Sentenza n. 168 del 1963

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SENTENZA N. 168

ANNO 1963

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

Prof. GASPAPE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 24 marzo 1958, n. 195 (istitutiva del Consiglio superiore della Magistratura), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 15 ottobre 1962 dal Pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra Franzoni Ettore ed altri e il Comune di S. Giorgio di Piano, iscritta al n. 186 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 313 del 7 dicembre 1962;

2) ordinanza emessa il 1 febbraio 1963 dal Pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra il Comune di Minerbio e Tugnoli Angelo, iscritta al n. 45 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 60 del 2 marzo 1963;

3) ordinanza emessa il 22 luglio 1963 dal Pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra Brizzi Clementina e Strazzari Cesare, iscritta al n. 167 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 231 del 31 agosto 1963.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Minerbio e di Strazzari Cesare;

udita nell'udienza pubblica del 23 ottobre 1963 la relazione del Giudice Antonio Manca;

uditi gli avvocati Giuseppe Maranini e Gian Luigi Gualandi, per il Comune di Minerbio, gli avvocati Giuseppe Maranini, Lelio Basso e Leopoldo Piccardi, per Strazzari Cesare, e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

Nel corso di tre giudizi civili, il Pretore di Bologna, con separate ordinanze, accogliendo l'eccezione prospettata dalle parti ha sollevato, in via principale, la questione di legittimità costituzionale della legge 24 marzo 1958, n. 195 (istitutiva del Consiglio superiore della Magistratura) e, in subordine, di alcune disposizioni della legge stessa, avendo ritenuto il carattere di pregiudizialità delle questioni anzidette, rispetto ad altre eccezioni che erano state dedotte nel giudizio.

Per quanto attiene alla rilevanza ai fini della definizione delle tre controversie (circa la motivazione della quale l'Avvocatura dello Stato esprime qualche dubbio), nelle ordinanze e, con maggiore precisazione, in quella n. 167 del 1963, si osserva quanto segue.

Il magistrato, davanti al quale pendono le tre cause, sarebbe stato destinato a Bologna, a sua domanda, con funzioni di Pretore, con decreto del Presidente della Repubblica, emanato in seguito a deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura. Deliberazione che, peraltro, sarebbe stata emanata dal predetto organo in base a disposizioni legislative, delle quali sarebbe dubbia la legittimità costituzionale.

Non sarebbe sufficiente, si osserva nelle ordinanze, per la legittima costituzione del giudice, la esistenza dell'atto formale di assegnazione del magistrato ad un determinato ufficio, occorrendo altresì accertare la validità ed efficacia dell'atto stesso, in quanto dovrebbe essere emanato in base a disposizioni conformi alla Costituzione. L'eventuale illegittimità quindi delle disposizioni stesse si riflette necessariamente sulla regolare costituzione dell'organo giudiziario; e tale vizio, sia per l'art. 158 del Codice processuale civile, sia per l'art. 185, n. 1, del Codice di procedura penale, produrrebbe la nullità, rilevabile anche di ufficio, di tutti i provvedimenti emessi dal magistrato.

Le questioni sollevate con le ordinanze, possono così riassumersi:

1) Illegittimità dell'intera legge del 24 marzo 1958 per contrasto con gli artt. 72, quarto comma, e 105 della Costituzione.

Il Pretore osserva che, l'anzidetta disposizione, avrebbe contenuto diverso da quello cui si riferisce l'art. 138 della Costituzione. Di guisa che la frase "materia costituzionale" riguarderebbe ogni disegno di legge che abbia riferimento ad un organo costituzionale, o all'attività da esplicarsi dal medesimo, ovvero i disegni di legge che abbiano per oggetto norme attinenti alla struttura fondamentale dello Stato. E poiché il Consiglio superiore della Magistratura, per la sua struttura e per le funzioni, sarebbe compreso fra gli organi costituzionali, ne deriverebbe che la legge del 1958 di attuazione delle norme della Costituzione, avrebbe per oggetto materia costituzionale, ai sensi del quarto comma dell'art. 72. Il quale sarebbe stato violato perché la predetta legge sarebbe stata approvata dalla Camera dei Deputati con la procedura decentrata e cioé dalla Commissione di giustizia in sede deliberante, e non dall'Assemblea nelle forme ordinarie.

2) Illegittimità dell'art. 23, primo comma, della citata legge del 1958, per contrasto con gli artt. 104, primo e quarto comma, e 107, terzo comma, della Costituzione. Questa avrebbe riconosciuto ai magistrati una posizione di eguaglianza, stabilendo che essi si distinguono soltanto per le funzioni esercitate. I componenti del Consiglio superiore quindi dovrebbero essere eletti in egual numero per ciascuna categoria di magistrati attribuendosi a ciascuna, in seno all'organo, parità di rappresentanza. La disposizione impugnata, invece, avrebbe violato tale principio, in quanto i magistrati di cassazione eleggono sei componenti del Consiglio superiore nella categoria alla quale appartengono, ivi compresi due magistrati con ufficio direttivo, mentre i magistrati di appello e di tribunale, più numerosi, eleggono rispettivamente soltanto quattro componenti per categoria.

3) Sarebbe altresì illegittimo il terzo comma del citato art. 23, perché i magistrati partecipano all'elezione, votando esclusivamente per i componenti della propria categoria. Donde il contrasto con i principi contenuti negli artt. 104, quarto comma, 105 e 107 e nell'art. 48 della Costituzione; mentre nel Consiglio superiore la Magistratura dovrebbe essere rappresentata nel suo complesso e non già in relazione alle diverse categorie.

