Nella sent. n. 90 la Corte ha ritenuto irragionevole, e comunque foriero di disparità di trattamento il fatto che, a seguito del cosiddetto "decreto Caivano", l’accesso alla messa alla prova fosse precluso per il reato meno grave di piccolo spaccio (per via dell’innalzamento del massimo edittale da 4 a 5 anni) e invece ammesso, almeno astrattamente, per il reato più grave di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti, dato il determinarsi in tal modo di un capovolgimento della gerarchia di gravità tra due reati entrambi attinenti alla medesima materia e alla tutela degli stessi beni giuridici.
Si rileva, in particolare, come l’esclusione del reato di piccolo spaccio dall’ambito applicativo della messa alla prova frustri la funzione premiale e la vocazione risocializzante, nonché le finalità deflattive proprie dell’istituto, volto a semplificare il trattamento giudiziario dei reati di minore gravità : trattandosi, infatti, di un illecito connotato da minima offensività , occasionalità e facilità di accertamento (soprattutto nella forma base non circostanziata) esso risulta particolarmente idoneo a una definizione alternativa del procedimento, con ricadute positive sull’efficienza complessiva del sistema giudiziario.
Di qui l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).