Consiglio di Stato

Adunanza Generale del 1 marzo 2001, Sezione Prima, parere n. 153/2001

Richiesta di parere da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri in ordine alla interpretazione della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione

(omissis)

premesso

Osserva l’Amministrazione che la recente scomparsa dell’ex regina Maria Josè, recidendo l’ultimo legame tra l’istituzione Casa Savoia e l’effettivo esercizio della funzione monarchica in Italia, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche la questione del rientro nel territorio nazionale dei discendenti maschi degli ex re di quella Casa, vietato come è noto ai sensi della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.

Ricorda l’Amministrazione che, con riferimento alla posizione di Emanuele Filiberto di Savoia, nipote in linea retta maschile dell’ex re Umberto II, il Governo già nel passato ha sottoposto un quesito circa il perdurare del divieto al Consiglio di Stato il quale, con parere n. 31/87 reso dall’Adunanza generale in data 10.12.1987, si è espresso nel senso della vigenza ed applicabilità della disposizione impeditiva.

Tuttavia, nell’attuale contesto storico istituzionale ed alla luce degli eventi intervenuti successivamente al predetto parere, a giudizio dell’Amministrazione il problema dell’interpretazione della XIII disposizione transitoria acquista nuovamente attualità, considerato anche il diffuso apprezzamento delle iniziative volte a consentire il rientro in Italia dei discendenti maschi di Casa Savoia.

In questa prospettiva, risulta di centrale rilievo l’argomentazione secondo la quale il divieto comminato dalla XIII disposizione si basa su un presupposto – l’esistenza della “Casa” Savoia come soggetto di diritto pubblico disciplinato da regole di natura sostanzialmente costituzionale – il cui venire meno dovrebbe invece collegarsi, con le relative conseguenze giuridiche, alla scomparsa di Umberto II ultimo re d’Italia.

D’altra parte, smarritosi con la morte della ex regina ogni legame tra quella Casa e l’esercizio effettivo della funzione monarchica, una interpretazione conservativa della disposizione costituzionale finisce – prosegue l’Amministrazione – per tradirne l’ispirazione di fondo, determinando in sostanza conseguenze incongruenti rispetto alle finalità perseguite dal Legislatore Costituente oltre che collidenti con l’attuale diffuso sentimento della collettività.

Su un piano diverso, si osserva che il divieto di rientro in Italia dei discendenti maschi di Casa Savoia confligge con i principi desumibili dalla Convenzione Europea per la protezione dei Diritti dell’Uomo ed in particolare con il Protocollo n. 4 annesso a detta Convenzione il quale espressamente riconosce (art. 3 par. 2) l’insopprimibile diritto del cittadino di entrare nel territorio del proprio Stato.

In questo contesto, se è vero che generalmente si riconosce agli Stati aderenti una certa discrezionalità nell’applicazione della Convenzione all’interno dei singoli ordinamenti, resta pur sempre che tale apprezzamento discrezionale non può non ispirarsi a criteri di proporzionalità, il cui effettivo perdurare, oggi che più non sussiste l’esigenza immediata di proteggere le istituzioni repubblicane, viene posto in dubbio.

Di qui l’esigenza di verificare se, alla luce degli impegni internazionali assunti dall’Italia, non sia legittimo ed opportuno pervenire ad una diversa interpretazione della norma costituzionale, anche in considerazione del fatto che il disegno di legge costituzionale presentato nel 1997 dal Governo, e volto all’apposizione di un termine al divieto di cui alla XIII disposizione, non appare suscettibile di essere approvato nel corso della presente Legislatura pur essendo condiviso da ampio schieramento di forze politiche.

considerato

La Presidenza del Consiglio dei Ministri domanda il parere del Consiglio di Stato in ordine alle tesi interpretative sopra riassunte, secondo le quali la XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione sarebbe - alternativamente - non più efficace, non più giustificata nell’attuale contesto politico ordinamentale o non più applicabile alla luce dei principi della Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo.