4) Illegittimità del quarto comma del ricordato art. 23, per contrasto con l'art. 104, quarto comma, della Costituzione; il quale dispone che i componenti magistrati del Consiglio superiore sono eletti da tutti i magistrati. La disposizione impugnata invece esclude dall'elettorato attivo gli uditori, nonostante che anche essi facciano parte dell'ordine giudiziario ed esercitino le relative funzioni.

5) Illegittimità dell'art. 11, primo comma, della legge citata che limiterebbe, o addirittura, potrebbe escludere l'attività del Consiglio superiore, ledendone l'autonomia, e ne condizionerebbe l'attività alla richiesta del Ministro per la giustizia. Il quale quindi continuerebbe ad esercitare, sia pure indirettamente, un'ingerenza sullo stato giuridico dei magistrati. Donde il contrasto con gli artt. 104, primo comma, 105 e 110 della Costituzione.

6) Sarebbe illegittima anche la disposizione dell'art. 17 (prima parte del primo comma) della legge impugnata, in quanto escluderebbe che le deliberazioni del Consiglio superiore abbiano efficacia esterna, e stabilisce che i provvedimenti riguardanti i magistrati, siano adottati con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro della giustizia, ovvero, in alcuni casi, con decreto ministeriale; decreti soggetti al controllo della Corte dei Conti.

Ne deriverebbe, secondo il Pretore, un contrasto con la posizione di organo costituzionale riconosciuto dalla Costituzione al Consiglio superiore e, in particolare, con l'art. 105, che stabilisce le competenze del Consiglio stesso.

Le tre ordinanze, dopo le prescritte notificazioni e comunicazioni sono state pubblicate rispettivamente nella Gazzetta Ufficiale del 7 dicembre 1962, n. 313, del 2 marzo 1963, n. 60, e 31 agosto 1963, n. 231.

Nelle tre cause é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le deduzioni il 23 novembre 1962, il 20 marzo 1963 e il 17 agosto 1963.

Si sono altresì costituiti nell'interesse delle parti gli avvocati Giuseppe Maranini, Gian Luigi Gualandi, Lelio Basso, Leopoldo Piccardi e Alberto Predieri, depositando le deduzioni il 22 marzo 1963 e il 20 settembre 1963, nelle quali si condividono i rilievi contenuti nelle ordinanze di rinvio.

Per quanto attiene all'interpretazione del quarto comma dell'art. 72, nelle deduzioni si assume che la frase "disegni di legge in materia costituzionale", dovrebbe essere intesa in un significato più ampio, dell'altra "disegni di leggi costituzionali". Di guisa che la disposizione costituzionale esigerebbe l'approvazione con la procedura normale, non soltanto per le leggi formalmente costituzionali, ma altresì per quelle altre che sarebbero costituzionali per il loro contenuto, come sarebbe anche dimostrato dall'accostamento, nella disposizione stessa, della materia costituzionale alle leggi elettorali, che riguarderebbero anche esse materia di analoga natura.

Nella specie invece la procedura decentrata, seguita dalla Camera dei Deputati, inammissibile per le leggi di contenuto obbiettivamente costituzionale, inciderebbe sulla legittimità dell'intera legge del 24 marzo 1958, di attuazione delle norme costituzionali, sottratta, in tal modo, alle garanzie di pubblicità da osservarsi per l'approvazione nella forma ordinaria.

Si osserva poi che il contenuto della detta legge contrasterebbe con gli scopi che le norme costituzionali avrebbero inteso conseguire; vale a dire la sottrazione del giudice ordinario a ogni dipendenza gerarchica, sia nei confronti con le altre giurisdizioni, sia in confronto del potere politico, dato che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge e si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (artt. 101, secondo comma, e 107, terzo comma, della Costituzione).

La legge del 1958 invece, nel suo complesso e nelle sue disposizioni essenziali, avrebbe avuto di mira di conservare, consolidandola, una struttura gerarchica sia all'interno, dando la prevalenza alla Cassazione, sia nei confronti del potere esecutivo.

Sarebbe stata alterata, infatti, l'espressione della volontà elettorale dell'intero ordine giudiziario, conferendo ai magistrati il diritto di votazione soltanto per la propria categoria, attribuendo, alle diverse categorie, un'efficacia differenziata, escludendo dal voto gli uditori giudiziari, ed attribuendo altresì al Consiglio superiore la facoltà di nominare commissioni con prevalente intervento dei magistrati di cassazione (artt. 3, 11 e 13).

Secondo quanto si assume, inoltre, l'attività del Consiglio superiore potrebbe svolgersi solo in base alla richiesta del Ministro per la giustizia, o mediante la procedura del concerto (articolo 11, terzo comma). Si aggiunge inoltre che il Consiglio superiore, nel sistema della legge del 1958, anche dal punto di vista formale, sarebbe declassato da organo costituzionale ad organo amministrativo, in quanto i provvedimenti, privi di esterna efficacia, si concreterebbero in un decreto di carattere amministrativo, soggetto ad impugnazione davanti alla giurisdizione amministrativa; e, per la parte disciplinare, ad un organo della Magistratura ordinaria. Ne deriverebbe che l'attività dell'organo anzidetto risulterebbe condizionata alla volontà di altri organi e poteri, e, tra l'altro, alla preminenza della Corte di cassazione, con lesione dell'autonomia dello stesso Consiglio superiore e dell'ordine giudiziario.

La difesa dello Stato rimettendosi peraltro, su questo punto, alle decisioni della Corte, accenna preliminarmente a qualche dubbio circa la giustificazione che, della rilevanza, é stata data nelle ordinanze di rinvio.

