SENTENZA N. 1
ANNO 1974
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 15 e 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 dicembre 1970 dal pretore di Mirandola nella causa di lavoro vertente tra le organizzazioni sindacali FILTEA - CGIL, FILTA-CISL e UILA-UIL di Concordia e la ditta confezioni OLMAR, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 99 del 21 aprile 1971;
2) ordinanza emessa il 21 gennaio 1972 dal tribunale di Grosseto nella causa di lavoro vertente tra Pellegrini Nazzareno e la Camera confederale del lavoro CGIL di Grosseto, iscritta al n. 216 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 180 del 12 luglio 1972.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'8 novembre 1973 il Giudice relatore Leonetto Amadei;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - In data 14 dicembre 1970 le organizzazioni sindacali FILTEA - CGIL, FILTA - CISL e UILA - UIL di Concordia ricorrevano al pretore di Mirandola lamentando la violazione, da parte della ditta di confezioni OLMAR, dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per aver sospeso un gruppo di operaie perché svolgevano attività sindacale nell'ambito dell'azienda ed avevano partecipato ad uno sciopero indetto nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale.
Il 18 dello stesso mese, il pretore convocava presso di sé le parti e svolgeva una sommaria istruttoria per meglio chiarire i termini della questione.
A conclusione dell'incontro, i titolari della ditta OLMAR chiedevano in via pregiudiziale che il pretore respingesse il ricorso in quanto, al momento della sua presentazione, le operaie erano state riassunte al lavoro e, in via subordinata, perché la sospensione dal lavoro era stata determinata da necessità aziendali, data la momentanea mancanza di materia prima.
I ricorrenti insistevano nel ricorso stesso chiedendo che il pretore provvedesse, con decreto, a rimuovere gli effetti della condotta antisindacale, non limitandosi l'art. 28 della legge invocata alla presa in considerazione della sola condotta discriminatoria della sospensione.
Il pretore si riservava di decidere.
Il pretore, a scioglimento della riserva, in data 23 dicembre emetteva ordinanza sollevando la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 10, 24, 35, 40, 41, 48, 49, 50, 54, 55 e segg. della Costituzione, nonché dell'art. 28, in relazione agli artt. 54, 101, 134 e 136 della stessa Costituzione.
L'ordinanza, partendo dalla considerazione che l'art. 15 della legge impugnata, con l'usare l'espressione "sciopero", senza che ad essa sia fatta seguire alcuna precisazione, parrebbe riferirsi allo sciopero in senso illimitato, ossia a qualsiasi forma di sciopero, qualunque ne siano i fini e le modalità, ravvisa, in una siffatta concezione, un contrasto:
a) con l'art. 40 Cost., il quale presupporrebbe uno sciopero disciplinato e legato, anche per la sua inserzione nel titolo "rapporti economici", alle sole rivendicazioni economiche o a rivendicazioni ad esse correlative;
b) con l'art. 1 Cost. e, per i collegamenti che tale articolo determina, con gli artt. 48, 49, 50, 54 e con quelli che dall'art. 55 in poi fissano l'ordinamento della Repubblica, in quanto, consentendosi anche lo sciopero politico, si consentirebbe la sostituzione alla volontà di tutto il popolo, titolare, nel suo aspetto unitario, della sovranità interna, la volontà di una frazione di esso o, comunque, che la sovranità venga esercitata in forme diverse da quelle previste dalla parte seconda della Costituzione stessa;
c) con l'art. 10 Cost., poiché l'illimitatezza dell'esercizio del diritto e la sua articolazione in forme sleali e abnormi, si risolverebbe in una violazione dei principi universalmente riconosciuti in una ordinata società civile e che fanno perno sulla buona fede e sulla correttezza;
d) con gli artt. 2, 3, 4, 35 e 41 Cost., che garantiscono, rispettivamente: la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo; la uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge; il diritto - dovere per ogni cittadino di svolgere un'attività o una funzione secondo le proprie possibilità e la propria scelta; il lavoro, in tutte le sue forme e applicazioni e nella sua funzione sociale di strumento di produzione di beni di consumo, e la libera iniziativa economica privata;
e) con l'art. 24 Cost., poiché nella mancanza di ogni distinzione limitativa, pone l'imprenditore nella condizione di non poter ricorrere al giudice per la tutela dei suoi diritti che, oltretutto, egli non sa "se e in che misura esistano".
