SENTENZA N.264
ANNO 1990
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Francesco SAJA, Presidente
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 97, comma secondo, terzo e quarto, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 18 maggio 1989 dal T.A.R. del Veneto sul ricorso proposto da Righetto Carlo contro l'Università degli Studi di Venezia ed altri, iscritta al n. 645 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima seria speciale, dell'anno 1989.
Udito nella camera di consiglio del 7 marzo 1990 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso di un giudizio amministrativo concernente la legittimità degli atti di avvio di un procedimento disciplinare, il T.A.R. del Veneto, con ordinanza in data 18 maggio 1989 (ro. n. 645 del 1989), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, secondo, terzo e quarto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare a carico dei dipendente non possa più essere iniziato o rinnovato trascorsi 180 giorni dalla data in cui é divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento pronunciata per motivi diversi da quelli di cui al primo comma del medesimo articolo (e cioé con formule diverse da "il fatto non sussiste" o "l'imputato non lo ha commesso").
Nel caso di specie, l'atto di contestazione degli addebiti del 13 luglio 1988 risultava adottato dall'amministrazione oltre il termine previsto dalla norma impugnata, difatti, la sentenza della Corte di cassazione che aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati era stata emanata il 15 dicembre 1987 e, nonostante l'amministrazione avesse in precedenza, varie volte, richiesto informazioni alla cancelleria dell'ufficio giudiziario, le era stata comunicata soltanto in data 9 giugno 1988.
Ritiene il giudice a quo che l'esigenza di evitare che il dipendente prosciolto in sede penale resti indefinitamente soggetto alla possibilità di subire l'azione disciplinare sia sufficientemente garantita dalla facoltà, attribuita al dipendente stesso, di notificare il provvedimento giudiziario all'amministrazione facendo così decorrere il termine di quaranta giorni che la stessa disposizione impugnata prevede, per l'inizio dell'azione disciplinare, in alternativa all'altro di 180 giorni decorrente dal momento in cui la sentenza di proscioglimento diviene irrevocabile.
Attesa l'autonomia dei procedimento disciplinare rispetto a quello penale, il tribunale rimettente ritiene che far dipendere l'esercizio del potere sanzionatorio da una circostanza, quale l'irrevocabilità della sentenza di proscioglimento, pronunciata per motivi che non possono avere alcuna rilevanza in sede disciplinare, e indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità della predetta circostanza da parte dell'amministrazione, costituisca un'ingiustificata compressione dell'autonomia di quest'ultima e si risolva in una violazione del principio di buon andamento (art. 97 Cost.), al cui perseguimento il potere disciplinare é preordinato. Nè potrebbe validamente sostenersi che 180 giorni possano, in astratto, costituire un termine congruo per consentire all'amministrazione di venire a conoscenza della sentenza di proscioglimento; la conoscibilità di quest'ultima, infatti, non dipende esclusivamente dall'iniziativa e dalla diligenza dell'autorità amministrativa, ma é subordinata alla collaborazione degli organi giudiziari, per cui basta il ritardo o la negligenza di questi ultimo per provocare, come sarebbe avvenuto nel caso in esame, l'inutile decorso del termine in questione.
La norma impugnata, peraltro, contrasterebbe anche con il generale principio di ragionevolezza, in quanto porrebbe alla potestà sanzionatoria - che spesso riguarda illeciti anche gravi - un limite temporale che l'amministrazione, per fatti indipendenti dalla sua volontà, ha serie difficoltà a rispettare.
Un'ultima censura viene infine formulata in relazione all'ingiustificata disparità di trattamento (art. 3 Cost.) che si determinerebbe fra dipendenti colpevoli di fatti che costituiscono reato e quelli colpevoli di fatti che integrano ipotesi di responsabilità solo disciplinare, per i quali ultimi non opera nè la sospensione del procedimento disciplinare, nè la causa di improcedibilità in questione.
2.- Non si sono costituite le parti nè ha spiegato intervento l'Avvocatura generale dello Stato.