Il dubbio é prospettato sotto un duplice aspetto.

Si osserva che il trasferimento del magistrato ad una determinata sede, anche se illegittimamente disposto, non importerebbe la irregolarità della costituzione dell'organo giudiziario e quindi l'invalidazione dei provvedimenti da questo emanati ai sensi dell'art. 158 del Codice processuale civile; essendo sufficiente che il giudice appartenga all'ordine giudiziario e che sia stato effettivamente investito dell'ufficio, come si sarebbe verificato nella specie.

Sotto altro aspetto, pone il quesito se possono ritenersi invalidati gli atti emanati da un corpo collegiale ritenuto insostituibile nell'ordinamento, quando il corpo stesso, o alcuno dei componenti, siano stati eletti in base a norme eventualmente dichiarate costituzionalmente illegittime.

Per quanto attiene alle critiche formulate circa la legge impugnata, l'Avvocatura dello Stato, in sostanza, accede all'opinione che il termine "disegni di legge in materia costituzionale", dei quali si parla nel quarto comma dell'art. 72, sarebbe l'esatto equivalente di leggi di "revisione della Costituzione ed altre leggi costituzionali" in senso formale, di cui all'art. 138. Ed aggiunge che, dato il tipo della nostra Costituzione, che richiede una procedura qualificata per l'emanazione delle norme che attengono alla struttura fondamentale dello Stato e per la loro revisione, al legislatore ordinario sarebbe riservato un campo limitato, in riferimento alla composizione e all'attività degli organi costituzionalmente qualificati; quello cioé di emanare disposizioni di dettaglio, le quali non potrebbero, in alcun modo, modificare la struttura degli organi contemplati dalla Costituzione. Con la conseguenza, ai fini dell'attuale controversia, che, per queste ultime leggi, non dovrebbe applicarsi alcuna forma o procedura particolare.

Riguardo al rilievo che la disposizione contenuta nell'articolo 72 risulterebbe superflua se si attribuisse alla medesima un significato sostanzialmente non diverso da quello contenuto nell'art. 138, la difesa dello Stato fa osservare che la speciale maggioranza preveduta da questa norma, riguarderebbe la seconda votazione da parte di ciascuna Camera; mentre per la prima votazione, l'art. 72, quarto comma, precluderebbe la possibilità dell'approvazione decentrata.

Relativamente alle questioni concernenti il contenuto della legge impugnata, l'Avvocatura dello Stato rileva quanto segue.

La seconda questione riguardante l'art. 23, primo comma, non sarebbe in contrasto con gli artt. 104 e 107 della Costituzione, in quanto l'art. 104 richiederebbe soltanto che, nel Consiglio superiore, debba essere rappresentata ciascuna categoria, nessuna esclusa. Né sarebbe incompatibile col principio dell'autonomia che un numero maggiore dei componenti sia riservato ai magistrati di Corte di cassazione, data la loro qualificazione, come sarebbe confermato dal fatto che nel terzo comma dell'art. 104, si stabilisce che ne fanno parte di diritto il primo presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione.

Quanto alla terza questione riguardante il terzo comma dell'art. 23 della legge del 1958, secondo l'Avvocatura, la limitazione del voto alla categoria alla quale il magistrato appartiene, non sarebbe in contrasto né con l'art. 104, né con l'art. 107 della Carta costituzionale.

La disposizione sarebbe giustificata da considerazioni di ordine funzionale, affinché il magistrato sia posto in grado di effettuare una scelta più approfondita della persona da eleggere. Ed aggiunge, d'altra parte, che ogni magistrato, una volta eletto, dovrà curare gli interessi di tutto l'ordine e non già soltanto della categoria alla quale appartiene.

Non sussisterebbe neppure un contrasto con l'art. 48 della Costituzione, il quale riguarderebbe soltanto il divieto del voto plurimo e del voto multiplo.

Circa la quarta questione relativa all'art. 23, quarto comma, che esclude gli uditori dell'elettorato attivo, si obietta che la Costituzione ha demandato al legislatore ordinario di dettare le norme dell'ordinamento giudiziario e quindi di stabilire, in concreto, quale sarebbe la portata dell'art. 104, comma quarto. Posto ciò, nell'esclusione degli uditori dall'elettorato attivo, non sarebbe ravvisabile una questione di costituzionalità, a parte il considerare che la disposizione impugnata non ha neppure derogato all'ordinamento giudiziario, in quanto gli uditori per la loro particolare posizione e per le norme che li disciplinano, sono considerati come magistrati in prova; mentre il citato articolo della Costituzione si riferirebbe ai magistrati che già fanno parte stabilmente dell'ordine giudiziario.

Sulla questione sollevata in ordine all'art. 11, primo comma, della legge del 1958, l'Avvocatura osserva che tale richiesta non costituirebbe una limitazione dei poteri attribuiti al Consiglio, che conserverebbe piena autonomia nelle deliberazioni.

Osserva, d'altra parte, che il diritto d'iniziativa, riservato al Ministro, in ordine ai provvedimenti relativi allo status dei magistrati deriverebbe dall'art. 110 della Costituzione, che deferirebbe al Ministro la competenza per tutto ciò che riguarda l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. E ciò logicamente, in specie per quanto attiene alla destinazione dei magistrati alle varie sedi (che é il caso che ha dato luogo alle attuali controversie), perché soltanto il Ministro potrebbe valutare, con conoscenza della situazione, tutti gli elementi che possono giustificare il provvedimento, salvo ovviamente la piena libertà del Consiglio di adottare le deliberazioni che ritenesse più opportune. Si aggiunge, in proposito, che la compatibilità del diritto di iniziativa con l'autonomia del Consiglio superiore risulterebbe comprovata, non soltanto dalla facoltà concessa al Ministro dal secondo, comma dell'art. 107 della Costituzione di promuovere l'azione disciplinare, ma altresì dal coordinamento con l'art. 97, secondo, il quale il Ministro resta sempre responsabile di fronte al Parlamento del funzionamento della giustizia.