La non manifesta infondatezza della questione di illegittimità dell'art. 15 della legge, coinvolge, ad avviso del pretore, anche l'art. 28 della stessa legge, in quanto impone l'applicazione di una norma viziata d'incostituzionalità. L'art. 28 é ritenuto, specificatamente in contrasto con:
a) l'art. 54 Cost., che impone a tutti i cittadini la fedeltà alla Repubblica e l'osservanza della Costituzione e delle leggi;
b) gli artt. 134 e 136 Cost., i quali attuerebbero una graduazione tra le fonti del diritto, assicurando una posizione di preminenza alle norme costituzionali.
Infine, si sostiene nell'ordinanza che, indipendentemente dal riconoscimento o meno della incostituzionalità dell'art. 15 della legge, l'art. 28 violerebbe pur sempre l'art. 101 Cost., in quanto la mancata caratterizzazione giuridica "dell'istituto sciopero" creerebbe un vero e proprio vuoto legislativo che non può essere colmato dal giudice in sede interpretativa.
Nessuna delle parti si é costituita nel giudizio davanti alla Corte.
É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha presentato le sue deduzioni.
L'avvocatura dello Stato confuta l'impostazione di carattere generale sulla quale farebbe perno l'ordinanza del pretore di Mirandola, e rappresentata dall'assunto che il difetto di una regolamentazione del diritto di sciopero renderebbe legittimo inquadrare in esso ogni forma di astensione dal lavoro, qualunque ne siano le modalità e i fini.
A riguardo, l'Avvocatura obietta che il nostro ordinamento giuridico conosce moltissimi istituti che sono enunciati e non pure definiti dal legislatore e che detti istituti, attraverso la dottrina e la giurisprudenza, hanno acquistato dei contenuti e dei limiti ben precisi. La stessa situazione si é verificata, anche, per quanto attiene al diritto di sciopero: la Corte costituzionale in numerose sentenze avrebbe determinato i limiti di legittimità di tale diritto sì che esso avrebbe assunto dei connotati ben determinati che, con l'evolversi della giurisprudenza, vanno via via meglio delineandosi.
Infatti, sostiene l'Avvocatura, la Corte, pur prendendo atto della mancanza, allo stato attuale della legislazione, di una normativa intesa a regolare l'esercizio del diritto di sciopero, ne avrebbe fissati i limiti oggettivi e i limiti soggettivi con le sentenze ricordate nella stessa ordinanza.
Conseguirebbe, da tutto ciò, che il contrasto tra le norme della legge 1970, n. 300 e le norme costituzionali richiamate dall'ordinanza, non sarebbe tale. In conclusione, le argomentazioni sviluppate sarebbero dirette contro l'art. 40 della Costituzione e, pertanto, rivelatrici di un indirizzo politico in antitesi con l'interpretazione che di detto articolo hanno dato la Corte costituzionale e il legislatore ordinario, che ha recepito nell'ordinamento vigente il concetto di sciopero.
2. - Il 7 aprile 1971 undici operai, dipendenti della ditta Pellegrini Nazzareno, corrente in Grosseto, si astenevano, dopo preavviso, dal lavoro in adesione allo sciopero indetto dalle confederazioni sindacali nel quadro delle lotte dei lavoratori per stimolare la politica delle riforme.
Nella stessa giornata a ciascuno degli undici operai veniva inviata dalla ditta lettera raccomandata di sospensione dal lavoro, a partire dal giorno successivo, motivata dalla situazione di crisi creatasi nel settore operativo dell'azienda (commercio di pneumatici per autoveicoli).
La Camera confederale interveniva tempestivamente per ottenere la revoca della sospensione. Atteso, però, l'esito negativo dell'intervento, svolto anche attraverso l'ufficio provinciale del lavoro, ricorreva al pretore di Grosseto richiedendo, in applicazione dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), l'emissione di decreto di immediata riassunzione degli operai, dovendosi considerare la sospensione come atto di ritorsione alla loro partecipazione allo sciopero.
In data 28 maggio 1971 il pretore, accogliendo il ricorso, ingiungeva al Pellegrini di riassumere gli operai sospesi.
Il Pellegrini proponeva, nei termini, opposizione al decreto del pretore, chiedendo al tribunale, tra l'altro, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970.