Sotto il primo profilo, l’inefficacia della disposizione deriverebbe dal fatto che, con la scomparsa di Umberto II, è ormai venuta meno l’esistenza della “Casa” Savoia come soggetto di diritto pubblico disciplinato da regole di livello costituzionale: in sostanza, ai figli maschi della famiglia Savoia non sarebbe applicabile un divieto di rientro previsto per i discendenti di Casa Savoia.

Come si è anticipato, a tale argomentazione formale la Presidenza affianca, sul piano del merito, il rilievo che comunque il divieto appare oggi incongruente in quanto con la scomparsa della ex regina è venuto meno ogni legame storico fra i Savoia e l’effettivo esercizio della funzione monarchica.

Al riguardo in limine è opportuno precisare che “la portata precettiva della richiamata XIII disposizione preclude di trarre utili elementi di decisione dalla sentenza 11 febbraio 1980 del Verwaltungsgerichtshof della Repubblica austriaca che decise in base ad una normativa – legge 2 aprile 1919 e legge 4 luglio 1963 – di contenuto diverso da quello della stessa XIII disposizione”.

Ciò premesso, dal punto di vista formale, la tesi interpretativa sostenuta dalla Presidenza appare non condivisibile, per ragioni innanzi tutto di carattere testuale.

Come già evidenziato dall’Adunanza generale, nel contesto della XIII disposizione il riferimento alla Casa vale esclusivamente ad identificare in termini istituzionali i soggetti (gli ex re) che avevano rivestito la posizione alla quale la norma conferisce rilievo: ma una volta così identificato lo stipite, la disposizione è chiara nel comminare il divieto a quella serie indeterminata di soggetti che ne costituiscono la discendenza maschile.

In termini letterali, dunque, nell’ambito del secondo comma della disposizione l’appartenenza alla “ Casa “ rileva per gli ex re e non per i discendenti; semmai, è nel primo comma che - con disposizione non rilevante ai fini in rassegna - l’esercizio dei diritti politici viene precluso ai “discendenti di Casa Savoia”.

A ciò deve aggiungersi comunque che il riferimento alla “Casa” piuttosto che alla Famiglia aveva all’epoca una valenza semantica convenzionale, quando si trattava di designare una stirpe, una casata regnante o nobiliare: a prescindere da quanto sopra rilevato sembrerebbe dunque anche metodologicamente errato fondare una svolta ermeneutica di tale portata su spunti interpretativi obiettivamente controvertibili.

E’ assai dubbio ad esempio, anche a voler condividere a fini puramente dialettici il presupposto di diritto da cui muove la Presidenza, che la scomparsa della ex regina possa effettivamente aver inciso sulla valenza giuridica dell’istituto “casa Savoia”.

La tesi sostenuta dall’Amministrazione, del resto, si presta a molte critiche anche sul piano sistematico, ove c’è da rilevare – innanzi tutto –che la disposizione è stata dettata quando da tempo la forma monarchica dello Stato si era estinta per far luogo a quella repubblicana.

Se si tiene conto di ciò e se si tiene conto che, come precisamente argomentato nella relazione della Presidenza, l’istituzione Casa esiste come soggetto di diritto pubblico solo in quanto connaturata alla persistenza del regime monarchico, si vede bene che le premesse argomentative da cui parte l’Amministrazione conducono al paradossale contraddittorio risultato di dover ritenere il secondo comma della XIII disposizione come inutilmente dato, in quanto ab origine incapace di incidere sui discendenti della famiglia, già subentrata alla casa: il che contrasta con il principio ermeneutico di conservazione dei valori giuridici nonché, occorre rilevarlo, con l’alto rigore formale dell’appassionata discussione sviluppatasi sul punto in seno alla Costituente.

Tale rilievo introduce il richiamo alle risultanze dei lavori preparatori i quali inequivocabilmente depongono per la volontà del Legislatore di interdire l’accesso nel territorio dello Stato a tutti i discendenti maschi in linea retta degli ex re d’Italia.

