessiva, sia alla qualità e quantità del lavoro prestato durante il servizio attivo (profilo, quest'ultimo, che rileva data la natura retributiva riconosciuta al trattamento pensionistico dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte).
5. - Si è costituito in giudizio l'I.N.P.S., deducendo l'inammissibilità e, in subordine, l'infondatezza della questione sollevata dal Pretore di Treviso.
La difesa dell'istituto rileva in primo luogo che dalla motivazione dell'ordinanza di remissione non risulta quale sarebbe stato l'importo della pensione che l'interessato avrebbe ricevuto per il lavoro svolto presso la Cassa di risparmio senza tener conto del periodo di contribuzione relativo all'attività lavorativa successivamente svolta quale salariato agricolo. Il giudice a quo inoltre non avrebbe tenuto conto - secondo la difesa dell'I.N.P.S. - che il Garbin, all'atto della cessazione del rapporto con la Cassa di risparmio, non aveva ancora raggiunto l'età minima pensionabile.
Nel merito, l'istituto contesta l'argomento formulato dal Pretore, secondo cui sia l'articolo 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982, sia l'articolo 15, terzo comma, della legge n. 153 del 1969, sarebbero "chiaramente ispirati ad un principio di favore per il lavoratore", rispetto alla normativa precedentemente in vigore. Al contrario - osserva l'I.N.P.S. - il sistema di calcolo introdotto dalla legge del 1982 è meno favorevole di quello in precedenza previsto dall'articolo 26, terzo comma, della legge n. 160 del 1975 secondo cui la retribuzione media annua pensionabile era data dai tre gruppi di retribuzione più favorevoli nel decennio precedente la pensione, fossero questi collocati nell'ultimo quinquennio o anteriormente. Né l'applicabilità di una legge posteriore più sfavorevole può dar luogo a dubbi di legittimità costituzionale in quanto, come affermato da ultimo con la sentenza n. 243 del 1993, "non può contrastare con il principio di uguaglianza, un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, perché lo stesso fluire di questo costituisce di per sé un elemento diversificatore" in rapporto a situazioni concernenti sia gli stessi soggetti, come gli altri componenti dell'aggregato sociale.
Considerato in diritto
1. - La norma che il Tribunale di Pordenone ed il Pretore di Treviso sottopongono all'esame di questa Corte è rappresentata dall'articolo 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982 n. 297, secondo cui "Per le pensioni liquidate con decorrenza successiva al 30 giugno 1982 la retribuzione annua pensionabile per l'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è costituita dalla quinta parte della somma delle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro, o corrispondenti a periodi riconosciuti figurativamente, ovvero ad eventuale contribuzione volontaria, risultante dalle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione".
La retribuzione annua media pensionabile - che costituisce, insieme all'anzianità contributiva, uno dei due principali coefficienti di calcolo per la determinazione della pensione - è quindi, per effetto della norma impugnata - pari ad un quinto di quella delle ultime 260 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione stessa. I giudici a quibus rilevano che questo meccanismo determina, in talune ipotesi, conseguenze che essi giudicano irrazionali e quindi contrastanti con l'articolo 3, oltre che con gli articoli 36 e 38 della Costituzione. Tali ipotesi riguardano i casi in cui il lavoratore, già in possesso del requisito della anzianità contributiva minima, abbia subìto, in coincidenza con il periodo di riferimento (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso, una riduzione della retribuzione contributiva di tale misura da non essere compensata dal corrispondente incremento dell'anzianità contributiva e tale da determinare, quindi, una riduzione del trattamento pensionistico complessivo rispetto a quello che sarebbe stato liquidato se, in quei periodi di minor reddito lavorativo, egli non avesse né lavorato né versato alcuna contribuzione.
Con riferimento al caso di specie (riguardante un lavoratore che, dopo 30 anni di servizio alle dipendenza di una Cassa di risparmio come impiegato di concetto, aveva prestato per un triennio attività estremamente limitata come lavoratore agricolo), il Pretore di Treviso denunzia altresì l'illegittimità costituzionale - con riferimento agli stessi parametri - dell'articolo 15, terzo comma, della legge 30 aprile 1969 n. 153 "nella parte in cui prevede un'integrazione contributiva figurativa anche nei casi in cui essa comporta un pregiudizio al lavoratore sotto il profilo del trattamento pensionistico".
2. - In primo luogo deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità opposta dalla difesa dell'I.N.P.S. in ordine all'ordinanza del Pretore di Treviso.
Il fatto che il giudice a quo non abbia precisato quale sarebbe stato l'importo della pensione liquidabile senza tener conto del periodo di contribuzione come salariato agricolo, non è sufficiente, a far ritenere l'ordinanza priva di motivazione in ordine alla rilevanza, posto che il Pretore ha dato conto di aver accertato che tale importo sarebbe stato notevolmente maggiore di quello effettivamente liquidato.
Né alcun rilievo può essere riconosciuto al fatto che l'interessato, all'atto della cessazione del rapporto con la Cassa di risparmio, non avesse ancora raggiunto l'età minima pensionabile. Si tratta, infatti, di circostanza del tutto estranea rispetto ai termini della questione, posto che quest'ultima non riguarda il momento di maturazione del diritto al trattamento pensionistico, ma l'ammontare di questo al raggiungimento dell'età pensionabile.
