Ordinanza n. 365 del 2002

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ORDINANZA N.365

ANNO 2002

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Cesare

RUPERTO

Presidente

- Riccardo

CHIEPPA

 Giudice

- Gustavo

ZAGREBELSKY

"

- Valerio

ONIDA

"

- Carlo

MEZZANOTTE

"

- Fernanda

CONTRI     

"

- Guido

NEPPI MODONA

"

- Piero Alberto

CAPOTOSTI

"

- Annibale

MARINI

"

- Franco

BILE

"

- Giovanni Maria

FLICK

"

- Francesco

AMIRANTE

"

- Ugo

DE SIERVO

"

- Romano

VACCARELLA

"

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 16 della legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 della Costituzione), promossi con ordinanze emesse il 25 giugno 2001 dal Tribunale di Rossano, il 14 giugno 2001 dal Tribunale militare di Torino ed il 28 settembre 2001 dal Tribunale di Castrovillari, rispettivamente iscritte ai nn. 931 e 939 del registro ordinanze 2001 ed al n. 26 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 47 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2001 e n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2002.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 22 maggio 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

 

Ritenuto che con due ordinanze di identico contenuto, emesse, rispettivamente, il  25 giugno 2001 (r.o. n. 931 del 2001) ed il 28 settembre 2001 (r.o. n. 26 del 2002), il Tribunale di Rossano ed il Tribunale di Castrovillari  hanno sollevato, in relazione agli artt. 3, 24, primo comma, 111, primo e quarto comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni lette per la contestazione possano essere acquisite al fascicolo del dibattimento e valutate come prova dei fatti affermati»;

       che la norma censurata violerebbe, innanzitutto, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza dell’attuale sistema di assunzione e di valutazione della prova nel processo penale, in quanto farebbe dipendere le risultanze probatorie da «fenomeni soggettivi extraprocessuali (come la capacità o meno di ricordare del teste)»;

che sarebbe altresì compromesso il diritto di difesa della persona offesa, con violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., risultando inconsistente l’effettività della tutela dei diritti della parte civile costituita, per le ipotesi di testi reticenti o che affermano di non ricordare il contenuto delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari;

 

che risulterebbe violato, ancora, l’art. 111, primo e quarto comma, Cost., sotto il profilo del contrasto con il “principio di non dispersione dei mezzi di prova” - affermato da questa Corte con sentenza n. 255 del 1992 - anch’esso costituente  espressione del “giusto processo”: e ciò in quanto la dichiarazione resa nella fase delle indagini preliminari, attraverso il meccanismo delle contestazioni, diverrebbe oggetto di pieno contraddittorio tra le parti e, dunque, «parte essenziale di un procedimento probatorio ispirato al modello costituzionale»;

che la norma censurata contrasterebbe, infine, con l’art. 112 Cost., in quanto, introducendo limitazioni probatorie di portata tale da privare di efficacia la legge penale, vanificherebbe il diritto di azione «privando di effettiva tutela i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione e salvaguardati dalla legge penale»;

 che, con ordinanza emessa il 14 giugno 2001 (r.o. n. 939 del 2001), il Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 101 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2,  del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni lette per le contestazioni possano essere valutate ai fini della credibilità del teste e come prova dei fatti in esse affermati, se sussistono altri elementi che ne confermano la attendibilità»;

che, a parere del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole diseguaglianza di trattamento tra imputati in relazione al tipo di processo prescelto dall’indagato, poiché nel caso di opzione per il rito abbreviato tutte le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari avrebbero piena utilizzazione probatoria, a differenza di quanto previsto per il rito ordinario: con la possibilità, quindi, «di decisioni giudiziali opposte, in presenza degli stessi elementi di fatto conosciuti dal giudice»;

che sarebbe altresì compromesso il principio del libero convincimento del giudice espresso nell’art. 101 Cost.,  atteso che l’organo giudicante, anche quando si convinca della veridicità delle dichiarazioni rese in fase di indagini, non può pienamente utilizzarle a fini probatori e, dunque, si vede costretto a  formulare in sentenza «affermazioni del tutto contrarie al proprio convincimento motivatamente raggiunto»;

che nei giudizi  di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate. 

 

            Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni fra loro del tutto analoghe e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione;

 

            che, al di là della varietà dei parametri invocati e delle singole scansioni argomentative, tutti i profili investiti dalle questioni in esame risultano già ampiamente scrutinati da questa Corte  con l’ ordinanza n. 36 del 2002;

            che in tale pronuncia questa Corte ha in particolare rimarcato  «come l’art. 111 della Costituzione abbia espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica delle parti»: con conseguente predisposizione, per la fase del dibattimento, di meccanismi normativi idonei alla salvaguardia «da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari» (cfr., oltre la già citata ordinanza n. 36 del 2002, la sentenza n. 32 del 2002);

            che, in tale prospettiva, appare quindi pienamente coerente con i principi sanciti dalla citata norma costituzionale che l’istituto delle contestazioni non operi «quale meccanismo di acquisizione illimitato ed incondizionato» di dichiarazioni raccolte prima ed al di fuori del contraddittorio: esigenza, questa,  che «la composita disciplina dettata dall’art. 500 del codice di rito ha soddisfatto con l’attuale formulazione, prevedendo, da un lato, un parametro di valutazione oggettivamente circoscritto delle dichiarazioni lette per le contestazioni e, dall’altro, ipotesi di eccezionale utilizzabilità pleno iure»;

che pertanto la norma censurata, espressione di una precisa e ragionevole opzione del legislatore in attuazione dei principî sanciti nel novellato art. 111 della Costituzione, non  risulta  neppure in contrasto – come parimenti evidenziato nella citata ordinanza n. 36 del 2002 - con gli altri parametri invocati dagli odierni rimettenti: non con quello del libero convincimento del giudice, poiché detto principio «non può che riferirsi alle prove legittimamente formate ed acquisite»; non con quelli della obbligatorietà dell’azione penale e dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, poiché essi non possono ritenersi lesi da limiti di utilizzazione probatoria che si configurano «come la naturale e coerente conseguenza di scelte sistematiche, in linea con i principi costituzionali»; non con quello di eguaglianza in relazione al diverso regime di utilizzazione probatoria nel rito abbreviato, avuto riguardo alle evidenti peculiarità di tale rito speciale; e neppure, infine, con il principio dell’obbligo di motivazione, essenzialmente inteso come  esigenza di un prodotto argomentativo coerente e privo di vizi logici: invero, «i limiti probatori relativi alle dichiarazioni lette per le contestazioni non incidono affatto sulla coerenza intrinseca della motivazione che il giudice è chiamato a svolgere […] posto che, ove così non fosse, […] qualsiasi prova non utilizzabile (perché, ad esempio, assunta contro i divieti previsti dalla legge) comprometterebbe l’obbligo di motivazione, per il sol fatto di essere apparsa “persuasiva” nel foro interno del giudicante»;

che, pertanto, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente infondate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 101, 111, primo e quarto comma, e  112 della Costituzione dal Tribunale  di Rossano, dal Tribunale di Castrovillari e dal Tribunale militare di Torino, con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2002.