Per un verso, infatti, in seno all’Assemblea gli oppositori della norma osservarono che il divieto risultava ingiusto per l’eccessiva ampiezza, il che presuppone accertato che la norma fosse destinata a valere nei confronti di un numero indeterminato di destinatari.

Parimenti, la maggioranza dei Costituenti, respingendo un emendamento volto a limitare alla terza generazione la portata del divieto, escluse la possibilità di introdurre un termine certo alla efficacia della norma.

In conclusione, sul piano formale tutto conduce a far ritenere che il divieto non può non applicarsi nei confronti di tutti i discendenti maschi (anche se nati dopo l’entrata in vigore della Costituzione, come evidenziato dall’Adunanza generale) degli ex re d’Italia.

Sul piano dell’opportunità – e si passa così al secondo profilo evocato dalla relazione della Presidenza – un divieto di tal genere potrebbe oggi risultare però non soltanto non condiviso dall’opinione pubblica ma soprattutto esorbitante rispetto alle intime finalità che la norma si prefiggeva: in un contesto in cui le istituzioni repubblicane sono del tutto consolidate, in un contesto in cui più non si teme il coagulo di iniziative eversive e restauratrici, la norma avrebbe perduto ogni sua attualità e quindi ogni ragion d’essere.

Questa impostazione, che pure fonda su rilievi di fatto in parte già condivisi da questa Adunanza Generale, non può però essere in alcun modo condivisa.

In primo luogo deve infatti osservarsi che la XIII disposizione non è norma transitoria (sia pure a termine incerto) ma norma finale e di puntuale portata precettiva, posta in rapporto di evidente complementarietà con le regole generali fissate nella Carta, ed in particolare con quella irrevocabilmente sancita dall’art. 139.

Senza qui dover approfondire se (ed in che modo e da chi) possa accertarsi l’inefficacia sopravvenuta di un precetto costituzionale effettivamente transitorio, deve ribadirsi che in generale le norme della Costituzione non possono essere modificate o abrogate se non da norme di pari grado nella gerarchia delle fonti.

Il che significa che, anche a fronte di una norma come quella in esame asseritamente inattuale, l’abrogazione della stessa non può mai essere il frutto di una attività di interpretazione evolutiva.

L’abrogazione di una norma costituzionale non può infatti che sortire dal complesso procedimento dettato dall’art. 138 Cost. nell’ambito del quale – ciò che più conta ai fini in rassegna – va ribadito il ruolo assolutamente esclusivo demandato alle Camere del Parlamento.

E del resto, sul piano delle modifiche costituzionali, per quale ragione mai anche l’espressione creativa e costitutiva della volontà parlamentare sarebbe circondata di tante garanzie (doppia deliberazione, maggioranza assoluta, termini dilatori etc.) ove invece fosse possibile all’interprete pervenire con molta economia di mezzi ad analogo risultato.

Né va dimenticato – per concludere sul punto – che la specialità e tassatività del procedimento disegnato dall’art. 138 ai fini della modifica del testo costituzionale, indusse a suo tempo la Corte costituzionale a ritenere inammissibile (cfr. sent. n. 16 del 1978) che in subiecta materia la volontà diretta del corpo elettorale potesse spiegare effetto attraverso lo strumento del referendum abrogativo.

Su un piano diverso, si prospetta l’incompatibilità sopravvenuta del divieto con i principi derivanti dagli articoli 10 ed 11 della Costituzione, alla luce dei vincolanti impegni internazionali successivamente assunti dall’Italia all’atto della adesione alla Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo.

In tal senso, si sottolinea in particolare che il Protocollo n. 4 addizionale alla Convenzione, nel sancire un divieto incondizionato di esilio, espressamente prevede, all’art. 3 paragrafo 2, che nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino.

L’argomentazione è suggestiva ma non tale da resistere, alla stregua del diritto vigente come interpretato da costante giurisprudenza, alle considerazioni che ora si esporranno.