3. - Nel merito è fondata la questione concernente il citato articolo 3, ottavo comma, della legge n. 297 del 1982.
Con le sentenze nn. 307 del 1989 e 428 del 1992, questa Corte ha già esaminato gli effetti che il meccanismo stabilito dalla norma impugnata determinava in talune ipotesi particolari ed ha ritenuto che fosse irrazionale e privo di giustificazione che alla prosecuzione volontaria nell'assicurazione da parte del lavoratore che abbia già conseguito l'anzianità contributiva minima prescritta per il diritto a pensione, possa conseguire il risultato di una pensione di vecchiaia inferiore a quella che gli sarebbe spettata ove avesse omesso di effettuare la contribuzione volontaria.
L'incongruenza logica di un simile risultato con le finalità proprie della contribuzione volontaria è stata indicata, nelle suddette pronunzie, come elemento meramente rafforzativo di una valutazione di irrazionalità che la questione oggi sottoposta all'esame di questa Corte consente di riaffermare in radice ed in termini più generali.
Le varie leggi che si sono succedute a partire dal d.P.R. 27 aprile 1968 n. 488 hanno variamente disciplinato l'individuazione del periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile perseguendo, di volta in volta, la finalità di semplificare il sistema, ovvero di garantire al lavoratore una più favorevole base di calcolo per la liquidazione della pensione, oppure, al contrario, di attenuare il disavanzo del sistema previdenziale. Le scelte operate al riguardo dal legislatore rientrano nell'ambito della discrezionalità politica, ma esse possono essere sindacate da questa Corte nella misura in cui esse diano luogo a risultati palesemente irrazionali o comunque contrari ai principi costituzionali che regolano la materia.
Orbene, è palesemente contrario al principio di razionalità di cui all'articolo 3 della Costituzione - "che implica l'esigenza di conformità dell'ordinamento a valori di giustizia e di equità" (sentenza n. 421 del 1991) che all'inserimento di un periodo di contribuzione obbligatoria nella base di calcolo della pensione consegua, in un sistema che prende in considerazione per la determinazione della retribuzione pensionabile solo l'ultimo periodo lavorativo (in quanto si presume più favorevole per il lavoratore), come unico effetto, un depauperamento del trattamento pensionistico di vecchiaia rispetto a quello già ottenibile ove in tale periodo non vi fosse stata contribuzione alcuna ed il periodo stesso non fosse stato quindi computabile a nessun effetto (neppure, quindi, ai fini della determinazione dell'anzianità contributiva): è, cioè, irragionevole e ingiusto che a maggior lavoro e a maggior apporto contributivo corrisponda una riduzione della pensione che il lavoratore avrebbe maturato al momento della liquidazione della pensione per effetto della precedente contribuzione.
Questo è invece quanto può verificarsi, per effetto del meccanismo delineato dalla norma in esame, allorquando le ultime 260 settimane di contribuzione precedenti la decorrenza della pensione comprendano periodi di contribuzione obbligatoria (non necessari ai fini del perfezionamento del requisito della minima anzianità contributiva) di importo notevolmente inferiore a quello della contribuzione obbligatoria precedente. E tale depauperamento, incidendo in questo caso sulla proporzionalità tra il trattamento pensionistico e la quantità e la qualità del lavoro prestato durante il servizio attivo, viola anche l'articolo 36, oltre che il principio di adeguatezza di cui all'articolo 38, secondo comma, della Costituzione.
Questo si è verificato nei casi rappresentati dall'ordinanza di remissione per effetto di nuove attività di lavoro meno retribuite.
La questione è perciò fondata e l'impugnato articolo 3, ottavo comma, deve quindi essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, nel caso di esercizio durante l'ultimo quinquennio di contribuzione di attività lavorativa, meno retribuita da parte di un lavoratore che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell'età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di minore retribuzione, in quanto non necessari ai fini del requisito dell'anzianità contributiva minima e calcolando invece la precedente contribuzione obbligatoria ed il connesso più ristretto arco temporale lavorativo.
4. - La censura proposta dal Pretore di Treviso relativamente all'articolo 15, terzo comma, della legge 30 aprile 1969 n. 153, deve pertanto ritenersi sostanzialmente superata. Può tuttavia essere ricordato che, in ossequio al principio di solidarietà, non è necessario, per la legittimità costituzionale dell'obbligo contributivo, che a ciascuna contribuzione corrisponda un incremento della prestazione previdenziale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 3, ottavo comma, della legge 29 maggio 1982 n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), nella parte in cui non prevede che, nel caso di esercizio durante l'ultimo quinquennio di contribuzione di attività lavorativa, meno retribuita da parte di un lavoratore che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell'età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di minore retribuzione, in quanto non necessari ai fini del requisito dell'anzianità contributiva minima;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 15, terzo comma, della legge 30 aprile 1969 n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Treviso con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1994.
Il Presidente: PESCATORE
Il redattore: SPAGNOLI
Depositata in cancelleria il 30 giugno 1994.