SENTENZA N. 191
ANNO 1970
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 527, 528 e 529 del codice penale, promossi:
1 ) con quattro ordinanze emesse il 27 gennaio 1969 dal tribunale di Monza in altrettanti procedimenti penali a carico di Battistini Attilio, iscritte ai nn. 136,137,138 e 139 del registro ordinanze 1969 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 del 21 maggio 1969;
2) con ordinanza emessa il 5 marzo 1969 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Martorelli Norma e Fabrizi Osvaldo, iscritta al n. 180 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 18 giugno 1969.
Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 novembre 1970 il Giudice relatore Paolo Rossi;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di quattro procedimenti a carico di Battistini Attilio, imputato del delitto di pubblicazioni oscene, quale direttore responsabile della rivista "Men", il tribunale di Monza ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 528 e 529 del codice penale, con quattro ordinanze di identico contenuto.
Il giudice a quo, premesso che il principio di legalità ha assunto rilievo costituzionale in virtù del secondo comma dell'art. 25 della Carta, afferma che le norme impugnate non indicano oggettivamente gli elementi costitutivi del reato, giacché l'art. 528 del codice penale costituisce una norma in bianco che non trova integrazione in altra norma di legge, per il carattere fondamentalmente tautologico dell'art. 529 del codice penale.
Si é costituito innanzi alla Corte costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, mediante atto depositato il 3 aprile 1969, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.
L'Avvocatura dello Stato contesta infatti l'asserita illegittimità di una norma la cui interpretazione comporti un accertamento di elementi richiamati dalla norma medesima; rileva poi come sia la stessa legge penale - mediante l'art.529 c.p.a dare la definizione degli atti ed oggetti osceni, qualificandoli come quelli che offendono, secondo il comune sentimento, il pudore.
2. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Martorelli Norma e Fabrizi Osvaldo, imputati del delitto di atti osceni per essersi congiunti carnalmente in luogo esposto al pubblico, il pretore di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 527 e 529 del codice penale, in riferimento al principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
Nell'ordinanza di rimessione si afferma che la definizione contenuta nell'art. 529 del codice penale avrebbe carattere tautologico talché la punizione degli atti osceni realizzerebbe una previsione normativa troppo generica, variamente valutabile a seconda della diversa sensibilità del giudicante, e quindi in contrasto con il principio costituzionale secondo cui "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso" (art. 25, secondo comma, della Costituzione).
Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, mediante atto depositato il 28 giugno 1969, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.
L'Avvocatura dello Stato svolge un duplice ordine di considerazioni.
Rileva innanzitutto che dagli indiscutibili caratteri della generalità e della astrattezza, propri della norma giuridica penale, consegue necessariamente che il legislatore, nella descrizione della fattispecie, si attenga agli elementi costanti e generali conformi ai caratteri suddetti.
In secondo luogo la difesa dello Stato nega il carattere tautologico dell'art. 529 c.p. osservando come il riferimento al "comune sentimento" costituisca elemento idoneo alla migliore determinazione dell'offesa al pudore, discriminando la condotta criminosa da quella lecita.
Considerato in diritto
I giudizi, avendo ad oggetto un'unica questione, pur prospettata con riferimento a due distinte previsioni normative, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
La questione sollevata investe la corrispondenza delle norme che puniscono gli atti e le manifestazioni oscene al principio di legalità garantito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
Si assume che gli elementi costitutivi dei reati previsti dagli artt. 527 e 528 del codice penale non siano adeguatamente precisati, nonostante la specificazione contenuta nel successivo art. 529, secondo cui si reputano osceni gli atti e gli oggetti che secondo il comune sentimento offendono il pudore.
Occorre, anzitutto, ricordare che questa Corte ha riconosciuto (sentenze n. 27 del 1961, n. 120 del 1963, n. 44 del 1964, n. 7 del 1965) che il principio di legalità si attua non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie, ma, in talune ipotesi, con l'uso di espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta lo abbia, o meno, violato.
Quando la legge penale prevede la tutela di beni immateriali (come il decoro, l'onore, la reputazione, il prestigio, la decenza ed altri) il ricorso a nozioni proprie del linguaggio e dell'intelligenza comuni, é inevitabile, né si é pensato, finora, a lamentare in proposito la violazione del principio di legalità.
Per quanto attiene, in particolare, alla difesa del pudore, il rinvio alla morale, al buon costume, e nominativamente al "comune sentimento" (art. 529 c.p.) é legittimo, trattandosi di concetti diffusi e generalmente compresi, sebbene non suscettibili di una categorica definizione.
La Costituzione stessa usa locuzioni come "senso di umanità", "buon costume", "dignità sociale", né si può dire che le relative norme manchino di un identificabile valore positivo.
Il costume varia notevolmente secondo le condizioni storiche d'ambiente e di cultura, ma non vi é momento in cui il cittadino, e tanto più il giudice, non siano in grado di valutare quali comportamenti debbano considerarsi osceni secondo il comune senso del pudore, nel tempo e nelle circostanze in cui essi si realizzano.
Gli artt. 527, 528 e 529 del codice penale rispettano, quindi, il principio di legalità costituzionalmente garantito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 527, 528 e 529 del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe indicate.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1970.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 1970.