Per quanto riguarda la conformazione dell'ordinamento giuridico italiano alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, risulta ormai assodato che il meccanismo di adeguamento automatico divisato dall’art. 10 Cost. non ha per oggetto le norme internazionali di derivazione pattizia, se non riproduttive (circostanza questa da escludersi nel caso all’esame) di corrispondenti norme consuetudinarie.

Tale assunto interpretativo, inizialmente criticato da una illustre dottrina, si è imposto nel prosieguo sul piano dell’effettività ed è, ciò che più conta, stabilmente e ormai pacificamente condiviso dalla Corte costituzionale.

In linea generale, dunque, l’inserzione nell’ordinamento delle norme di derivazione pattizia deve ricondursi all’ordine di esecuzione, dal quale le norme stesse ripetono il grado e la collocazione nella gerarchia delle fonti.

Fermo il grado così determinato, indubbiamente di talune norme di derivazione pattizia già la Costituzione (cfr. ad es. art. 10 comma secondo) predica una particolare forza, una particolare resistenza all’abrogazione successiva da parte di fonti meramente equiordinate.

Analogamente, come meglio si vedrà in seguito, tale particolare resistenza è generalmente riconosciuta in via di interpretazione alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) resa esecutiva con legge ordinaria 4.8.1955 n. 848.

E tuttavia, in questo quadro di riferimento, deve pur sempre escludersi che la Convenzione si collochi, sul piano delle fonti, in posizione pariordinata rispetto alla Costituzione.

Depone del resto in tal senso il ripetuto insegnamento della Corte costituzionale (cfr. sentenze nn. 188 del 1980, 15 del 1982, 315 del 1990, 388 del 1999) la quale esclude conseguentemente anche la possibilità “di assumere le relative norme quale parametro del giudizio di costituzionalità di per sé sole o come interposte ex art. 10 Cost.” (ex multis sentenza 1.4.1993 n. 147).

Quanto sopra conduce a concludere in linea generale nel senso dell’impossibilità che si verifichi nell’ordinamento interno un conflitto giuridico fra la norma costituzionale e la norma ordinaria di derivazione convenzionale.

Per quanto concerne l’ordinamento internazionale, c’è poi da aggiungere che in realtà il conflitto potenzialmente evocato riguarda il Protocollo n. 4 addizionale della Convenzione, reso esecutivo con D.P.R. 14 aprile 1982 n. 217, il quale appunto riconosce diritti e libertà ulteriori rispetto a quelli che già figurano nella detta convenzione e nel suo primo protocollo addizionale.

Ebbene, come ricorda l’Amministrazione, l’Italia nel depositare il 27.5.1982 lo strumento di ratifica formulò espressa riserva all’art. 3, dichiarandolo non preclusivo della perdurante applicabilità della XIII disposizione finale della Costituzione.

Trattandosi di riserva legalmente formulata e non incompatibile con il contenuto del protocollo, deve concludersi che allo stato il timore, evocato dall’Amministrazione, di una condanna dell’Italia per inottemperanza al divieto protocollare di espulsione ed esilio risulta recessivo.

Le considerazioni ora esposte con riferimento alla Convenzione confermano che la questione qui sottoposta deve essere essenzialmente risolta nell’ordinamento interno, mediante l’unico strumento disponibile che è quello – ripetesi – della revisione costituzionale; e confermano altresì che la auspicata soluzione, impingendo in valutazioni di merito normativo riservate esclusivamente al Legislatore (specificamente cfr. Corte cost. 31.7.1989 n. 480), postula inequivocabilmente l’intervento delle Camere parlamentari.

In questi termini è la risposta alla luce del diritto vigente ai quesiti proposti.

Nel rassegnare le esposte conclusioni, questa Adunanza Generale non può però fare a meno di rilevare, de iure condendo, che l’ordinamento è al presente contrassegnato da innovative tensioni, specialmente sul versante dell’integrazione normativa comunitaria.