Circa la questione relativa all'art. 17 (prima parte del primo comma) della legge impugnata, relativa alla forma concreta dei provvedimenti riguardanti i magistrati la difesa dello Stato premette che la questione sarebbe irrilevante nella specie perché il decreto di trasferimento del magistrato sarebbe stato registrato alla Corte dei conti e non sarebbe stato impugnata.

Rileva comunque che le attribuzioni costituzionalmente deferite al Consiglio superiore, riguarderebbero la struttura e le funzioni attribuite all'ordine giudiziario, cioé lo status dei magistrati, ma lascerebbero alla legge ordinaria tutta l'organizzazione finanziaria riguardante l'ordine stesso; organizzazione che, del resto, non costituirebbe una caratteristica essenziale dell'autonomia dei vari poteri dello Stato, e, in particolare, dell'autogoverno della Magistratura.

Un tale problema sarebbe stato risolto dalla legge impugnata salvaguardando l'autonomia, ma lasciando in vigore il controllo sulla gestione finanziaria, sottoposto alla Corte dei conti ai sensi degli artt. 81 e 100 della Costituzione. Ciò spiegherebbe come le deliberazioni del Consiglio superiore assumerebbero efficacia esterna attraverso l'atto formale del provvedimento amministrativo, rendendo possibile il controllo contabile, senza intaccare la sostanza del provvedimento: atto formale che attribuirebbe efficacia esecutiva alle deliberazioni, di guisa che queste non potrebbero considerarsi come atto finale e conclusivo di un procedimento amministrativo in senso tecnico, poiché la deliberazione conserverebbe la propria autonomia, come espressione dell'autonomia dell'organo deliberante. In conseguenza l'intervento giurisdizionale, da parte del Consiglio di Stato, non potrebbe riguardare che il decreto per sé considerato, per i vizi suoi propri, essendo da escludere un qualunque sindacato nella sostanza della deliberazione.

L'Avvocatura dello Stato conclude quindi perché siano dichiarate inammissibili, o comunque infondate, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Pretore di Bologna nelle ordinanze sopraindicate.

A maggior chiarimento delle tesi prospettate nelle ordinanze, tanto l'Avvocatura dello Stato quanto le altre parti hanno depositato memoria rispettivamente il 10 ed il 9 ottobre del 1963.

 

 

Considerato in diritto

 

 

Le tre cause riguardano le stesse questioni, devono essere perciò riunite e decise con unica sentenza.

1. - Preliminarmente non si ritiene fondato il dubbio cui accenna l'Avvocatura dello Stato (pur rimettendosi al giudizio di questa Corte), circa la non adeguata giustificazione, nelle ordinanze di rinvio, della rilevanza delle questioni sollevate.

In proposito la Corte non può che riferirsi alla sua costante giurisprudenza, secondo la quale é rimesso al giudice del merito accertare se le questioni sollevate costituiscano presupposto necessario per la definizione della lite: accertamento che, quando, come nel caso, sia sufficientemente motivato, si sottrae al controllo di questa Corte.

2. - Nel merito si osserva che, nelle ordinanze e nelle difese di parte, come si é accennato, é dedotta, in via principale, l'illegittimità della legge 24 marzo 1958, n. 195 (istitutiva del Consiglio superiore della Magistratura) da un punto di vista formale, in quanto detta legge é stata approvata dalla competente Commissione della Camera dei Deputati in sede deliberante, e non già dall'Assemblea, con la procedura ordinaria. Il che sarebbe in contrasto con il quarto comma dell'art. 72 della Costituzione, trattandosi, come si sostiene, di legge che, emanata in attuazione delle norme costituzionali concernenti il Consiglio superiore della Magistratura, riguarderebbe sostanzialmente materia costituzionale, sia per l'organo cui si riferisce, sia per le disposizioni che formano oggetto della legge stessa, attinenti cioé all'ordinamento giudiziario.

La questione quindi consiste nell'esaminare se, come si sostiene, il citato quarto comma, là dove dispone che la procedura decentrata é esclusa per "i disegni di legge in materia costituzionale" si riferisca a un tipo di leggi che, pur avendo la forma ordinaria, tuttavia, per la sostanza, siano da considerare comprese nella materia anzidetta: leggi perciò differenziate dalle leggi di revisione della Costituzione e dalle altre leggi costituzionali menzionate nell'art. 138.

Tale opinione, a favore della quale non risultano elementi di chiarificazione dai lavori preparatori, non può essere accolta.

Ad avviso della Corte, invero, la disposizione del citato quarto comma, deve intendersi riferita al successivo art. 138 e, con esso, logicamente coordinata nell'armonia del sistema.

L'argomento che si adduce in contrario, nelle ordinanze e nelle difese di parte, oltre che sulla diversa dizione usata nei due testi legislativi (rispettivamente, "disegni di legge in materia costituzionale" e "leggi costituzionali"), si fonda specialmente sul rilievo che, se ai detti due testi legislativi si attribuisse lo stesso contenuto, si giungerebbe alla conseguenza che la disposizione del quarto comma dell'art. 72 resterebbe priva di qualsiasi portata pratica, costituendo un'inutile ripetizione. Ciò per il motivo che l'esclusione della procedura decentrata per l'approvazione delle leggi costituzionali, risulterebbe implicitamente dallo stesso articolo 138; il quale, prevedendo, per tali leggi, la seconda lettura con una speciale maggioranza, presupporrebbe la sussistenza di una prima lettura in Assemblea, con la maggioranza ordinaria.