Considerato in diritto
1.-É stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 97, secondo, terzo e quarto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico non possa più essere iniziato o rinnovato trascorsi 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento, pronunciata per motivi diversi da quelli di cui al primo comma del medesimo articolo e cioé, come nel caso oggetto del giudizio a quo, per intervenuta prescrizione e, quindi, con formule diverse da <il fatto non sussiste> o <l'imputato non l'ha commesso>.
Si sostiene nell'ordinanza di rimessione che l'esigenza di evitare che un impiegato rimanga indefinitamente soggetto all'azione disciplinare, può essere sufficientemente garantita dalla facoltà che egli ha di notificare il provvedimento giudiziario, facendo decorrere il termine di 40 giorni che la stessa disposizione impugnata prevede, per l'inizio dell'azione disciplinare, in alternativa a quello di 180 giorni decorrente dal momento in cui la sentenza di proscioglimento diviene irrevocabile. II far dipendere la decadenza dall'esercizio dell'azione disciplinare dalla mancata collaborazione degli uffici giudiziari, contrasterebbe con il principio di buon andamento e di ragionevolezza perchè impedirebbe all'Amministrazione, titolare del potere disciplinare, che è autonomo dal magistero penale, di esercitarlo per un fatto indipendente dalla sua volontà. Si determinerebbe, inoltre, una ingiustificata disparità rispetto ai dipendenti colpevoli di illeciti soltanto disciplinari, per i quali ultimi non opera nè la sospensione del procedimento disciplinare, nè la decadenza prevista dalle disposizioni impugnate.
2. - La questione non è fondata.
Questa Corte ha già avuto modo di apprezzare, positivamente, sia pure con riferimento ad ipotesi diverse, quelle previsioni normative che escludono la sperimentabilità sine die del procedimento disciplinare, perchè gli interessi che esso tende a tutelare devono cedere a fronte delle garanzie dovute al singolo (sent. n. 1128 del 1988).
Tali garanzie, come ha sempre chiarito la giurisprudenza amministrativa, costituiscono espressione di un principio generale ricollegabile all'esigenza che i procedimenti disciplinari abbiano svolgimento e termine in un arco di tempo ragionevole, onde evitare che il pubblico dipendente rimanga indefinitivamente esposto alla irrogazione di sanzioni disciplinari.
A tale principio si ispira la norma impugnata risultante dal secondo, terzo e quarto comma, dell'art. 97 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, i quali prevedono, il secondo comma, che se il procedimento penale si conclude con la sentenza di proscioglimento o di assoluzione, passata in giudicato per motivi diversi da quelli contemplati nel primo comma dello stesso art. 97 (e cioé con formule diverse da quelle <perchè il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso>), la sospensione cautelare può essere mantenuta qualora, nei termini previsti dal successivo (terzo) comma, venga iniziato a carico dell'impiegato procedimento disciplinare; il terzo comma, che il procedimento disciplinare deve avere inizio entro i 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l'impiegato abbia notificato all'amministrazione la sentenza stessa; il quarto comma, che qualora la contestazione degli addebiti non avvenga entro il detto termine, la sospensione cautelare cessa ed il procedimento disciplinare per i fatti che formarono oggetto del giudizio penale non può più essere iniziato.
Da quanto precede risulta dunque che le disposizioni impugnate (è da notare che l'art. 97, di cui i tre comma indicati fanno parte, è intitolato <Revoca della sospensione>) disciplinano congiuntamente, in caso di proscioglimento o di assoluzione, sia la sorte della sospensione cautelare disposta in pendenza di procedimento penale che la decadenza dall'azione disciplinare che non sia stata ancora iniziata.
