Sentenza n.196 del 1987

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SENTENZA N. 196

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1984 dal giudice tutelare di Napoli, sulla richiesta proposta da Mangiapia Silvia, iscritta al n. 1236 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 71- bis dell'anno 1985.

Udito nella camera di consiglio del 25 marzo 1987 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza emessa il 24 settembre 1984 (R.O. n. 1236 del 1984) il giudice tutelare di Napoli, nel procedimento promosso da Mangiapia Silvia, ha proposto, in riferimento agli artt. 2, 3, 19 e 21 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 12 della l. 22 maggio 1978 n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) nei limiti in cui tali disposizioni non consentono al giudice tutelare medesimo di sollevare obiezione di coscienza relativamente alle procedure di cui all'art. 12 ed in particolare in relazione al potere di autorizzare la minore a decidere l'interruzione della gravidanza.

Il giudice a quo, dato atto che nella specie appaiono espletati i compiti e le procedure di cui all'art. 5 della legge medesima e rilevato che - in considerazione della volontà della minore, delle ragioni da essa addotte, nonché delle risultanze della relazione della struttura socio-sanitaria - sussistono gli estremi per autorizzare l'interruzione della gravidanza, osserva che la legge in questione consente l'esercizio dell'obiezione di coscienza solo al personale sanitario od esercente le attività ausiliarie e non al giudice tutelare che pur é chiamato dalla legge a svolgere un'attività rilevante nella procedura abortiva.

Espresso "il proprio profondo e radicato convincimento, fondato su motivi scientifici, filosofici e religiosi che con l'aborto viene soppressa volontariamente la vita di un essere umano, tale dovendo essere ritenuto il concepito, riconosciuto peraltro destinatario della tutela costituzionale nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975", il giudice remittente afferma che "i propri convincimenti trovano ampia tutela negli articoli 21 e 19 della Costituzione, che garantiscono i diritti di libertà di coscienza e manifestazione del pensiero nonché il diritto di libertà religiosa, indubbiamente da annoverarsi tra i diritti inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione".

Anche a far rientrare l'attività in questione fra quelle tipiche della funzione giudiziaria, secondo il remittente le libertà sopramenzionate devono essergli riconosciute al pari di qualsiasi altro cittadino; né é dato esigere dal giudice tutelare che, per converso, rassegni le dimissioni e rinunci alle funzioni di magistrato, con conseguente compressione della libera espressione della sua personalità.

Considerato in diritto

1. - L'art. 12, secondo comma, della legge 22 maggio 1978 n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) prevede che la richiesta di interruzione, se fatta da minore, debba ottenere l'assenso di chi esercita la patria potestà o la tutela. Tuttavia, nei casi che impediscano o sconsiglino la consultazione dei predetti soggetti, ovvero se questi rifiutino l'assenso ovvero esprimano pareri tra loro difformi, il giudice tutelare competente può autorizzare la richiedente a decidere l'interruzione medesima.

Il giudice tutelare di Napoli ravvisa, in presenza di tale normativa, che ove sussista, per convincimento profondo e radicato in lui contro l'aborto, "conflitto insanabile tra la propria coscienza e gli obblighi derivantigli dalle funzioni" debba essergli accordata facoltà di sollevare obiezione di coscienza; ma tanto non é positivamente previsto, all'incontro di quanto disposto (art. 9) per il personale sanitario (od esercente le attività ausiliarie) che intervenga nelle procedure abortive.

In conseguenza, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 9 e 12 legge n. 194 del 1978, in riferimento - oltre che all'art. 3 Cost. per disparità di trattamento col personale sanitario e paramedico - agli artt. 2, 19 e 21, ritenuti complessivamente inerenti alla garanzia di tutela dei propri diritti inviolabili, sia di professione di fede religiosa che di libertà di manifestazione del pensiero.

2. - La questione non é fondata.

Occorre ricordare che la normativa dettata dalla legge in discorso conferisce rilievo alla salute psico-fisica della gestante, essendo la condizione di questa del tutto particolare (sent. n. 27 del 1975). In presenza perciò, entro i primi novanta giorni, di "serio pericolo" (art. 4) maggiore o minore di età che la donna sia, secondo parametri ben individuati e circoscritti nella legge (stato di salute, condizioni economiche, o sociali o familiari, circostanze del concepimento, ovvero previsioni di anomalie nel concepito) viene accordata facoltà alla richiedente di adire le esistenti strutture socio-sanitarie (art. 5). Gli accertamenti necessari si concludono col rilascio di un documento, di cui la gestante é resa compartecipe, abilitante alla interruzione volontaria presso una delle sedi all'uopo autorizzate.

Stante i richiamati scopi del contesto di legge, nessuna differenza v'é nelle procedure suddette - né può ovviamente esservi - tra donna maggiore o minore degli anni diciotto; tant'é che in caso di urgenza, rivelandosi cioè "grave" pericolo per la salute (connotazione ben più specifica ed incisiva del "serio" pericolo di cui già si é detto) la posizione della minorenne viene parificata in toto (art. 12, penultimo comma) con quella della gestante maggiore d'età, nel senso che non é più richiesto assenso di sorta.

In ogni altro caso occorre per la donna minore l'assenso degli aventi titolo: sostituibile da quella "autorizzazione a decidere", disposta dal giudice tutelare e di cui si é più sopra riferito.