A parte peraltro la scarsa importanza della diversità di formulazione, il rilievo anzidetto non appare risolutivo del problema nel senso prospettato.

Pur ammettendo, infatti, che le disposizioni si riferiscano, come la Corte ritiene, allo stesso oggetto, ciò non toglie che ad esse, nell'ambito del sistema, debba attribuirsi una propria funzione: alla prima (cioé quella dell'art. 72), perché compresa nelle norme dettate, in via generale, per la formazione di tutte le leggi, mediante l'approvazione con la procedura ordinaria, abbreviata o decentrata, salvo, riguardo a quest'ultima, le eccezioni espressamente prevedute; alle altre (quelle dell'art. 138), perché concernenti, in particolare, le garanzie che circondano le leggi costituzionali, mediante la seconda lettura, con l'intervallo non minore di tre mesi, l'approvazione con la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera e la possibilità del referendum.

Né, che alla formula "disegni di legge in materia costituzionale" siano da attribuire significato e portata diversi da quelli ora precisati può indurre, come si assume, il solo fatto che, nel testo legislativo, é menzionata insieme alla materia elettorale: materia disciplinata peraltro con leggi ordinarie concernenti anche le elezioni amministrative, sulla natura della quale, nell'incertezza della dottrina, nessun chiarimento, nel senso sostenuto negli scritti difensivi, si può desumere dai lavori preparatori.

Data l'interpretazione seguita dalla Corte, pertanto, la disposizione del quarto comma, più volte ricordata, in base al coordinamento con l'art. 138, cui si é accennato, viene, in definitiva, a costituire un'espressa limitazione, che opera nel senso di escludere la procedura decentrata riguardo a quelle norme, alle quali il Parlamento, per finalità di carattere politico, intenda attribuire efficacia di legge costituzionale. Non opera invece per le leggi ordinarie, per le quali può avvalersi anche della procedura decentrata, ovviamente con quelle cautele rispondenti all'esigenza che l'atto legislativo sia, per quanto possibile, sottoposto all'esame dell'Assemblea, con la pubblicità che il regolamento stabilisce; come, del resto, é già preveduto dall'art. 40 del regolamento della Camera dei Deputati, che esclude la procedura decentrata per le leggi tributarie.

Deriva da quanto si é esposto che l'anzidetta legge del 24 marzo 1958 non può ritenersi illegittima perché approvata dalla Commissione di giustizia in sede deliberante.

3. - Circa le questioni concernenti alcune disposizioni della legge ora ricordata, é da osservare che, negli scritti difensivi di parte, si é preliminarmente sostenuto che il sistema, adottato dalla legge anzidetta, non garentirebbe la indipendenza della Magistratura, la quale sarebbe anzi, in conseguenza di quel sistema, soggetta alle ingerenze del potere esecutivo.

Ora, la Corte non può non rilevare che l'indipendenza della Magistratura trova la prima e fondamentale garanzia nel senso del dovere dei magistrati e nella loro obbedienza alla legge morale, che é propria dell'altissimo ufficio e che consiste nel rendere imparzialmente giustizia: principi, questi, ai quali si é costantemente uniformata la Magistratura italiana. Ma, a prescindere da ciò, la Corte osserva che il sistema legislativo attualmente in vigore, considerato nel suo complesso e nelle linee generali, non appare inidoneo al fine assegnatogli di garantire l'indipendenza e l'autonomia della Magistratura.

4. - Venendo all'esame delle sollevate questioni di incostituzionalità, é da premettere che, nelle ordinanze, é stato prospettato il dubbio circa la incostituzionalità dell'art. 23, primo, terzo e quarto comma, relativi all'elezione dei componenti il Consiglio superiore; dell'art. 11, primo comma, riguardante la richiesta del Ministro per la giustizia; e dell'art. 17, il quale, nella prima parte del primo comma, stabilisce che i provvedimenti del Consiglio superiore concernenti i magistrati sono adottati con decreto del Capo dello Stato, o, nei casi previsti dalla legge, con decreto del Ministro per la giustizia.

Non sono state invece ritenute rilevanti dal Pretore le eccezioni di incostituzionalità, dedotte dalle parti nel giudizio di merito e riproposte avanti a questa Corte, relative alle altre disposizioni dell'art. 11, degli artt. 12 e 13 e del secondo comma dell'art. 17; questioni quindi che, in questa sede, non possono essere esaminate, non essendo comprese nelle ordinanze di rimessione.

5. - L'impugnazione del primo comma dell'art. 23 si riferisce, come si é in precedenza accennato, al numero maggiore dei componenti il Consiglio superiore (sei), da eleggere fra i magistrati di Corte di cassazione, in confronto dei quattro da eleggere, rispettivamente, fra i magistrati delle Corti di appello e dei Tribunali. Si violerebbe, in tal maniera, il principio (contenuto negli articoli 104, primo comma, e 107 della Costituzione), circa la parità, nella composizione dell'organo, della rappresentanza di tutte le categorie dei magistrati, attribuendo una posizione di superiorità ad una delle categorie stesse.

La questione non é fondata.

É da premettere che, nel sistema adottato dalla Costituzione, eccetto alcune disposizioni fondamentali, come ad esempio quelle sancite dall'art. 48, la disciplina della materia elettorale, date le modificazioni eventualmente determinate dalle mutate esigenze, resta deferita al legislatore ordinario (in proposito, da ultimo, la sentenza n. 111 del 1963, relativamente all'elezione dei giudici costituzionali).