Per quel che riguarda il termine di decadenza da detta azione, non appare irragionevole che, in via di principio, il legislatore abbia ancorato la sua decorrenza ad un evento obiettivo e certo quale il passaggio in giudicato della sentenza penale di proscioglimento o di assoluzione, all'uopo fissando un periodo certamente congruo (per la legittimità costituzionale di termini di decadenza anche più brevi, concernenti l'attuazione di un valore fondamentale quale quello della tutela dei propri diritti, v. sentt. nn. 107 del 1963, 46 e 234 del 1974, ord. n. 781 del 1988) per consentire che la notizia pervenga a conoscenza della amministrazione da cui l'impiegato dipenda. Che, poi, tale termine possa inutilmente decorrere a causa della negligenza degli addetti agli uffici giudiziari, cui spetta comunicare tale notizia all'amministrazione che la richiede è una circostanza inidonea a far ritenere che le conseguenze debbano ricadere sull'impiegato, prolungando sine die il potere dell'amministrazione di esercitare l'azione disciplinare nei suoi confronti. Va difatti considerato che, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi, quale quello dell'amministrazione a non vedersi impedito l'esercizio del potere disciplinare e quello dell'impiegato a vedere definita la sua posizione disciplinare, non può ritenersi irragionevole che il legislatore abbia privilegiato il secondo, una volta ritenuto in via di principio, come emerge da tutta la disciplina del procedimento disciplinare, che a tale definizione debba pervenirsi entro un congruo termine. Anche il secondo interesse si collega difatti al principio del buon andamento e, quindi, non è censurabile la scelta del legislatore di tutelare lo stesso principio attribuendo prevalenza alla posizione dell'impiegato.
Nè può essere condivisa la prospettazione del giudice a quo, secondo cui detta esigenza potrebbe essere già sufficientemente garantita dall'altra previsione contenuta nel terzo comma dell'art. 97, in base alla quale l'impiegato ha addirittura la facoltà di far decorrere un termine più breve di decadenza, cioé quello di 40 giorni dalla notifica a sua cura della sentenza, per pervenire egualmente alla conclusione del procedimento.
Questa facoltà concessa all'impiegato prosciolto o assolto sembra più propriamente collegata alla ipotesi in cui egli sia sospeso cautelarmente dal servizio e voglia far cessare tale stato e, quindi, non potrebbe pretendersi che quella che è una facoltà possa, come sembra auspicare il giudice a quo, trasformarsi, per raggiungere il fine della conclusione del procedimento, nell'onere, peraltro a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di sollecitare l'apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole. Non sarebbe difatti ragionevole che, per far cessare una situazione di incertezza che il legislatore ha ancorato al trascorrere di un termine congruo, si debba accollare, a colui che ha un interesse addirittura contrapposto all'esercizio del potere disciplinare, l'onere di sollecitarlo, tenuto conto che l'ordinamento, per esigenze di certezza del tutto analoghe, già conosce ipotesi, come quelle attinenti alla prescrizione di reati, nelle quali l'estinzione del potere punitivo in relazione al mero trascorrere del tempo non è subordinata ad alcun onere da parte del soggetto che ne beneficia, nè, tantomeno, alla conoscibilità del fatto illecito.
3 -La questione non è fondata anche in relazione all'altro profilo prospettato nell'ordinanza di rimessione e cioé in relazione alla disparità di trattamento rispetto a coloro che hanno commesso illeciti disciplinari non costituenti reato e che quindi, pur avendo commesso illeciti di minore gravità, verrebbero a trovarsi in una situazione più favorevole, perchè per essi non sarebbe prevista una analoga ipotesi di estinzione del procedimento disciplinare.
In proposito non può, in primo luogo, proprio a causa dell'autonomia tra responsabilità penale e responsabilità disciplinare, operarsi una graduatoria in assoluto circa la maggiore gravità degli illeciti disciplinari che costituiscono anche fattispecie di reati ed illeciti che rilevino solo sul piano disciplinare, ben potendo alcuni di quest'ultimi, dal punto di vista dell'amministrazione, che è titolare del potere disciplinare, essere considerati più gravi.
Ciò premesso, i termini posti a raffronto non sono omogenei, perchè la diversità è determinata proprio dall'interferenza nello svolgimento del procedimento disciplinare di quello penale.
É appunto da questa interferenza, non presente nell'altra ipotesi, che sorge l'esigenza di un coordinamento che il legislatore ha assicurato, sempre in vista di una rapida definizione della procedura disciplinare, con la prefissione del termine che ha fatto decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di proscioglimento o di assoluzione, cioè da un evento obiettivo di cui l'amministrazione può acquisire conoscenza mediante un opportuno coordinamento con l'ufficio giudiziario che, soprattutto quando ne sia richiesto, è tenuto a comunicare l'eventuale conclusione del procedimento.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art . 97, secondo, terzo e quarto comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/05/90.
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Vincenzo CAIANIELLO, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 25/05/90.