Il tribunale, in data 21 gennaio 1972, emetteva ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, dichiarando non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento agli artt. 40, 41, 49 e 71 della Costituzione, nella parte in cui detto articolo di legge, apprestando e disciplinando mezzi e provvedimenti di repressione della condotta antisciopero del datore di lavoro, non limita detta repressione ai soli casi di astensione dal lavoro per fini economici o, in qualche modo, riferibili ai rapporti economici.
L'ordinanza, premesso che il Pellegrini effettivamente sospese gli operai per avere partecipato allo sciopero e che, in relazione all'oggetto dello stesso (giornata di lotta per le riforme), esso dovesse considerarsi di natura politica, pone in forse, proprio per questa valutazione, la costituzionalità dell'art. 28 dello statuto dei lavoratori data la sua formulazione generica e illimitata.
A riguardo, per inciso, é da rilevare che il documento unitario confederale pone, come causa giustificativa dello sciopero, l'esito non soddisfacente dell'incontro tra le delegazioni sindacali e il Governo sul tema delle riforme sociali e, in particolare, per la casa e la sanità.
Nella motivazione, l'ordinanza si riporta alle sentenze della Corte n. 46 del 1958, n. 29 del 1960, n. 123 del 1962, n. 141 del 1967 e n. 31 del 1969, dalle quali si desumerebbe che il diritto di sciopero, garantito dall'art. 40 della Costituzione, sarebbe solo quello che si concreta nell'astensione dal lavoro di più lavoratori subordinati ai fini della tutela dei loro interessi economici.
L'illegittimità costituzionale dell'art. 28, in riferimento agli artt. 41, 49 e 71 della Costituzione, sussisterebbe in quanto lo sciopero per altri fini che non siano quelli sopra enunciati, concretizzerebbe una lesione della libera iniziativa economica, una sostituzione dei sindacati ai partiti politici quali strumenti di formazione e di determinazione della politica nazionale, un'indebita pressione sugli organi, enti e soggetti cui compete l'iniziativa legislativa.
Non vi é stata costituzione delle parti né atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze del pretore di Mirandola e del tribunale di Grosseto propongono questioni comuni che investono gli artt. 15 e 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori) e,
pertanto, i relativi giudizi, discussi congiuntamente nell'udienza pubblica, possono essere riuniti e decisi con una stessa sentenza.
2. - Il pretore di Mirandola censura, sotto i molteplici profili costituzionali esposti in narrativa, l'art. 15 della legge su richiamata nella parte in cui rende nullo "ogni atto diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale, ovvero alla sua partecipazione ad uno sciopero", per non essersi il legislatore dato carico di determinare i limiti di legittimità del diritto di sciopero riconosciuto dall'art. 40 della Costituzione.
La mancata determinazione dei limiti oggettivi - e soggettivi del diritto renderebbe legittimo, per il proponente, qualsiasi forma di sciopero, e creerebbe nel contempo, un vuoto legislativo non suscettibile di essere colmato in sede interpretativa.
Da una siffatta carenza sorgerebbe, anche, la illegittimità costituzionale dell'art. 28 della stessa legge, che impone al giudice di ordinare al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo, non precisato nei suoi aspetti sostanziali attraverso la caratterizzazione del diritto di sciopero previsto dall'art. 15 della legge.
La censura mossa dal tribunale di Grosseto al solo art. 28 della legge, in riferimento agli articoli della Costituzione pure precisati in narrativa, ricalca i motivi di base della ordinanza del pretore di Mirandola.
Le questioni sollevate non sono fondate.