Il principio deve essere applicato anche per quanto attiene al Consiglio superiore della Magistratura, per la formazione del quale, dal punto di vista dell'elettorato passivo, il precetto costituzionale esige soltanto che i componenti siano scelti fra i magistrati appartenenti alle varie categorie (art. 104, quarto comma).

Ora, né questo precetto, né l'altro contenuto nell'art. 107, terzo comma (secondo il quale i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni), possono ritenersi elusi, come si assume, per il fatto che la disposizione impugnata attribuisce un maggior numero di rappresentanti alla categoria dei magistrati di cassazione (compresi due con ufficio direttivo), in confronto alle altre due categorie.

Se é vero, infatti, che, secondo la Costituzione, a coloro che fanno parte dell'ordine giudiziario, non si applicano le disposizioni relative all'ordinamento gerarchico statale, ciò non significa che a tutti i magistrati ordinari, sia riconosciuta, sotto altro aspetto, una posizione di assoluta parificazione. Questa sussiste, invero, in relazione all'art. 101, secondo comma, della Costituzione (i giudici sono soggetti soltanto alla legge) per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni istituzionali e gli atti che ad esse si ricollegano, i quali devono essere emanati in base alla legge e sono sottratti a qualsiasi sindacato, che non sia quello espressamente preveduto dalle leggi processuali. Non sussiste, invece, relativamente alla posizione soggettiva che, al di fuori delle predette funzioni, i magistrati assumono nell'ordinamento giudiziario; poiché anche l'art. 107, terzo comma, della Costituzione, sopra citato, postula una differenziazione, che si riconnette ai tre gradi della giurisdizione previsti dall'ordinamento processuale. E, in attuazione appunto del precetto costituzionale, la legge del 24 maggio 1951, n. 392, stabilisce, nell'art. 1, che i componenti dell'ordine giudiziario, fatta eccezione per gli uditori, si distinguono in magistrati di tribunale, di corte di appello, e di cassazione, compresi il primo presidente, il procuratore generale e i magistrati con ufficio direttivo.

Ora, la disposizione impugnata ha preveduto una rappresentanza numerica più elevata per la categoria dei magistrati di cassazione, ispirandosi, non tanto al numero dei componenti delle varie categorie, quanto alla qualificazione di coloro che compongono l'anzidetta categoria dei magistrati di cassazione. E ciò, non soltanto in relazione alle esigenze del funzionamento del Consiglio superiore, dato il numero dei componenti e i compiti che gli sono assegnati, ma tenuto conto, in particolare, della maggiore esperienza dei magistrati di cassazione, derivante dalle funzioni alle quali essi pervengono a seguito delle selezioni prevedute dalla legge, e dal prestigio che coerentemente spetta ai magistrati stessi. Se quindi, nella disposizione impugnata, (art. 23 della legge 24 marzo 1958, n. 195), si riscontra una disparità di trattamento fra le varie categorie dei magistrati, essa non può ritenersi in contrasto con la Costituzione, essendo consentito al legislatore ordinario, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, di disciplinare diversamente situazioni differenziate, quando, come nel caso, per le ragioni accennate, trovino logica giustificazione.

Né, d'altra parte, appare fondato il dubbio che l'accennata composizione dell'organo possa esercitare una qualche influenza sulle sue deliberazioni. Giacché ad un tale inconveniente, se mai sussistesse, ovvierebbe la funzione equilibratrice, che, in seno al collegio, viene esercitata dai componenti, non magistrati, eletti dal Parlamento, fra i quali é scelto il vice-presidente (articolo 104, quinto comma, della Costituzione).

6. - Nella legge del 1958 (art. 23, terzo comma) alla distinzione fra le varie categorie dei magistrati si fa riferimento pure per ciò che riguarda l'elettorato attivo. Anche questa disposizione é impugnata, perché lederebbe il precetto dell'eguaglianza del voto, sancito dall'art. 48 della Costituzione e i principi che si desumono dagli artt. 104, 105 e 107, secondo i quali, nel Consiglio superiore, la Magistratura dovrebbe essere rappresentata con carattere unitario ed omogeneo, e non già in relazione alle singole categorie dei magistrati.

La questione non può ritenersi fondata.

Il principio dell'eguaglianza del voto (che si assume violato), come ha precisato questa Corte nella sentenza n. 43 del 1962, deve intendersi nel senso del divieto del voto multiplo o plurimo e della pari efficacia potenziale del medesimo. Questo principio peraltro non appare vulnerato dalla disposizione denunziata. Con essa il legislatore ordinario attribuisce a tutti indistintamente i magistrati il diritto di partecipare alla formazione elettiva del Consiglio superiore, ma, per quanto attiene alla modalità dell'elezione, ha adottato il sistema della votazione per categorie, in corrispondenza con l'eleggibilità, pure per categorie, stabilita dallo stesso art. 104 della Costituzione. Tale sistema, peraltro, dettato da apprezzabili ragioni di opportunità inerenti alla scelta del candidato, non impedisce che i magistrati siano posti in grado di esprimere il voto in condizioni di perfetta parità fra loro; e, rispetto all'eletto, con pari efficacia. Onde la composizione dell'organo resta omogenea, nel senso che i componenti, pur provenienti da categorie differenziate, si trovano tutti in posizione giuridica, sotto ogni aspetto, parificata.