L’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (reso esecutivo con L. 3.11.1992 n. 454) nel testo modificato dal Trattato di Amsterdam ( reso esecutivo con L. 16.6.1998 n. 209) dispone al paragrafo 2 che: “ L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto comunitario.”.

Anche se al presente, specialmente alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia CEE, non può darsi per avvenuto l’effettivo recepimento della Convenzione nel corpo del diritto comunitario ed anche se, ai sensi del successivo comma 3 del ridetto art. 6(F), l'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri, appare indubbio che è in corso un processo di progressiva integrazione fra i principi costituzionali degli Stati membri, il diritto comunitario e le norme della Convenzione.

Tale processo è del tutto in divenire: al riguardo non è senza rilievo la circostanza che il Parlamento Europeo, nel corso della prima sessione dell’anno 2000, abbia bocciato il paragrafo 42 della relazione annuale sui diritti umani (c.d. Rapporto Haarder) in cui sostanzialmente si chiedeva che gli eredi maschi dei Savoia potessero rientrare in Italia.

La decisione del Parlamento Europeo di non interferire in una questione tutta interna all’ordinamento italiano non impedisce però di ipotizzare che il procedere dell’integrazione possa nel futuro aprire scenari nuovi: si pensi al riguardo alle norme sulla cittadinanza dell’Unione (articoli da 8 a 8 E del Trattato) ed ai poteri propulsivi affidati in materia al Consiglio, pur nel rispetto dell’assetto costituzionale degli Stati membri.

Un significativo passo in questa direzione è dato altresì dalla riconosciuta attivabilità, ai sensi del Protocollo 11 annesso alla CEDU, delle posizioni soggettive davanti alla Corte Europea, dal che, peraltro, non può direttamente inferirsi l’esistenza allo stato di un ordinamento comune che con i suoi principi e quindi a livello di norme si sovrapponga alla struttura portante del nostro ordinamento costituzionale.

Sul piano giurisprudenziale, del resto, alcune significative pronunce hanno già preso atto di tale tendenziale evoluzione.

Così la Corte costituzionale (sentenza 19.1.1993 n. 10) ha ritenuto la norma CEDU concretamente applicabile nel giudizio a quo come espressiva di un “contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale”.

Così la Cassazione penale (Sez. I, 12-05-1993, Medrano) giudicando in tema di espulsione dello straniero condannato per reati in materia di stupefacenti ha affermato – sia pure al limitato fine di escludere che le norme convenzionali ex L. n. 848/1955 potessero ritenersi abrogate dal nuovo codice di procedura penale - che i diritti protetti dalla Convenzione rientrano nel novero dei diritti fondamentali.

Così la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 18 gennaio 1999) – esaminando un provvedimento di espulsione a vita nei confronti di una persona coinvolta, in Grecia, in questioni di droga – ha ritenuto una siffatta misura espulsiva contraria al diritto comunitario.

In questa ottica, solo quando sarà concluso il processo di integrazione fra i diversi ordinamenti si potrà ipotizzare che i principi della Convenzione e dei protocolli, specialmente se recepiti nel diritto comunitario, possano costituire nuova specificazione dei diritti inviolabili nell’ordinamento interno ex art. 2 Cost..

E si potrà porre il problema della compatibilità fra la XIII disposizione e questo nuovo catalogo dei diritti, problema in atto non sussistente atteso il carattere di rottura che, nel quadro di complementarietà sopra evidenziato, consapevolmente qualifica la disposizione stessa rispetto all’impianto del testo costituzionale.

De jure condendo, potrà quindi profilarsi un contrasto fra la XIII disposizione (se non modificata dal Parlamento) ed una norma (art. 2) che rientra tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale (Corte Cost. 29.12.1988 n. 1146).

p.q.m

Nei sensi suesposti è il parere dell’Adunanza Generale.

(si omettono le sottoscrizioni)