3. - Prima di affrontare il merito delle questioni di legittimità costituzionale proposte dalle due ordinanze, giova ricordare che questa Corte ha già affermato - sentenza 123 del 1962 - che il diritto di sciopero é operante nell'ordinamento indipendentemente dall'emanazione di quelle norme legislative che, in base al disposto dell'art. 40 della Costituzione, valgano a segnarne legittimamente limiti e modalità. La Corte ha tuttavia ritenuto che, nonostante tale carenza, lo sciopero già soggiace ad alcune limitazioni, sia a quelle che si desumono in modo necessario dalla stessa configurazione dell'istituto così come fu accolto dalla Costituzione (astensione dal lavoro di una pluralità di lavoratori a difesa di interessi che siano ad essi comuni), sia a quelle che derivano dalla esigenza di salvaguardare interessi che, a loro volta, trovino protezione in fondamentali principi costituzionali. La Corte ha altresì chiarito che lo sciopero é legittimo non solo quando sia volto a finalità retributive ma anche quando, più in generale, esso venga proclamato "in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle norme sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione" (sentenza n. 123 del 1962e n. 141 del 1967), restando escluso dalla tutela costituzionale quello sciopero che, senza alcun collegamento
con i suddetti interessi, venga effettuato allo scopo di incidere "sull'indirizzo generale del Governo": il che significa che il diritto di sciopero, mentre da un canto non può comprendere astensioni dal lavoro proclamate in funzione meramente politica, legittimamente viene esercitato quando, pur non inerendo strettamente a rivendicazioni contrattuali, sia attuato in funzione dell'interesse dei
lavoratori alla realizzazione di quel vario complesso di beni che trovino riconoscimento e tutela nella disciplina costituzionale dei "rapporti economici".
4. - Sulla base dei criteri generali di valutazione, tratti dalla interpretazione sistematica data da questa Corte, con le sentenze richiamate nelle ordinanze, all'art. 40 della Costituzione, ben avrebbero potuto i giudici di merito procedere alla applicazione dei criteri stessi al caso concreto e decidere circa la loro aderenza o meno alla situazione di fatto accertata.
I giudici che hanno proposto la questione hanno peraltro ritenuto di non poter decidere senza la risoluzione delle perplessità costituzionali, che starebbero alla base del sollevato intervento di questa Corte, in ordine alla disciplina giuridica contenuta nella legge n. 300 del 1970, successiva alle ricordate sentenze, diretta a garantire e tutelare l'esercizio del diritto contemplato dall'art. 40 della Costituzione.
Sta di fatto che lo statuto nulla toglie e nulla aggiunge alla enunciazione dei criteri generali fissati dalla Corte; esso infatti, non ha inteso sciogliere, in qualche modo, la riserva di legge contenuta nell'art. 40 della Costituzione, ma solo assicurare una speciale tutela giuridica, sul piano dei rapporti lavoratore-datore di lavoro, all'esercizio del diritto di sciopero, nella misura in cui esso si appalesi legittimo, di fronte ad atti di ritorsione dell'imprenditore conseguenti al concreto esercizio dello stesso. In sostanza, il presupposto sul quale poggiano le due ordinanze - la mancanza, nella stessa legge contestata, della specificazione dei limiti all'esercizio del diritto di sciopero - non sorge ex novo per effetto della legge stessa; né essa é tale, per il suo contenuto, da riprospettare il problema di cui trattasi in forma autonoma e diversa per aver dato, in qualche modo, al diritto di sciopero contenuti diversi da quelli desumibili dalla Costituzione secondo i principi enunciati nella giurisprudenza di questa Corte.
Da siffatte considerazioni é dato trarre una ragionevole conclusiva proposizione: se i fini, per i quali lo sciopero é stato promosso e attuato, si inquadrano, direttamente o indirettamente, sul piano degli interessi economici di ordine generale dei lavoratori, desumibili senz'altro dal titolo terzo, non può aprioristicamente essere disconosciuto il ricorso all'autotutela.
Compete, comunque, ai giudici di merito, in relazione ai casi concreti sottoposti al loro giudizio (partecipazione ad uno sciopero indetto dalle confederazioni sindacali per ragioni contrattuali, nel primo caso, per stimolare la politica delle riforme, con diretto riferimento a quelle relative alla casa e all'assistenza sanitaria, nel secondo caso), stabilire se gli elementi di valutazione
su espressi si adattino o meno ai casi stessi, ossia se essi incidano nell'ambito di quel ricordato complesso di diritti e di interessi che trovano nel titolo terzo della parte prima della Costituzione una loro organica e armonica collocazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 15 e 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), proposte con le ordinanze in epigrafe, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 10, 24, 35, 40, 41, 48, 49, 50, 54 e seguenti, 71, 101, 134, 136 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 1974.
Francesco Paolo BONIFACIO - Giuseppe VERZÌ - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo Michele TRIMARCHI – Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI.
Luigi BROSIO - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 14 gennaio 1974.