D'altra parte, se é vero che la Costituzione prevede la distinzione per categorie, con riferimento soltanto all'elettorato passivo, da ciò non può derivare, come si assume, la illegittimità delle norme di attuazione, per il fatto che, agli stessi criteri di ripartizione, si é attenuto per la formazione dei collegi elettorali. Giacché la rispondenza fra questi e le condizioni di eleggibilità (come si é del resto già rilevato nella ricordata sentenza n. 111 del 1963) non può ritenersi ingiustificata, anche in questo caso, dato lo speciale carattere dell'organo elettivo, preposto dalla Costituzione al governo della Magistratura e per garantirne l'indipendenza.

Non é infine esatto il rilievo che, con il sistema della votazione per categorie, si riprodurrebbe nel Consiglio superiore, anche dal punto di vista formale, una rappresentanza di interessi non consentanea con il carattere unitario dell'organo, perché una tale differenziazione deriverebbe, se mai sussistesse, non già dalla disposizione impugnata, bensì direttamente dallo stesso precetto costituzionale, che, per la scelta dei magistrati, alle varie categorie espressamente si riferisce.

7. - Non é neppure fondata la questione relativa al quarto comma dell'art. 23, che esclude gli uditori giudiziari dall'elettorato attivo. É vero che questi, superate le prove del concorso, entrano a far parte della Magistratura, ma non conseguono, perciò solo, la stabilità, né sono investiti per legge delle funzioni giudiziarie.

Essi infatti sono dispensati dal servizio se, entro quattro anni dalla nomina, non si presentano all'esame per la promozione ad aggiunto giudiziario, o se, nel detto periodo, non superano, per due volte, tale prova (art. 136 dell'ordinamento approvato con decreto del 20 gennaio 1941, n. 12, per questa parte tuttora in vigore e che riproduce disposizioni contenute nelle leggi precedenti). Ed inoltre, il conferimento delle funzioni giurisdizionali, in base all'ordinamento del 1941 (art. 129) e alle leggi successivamente emanate (11 ottobre 1942, n. 1352, art. 6; 14 febbraio 1948, n. 113, art. 1, e 15 febbraio 1956, n. 59), non spetta ad essi di diritto, come per gli altri magistrati, ma deriva da un provvedimento facoltativo, demandato, prima al Ministro per la giustizia, ed ora al Consiglio superiore della Magistratura; provvedimento che può essere revocato. Ed é perciò che la già ricordata legge del 24 maggio 1951, n. 392, nella tabella allegata, non comprende gli uditori nelle tre categorie dei magistrati, ma li considera separatamente, e che la disposizione impugnata li esclude dal partecipare all'elezione dei componenti il Consiglio superiore.

La disposizione stessa, quindi, non può ritenersi in contrasto con l'esigenza costituzionale che tutti i magistrati partecipino alle elezioni dei componenti il Consiglio superiore, poiché gli uditori, per le ragioni accennate, non possono considerarsi magistrati compiutamente per tutti gli effetti preveduti dall'ordinamento. A questi soltanto, dato il delicato compito loro affidato nell'elezione, deve intendersi riferito il precetto della Costituzione; al quale si adeguano le norme di attuazione, assicurando il diritto di voto a tutti indistintamente i magistrati, compresi quelli fuori ruolo o con incarichi speciali, anche non giudiziari (art. 5 del decreto legislativo del 16 settembre 1958, n. 916, contenente disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195).

8. - Dell'art. 11 é impugnato, come si é accennato, soltanto il primo comma, circa il quale, nelle ordinanze, si pone in rilievo come la necessità della richiesta, da parte del Ministro, per promuovere le deliberazioni riguardanti i magistrati, sarebbe in contrasto con le disposizioni, fra loro coordinate, degli artt. 104, primo comma, 105 e 110 della Costituzione. La richiesta, infatti, lederebbe l'autonomia del Consiglio superiore e quindi indirettamente dell'ordine giudiziario, limitando, o addirittura escludendo, l'attività dell'organo nelle materie indicate nell'art. 105, e mantenendo un'indebita ingerenza del potere esecutivo sullo stato giuridico dei magistrati.

Questa opinione si ricollega, come si accenna anche negli scritti difensivi, ad un'interpretazione restrittiva dell'art. 110 della Costituzione, nel senso che i servizi, l'organizzazione e il funzionamento dei quali spetta al Ministro, sarebbero soltanto quelli inerenti al personale delle cancellerie e segreterie, agli ufficiali giudiziari, alle circoscrizioni giudiziarie, ai locali, all'arredamento dei medesimi, ed, in genere, a tutti i mezzi necessari per l'esercizio delle funzioni giudiziarie.

Tale interpretazione non può essere accolta.

Dall'autonomia riconosciuta al Consiglio superiore, nelle materie indicate nell'art. 105 della Costituzione, non deriva, secondo che si sostiene, una netta separazione di compiti fra il Ministro guardasigilli e l'Organo preposto al governo della Magistratura; come si verificherebbe se, a quest'ultimo, fosse riconosciuta (il che non é, come risulta chiaro dai lavori preparatori) un'autonomia integrale, compresa quella finanziaria, riguardante l'ordine giudiziario. Se quindi tale autonomia esclude (come pure si desume dai lavori preparatori) ogni intervento del potere esecutivo nelle deliberazioni concernenti lo status dei magistrati, non esclude peraltro, che, fra i due organi, nel rispetto delle competenze a ciascuno attribuite, possa sussistere un rapporto di collaborazione: il quale importa che i servizi, affidati al guardasigilli dall'art. 110 della Costituzione, non sono limitati a quelli sopra accennati, ma, vi si comprendono altresì, sia l'organizzazione degli uffici nella loro efficienza numerica, con l'assegnazione dei magistrati in base alle piante organiche, sia il funzionamento dei medesimi in relazione all'attività e al comportamento dei magistrati che vi sono addetti.

Che in questo senso non restrittivo debba intendersi l'art. 110 risulta anche dalla considerazione che al Ministro l'art. 107, secondo comma, della Costituzione attribuisce la facoltà di promuovere l'azione disciplinare, ed é confermato dal fatto che le attribuzioni anzidette e gli oneri finanziari che necessariamente vi si ricollegano, impegnano la responsabilità politica del guardasigilli, come esponente del Governo, verso il Parlamento, per l'esercizio dei poteri che istituzionalmente a questo competono.

Dalle osservazioni finora esposte discende che la richiesta, cui si riferisce la disposizione impugnata (richiamando espressamente l'art. 10, n. 1), considerata quale espressione della collaborazione, di cui si é fatto cenno, e volta a segnalare all'organo competente le esigenze sopra indicate, per i necessari provvedimenti, non può ritenersi, di per sé, lesiva dell'autonomia del Consiglio superiore, che ovviamente resta libero nelle sue determinazioni. Onde, sotto questo aspetto, la disposizione anzidetta, non può ravvisarsi in contrasto con i richiamati precetti costituzionali.

9. - Tuttavia la disposizione stessa non sfugge al vizio di illegittimità se considerata in relazione alla portata che viene ad assumere nel sistema della legge del 1958, come mezzo esclusivo stabilito per promuovere l'attività del Consiglio superiore.

É da ricordare, in proposito, che, nel progetto ministeriale, la disposizione non era isolata, ma era seguita da un'altra, che attribuiva al predetto Consiglio la facoltà di deliberare anche di ufficio, sentito il Ministro, il quale poteva fare osservazioni e proposte nel termine stabilito dallo stesso Consiglio. E, nella relazione, si chiariva che la disposizione era dettata dal concetto che l'autonomia dell'organo non poteva subire limitazioni, e dalla necessità di evitare che, un'eventuale inerzia del Ministro, potesse recar pregiudizio al funzionamento dei servizi.

Si trattava quindi di due disposizioni, dal necessario coordinamento delle quali risultava chiarito che, alla richiesta del Ministro, non si poteva attribuire carattere determinante rispetto alla attività del Consiglio superiore, nelle materie di sua competenza: carattere che ha assunto invece, data la soppressione della seconda disposizione, nell'ulteriore elaborazione legislativa. Di guisa che, il fatto che la disposizione impugnata sia rimasta isolata nel testo definitivo, sta a dimostrare che ad essa si é inteso attribuire carattere tassativo, nel senso di esclusività del potere attribuito al Ministro: condizionando, in tal maniera, come si rileva nelle ordinanze, l'attività dell'organo collegiale. Si verifica quindi la dedotta lesione dell'autonomia del medesimo, in contrasto perciò con i precetti della Costituzione.

10. - L'art. 17 della legge in esame, nella prima parte del primo comma, come si é accennato, é impugnato in quanto stabilisce che i provvedimenti del Consiglio superiore sono adottati con decreto del Capo dello Stato controfirmato dal Ministro, ovvero con decreto di quest'ultimo, nei casi preveduti dalla legge, in contrasto con l'art. 105 della Costituzione.

La questione non é fondata.

É vero che, in base al precetto che distingue i magistrati secondo le funzioni, essi, come si é già accennato, non possono ritenersi inquadrati nell'ordinamento gerarchico dell'amministrazione statale. Ma da ciò non deriva che la Magistratura sia avulsa dall'ordinamento generale dello Stato, dato il carattere unitario del medesimo, in relazione al precetto dell'art. 5 della Costituzione. Ne consegue che ai magistrati, salve le garanzie per l'indipendenza, sono applicabili i principi fondamentali dell'ordinamento medesimo. A tali principi non ha inteso derogare il legislatore costituente, essendosi affermato, nella relazione al progetto, che, con le norme intese a garantire l'indipendenza della Magistratura, non si intendeva stabilire una forma piena di autogoverno.

Ne deriva, pertanto, che i provvedimenti emanati dal Consiglio superiore, ai sensi dell'art. 105 della Costituzione e della disposizione dell'art. 17 della legge in esame (24 marzo 1958, n. 195), debbono assumere, dato il carattere sostanzialmente amministrativo dei provvedimenti stessi, anche per quanto attiene al controllo finanziario, la forma che, sulla base dei principi fondamentali del sistema, é prescritta per i provvedimenti del genere: la forma cioé del decreto del Capo dello Stato controfirmato dal Ministro; ovvero di questo, nei casi stabiliti dalla legge.

La disposizione impugnata, pertanto, non può ritenersi in contrasto con i precetti costituzionali richiamati, donde l'infondatezza della questione.

 

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

riunite le tre cause indicate in epigrafe,

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 11, primo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, istitutiva del Consiglio superiore della Magistratura, in riferimento agli artt. 104, primo comma, 105 e 110 della Costituzione, in quanto, per le materie indicate nel n. 1 dell'art. 10 della legge stessa, esclude l'iniziativa del Consiglio superiore della Magistratura;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della detta legge, in riferimento agli artt. 72, quarto comma, 104 e 105 della Costituzione;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23, primo, terzo e quarto comma, della stessa legge, in riferimento agli artt. 48, 104, primo, terzo e quarto comma, 105, 107 della Costituzione;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, primo comma, parte prima, della legge anzidetta, in riferimento all'art. 105 della Costituzione.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1963.

GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE

ANTONINO PAPALDO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1963.