Ancorché sui generis sia perché fatto salvo da reclamo, così come di regola previsto, invece, per effetto dell'art. 739 c.p.c., sia perché non decisorio bensì meramente attributivo della facoltà di decidere, il menzionato provvedimento rientra pur sempre nell'ambito degli schemi autorizzatori adversus volentem: unicamente di integrazione, cioè, della volontà della minorenne, per i vincoli gravanti sulla sua capacità d'agire (sent. n. 109 del 1981).

Dunque, esso rimane esterno alla procedura di riscontro, nel concreto, dei parametri previsti dal legislatore per potersi procedere all'interruzione gravidica. Ed una volta che i disposti accertamenti siansi identificati quale antefatto specifico e presupposto di carattere tecnico, al magistrato non sarebbe possibile discostarsene; intervenendo egli, come si é chiarito, nella sola generica sfera della capacità (o incapacità) del soggetto, tal quale viene a verificarsi per altre consimili fattispecie (per gli interdicendi, ad es., a sensi dell'art. 414 cod. civ.). Né potrebbe, peraltro, indurre a diversa considerazione la dizione della norma secondo cui il giudice "può" autorizzare la donna, poiché il termine é piuttosto da riferire, in particolare, alla attività sostitutiva, anche in presenza di rifiuto da parte della patria potestà.

Tali essendo i ben circoscritti e non cospicui margini di intervento del giudice tutelare (ed integre restando, comunque, le successive valutazioni della gestante abilitata essa sola a decidere) non sussiste disparità col personale sanitario, al quale soltanto - come riconosce la stessa ordinanza di remissione - competono gli accertamenti intesi alla previsione d'aborto: nessuna lesione, perciò, per difetto di omogeneità nei differenti stadi della procedura, ricorre nei confronti dell'art. 3 Cost.

3. - La questione si incentra così nell'assunto contrasto dell'art. 12 della legge n. 194 del 1978 (l'art. 9 reca soltanto, infatti, gli elementi per il precedente raffronto) con gli artt. 2, 19 e 21 Cost., venendo in rilievo la denunciata contrapposizione, nella coscienza del remittente, dei suoi convincimenti interni virtutis et vitiorum rispetto alla esistente doverosità di satisfacere officio.

Gli invocati parametri indubbiamente rivestono in fattispecie una connotazione unitaria, poiché se i principi di cui all'art. 2 assumono a valore primario i diritti inviolabili dell'uomo, le garanzie di libertà della coscienza religiosa (secondo i contenuti resi già ostensivi da questa Corte con sentenza n. 117 del 1979) e di altrettanta libertà della manifestazione del pensiero (nei suoi molteplici aspetti) restano avvinti da una complementarietà d'intenti.

A ben vedere, trattasi di comporre un potenziale conflitto tra beni parimenti protetti in assoluto: quelli presenti alla realtà interna dell'individuo, chiamato poi, per avventura, a giudicare, e quelli relativi alle esigenze essenziali dello jurisdicere (ancorché intra volentes).

Orbene, a parte i contenuti di doverosità presenti nell'art. 54, secondo comma, Cost., un indice rimarchevole, sia pure a fronte della libertà di associazione, emerge dal dettato del successivo art. 98, terzo comma, là dove tale estrinsecazione di una fondamentale libertà individuale soffre per il magistrato di limitazioni, avuto riguardo al dover questi pronunciare, tra l'altro, proprio sulle questioni familiari. É peraltro, ancora, l'inamovibilità garantita al magistrato (art. 107) che come lo pone al riparo da qualsivoglia interferenza ab externo, così comporta - salvi i casi ex artt. 51 e 52 c.p.c. di sopravvenuto difetto nella neutralità propria del decidere - l'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, interesse d'ordine generale il cui rilievo costituzionale questa Corte ha ripetutamente riconosciuto (cfr. sentenza n. 1 del 1981).

Il magistrato é tenuto ad adempiere con coscienza appunto (art. 4 legge 23.12.1946, n. 478) ai doveri inerenti al suo ministero: si ricompongono in tal modo, nella realtà oggettiva della pronuncia, e i suoi convincimenti e la norma obiettiva da applicare. É propria del giudice, invero, la valutazione, secondo il suo "prudente" apprezzamento: principio questo proceduralmente indicato, che lo induce a dover discernere - secondo una significazione già semantica della prudenza - intra virtutes et vitia. Ciò beninteso in quei moduli d'ampiezza e di limite che nelle singole fattispecie gli restano obiettivamente consentiti realizzandosi, in tal guisa, l'equilibrio nel giudicare.

E comunque a che siano evitate abnormi distorsioni all'enunciato equilibrio, fisiologico al giudice, l'ordinamento appronta, d'altronde, opportuni rimedi anche sul piano soggettivo dell'esercizio delle funzioni: alla odierna fattispecie resta estranea, tuttavia, ogni disamina del genere, interna alla strutturazione giudiziaria, alla quale pure compete - nei casi di particolare difficoltà - la possibile adozione di adeguate misure organizzative (cfr. sentenza n. 57 del 1985).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), sollevata, con riferimento agli artt. 2, 3, 19, 21 Cost. dal giudice tutelare di Napoli con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: BORZELLINO

Depositata in cancelleria il 25 maggio 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE