SENTENZA N.387
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 13, comma 3, 14, commi 1, 3, 4 e 5, e 15, comma 8, della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1996 dal Collegio centrale di garanzia elettorale presso la Corte di cassazione sul ricorso proposto da Campagna Luigi, iscritta al n. 684 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di costituzione di Campagna Luigi nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 15 ottobre 1996 il Giudice relatore Cesare Ruperto;
uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per Campagna Luigi e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. -- Il Collegio centrale di garanzia elettorale presso la Corte di cassazione -- nel decidere sull'impugnativa di un provvedimento con cui il Collegio regionale presso la Corte d'appello di Catanzaro aveva inflitto una sanzione amministrativa ad un candidato alle elezioni regionali per il mancato deposito della dichiarazione concernente le spese sostenute durante la campagna elettorale -- con ordinanza emessa il 13 maggio 1996 ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), che detta la disciplina delle campagne per le elezioni delle due Camere, poi estesa dalla legge 23 febbraio 1995, n. 43, anche alle elezioni regionali. Le specifiche disposizioni denunciate sono: a) l'art. 13, comma 3, l'art. 14, commi 1, 3 e 4, e l'art. 15, comma 8 -- in riferimento agli artt. 101 e 102 della Costituzione --, nella parte in cui non prevedono che agli accertamenti e alle contestazioni di competenza del Collegio regionale di garanzia provveda un soggetto pubblico distinto dal Collegio stesso; b) l'art. 14, comma 4 -- in riferimento all'art. 24 della Costituzione --, nella parte in cui non prevede la facoltà delle parti di essere sentite dinanzi al Collegio regionale di garanzia elettorale; c) l'art. 14, comma 5 -- in riferimento agli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione --, nella parte in cui non contempla nel procedimento dinanzi al Collegio centrale di garanzia elettorale la partecipazione del soggetto pubblico di cui sub a) o, nell'ipotesi di reiezione della questione di cui sub a), dello stesso Collegio regionale configurato come autorità amministrativa o di un suo rappresentante; d) l'art. 14, comma 5 -- in riferimento agli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione --, nella parte in cui non prevede l'impugnazione, da parte del soggetto pubblico di cui sub a) o dell'amministrazione legittimata, delle decisioni del Collegio regionale di garanzia elettorale favorevoli al candidato; infine, e) l'art. 14, comma 5 -- in riferimento all'art. 24 della Costituzione --, nella parte in cui non prevede che il ricorrente dinanzi al Collegio di garanzia elettorale possa depositare memorie, possa chiedere copia degli atti del procedimento e possa esser sentito.
Prima di formulare dette questioni, il Collegio rimettente trascrive il contenuto di una propria decisione in cui, "anche a prescindere dalla natura propriamente giurisdizionale", si era dichiarato legittimato a proporre questioni di legittimità costituzionale. Sul punto esso argomenta nel senso: a) di essere costituito in modo che venga assicurata la sua indipendenza, b) di esercitare funzioni vòlte all'applicazione obiettiva del diritto, c) di emettere pronunce definitive. Con riguardo a quest'ultimo aspetto, il Collegio esclude che le proprie pronunce possano essere impugnate ed afferma che le stesse, in quanto potenzialmente idonee a determinare la decadenza di un parlamentare "sia pure attraverso la mediazione della deliberazione della Camera di appartenenza", non possono essere qualificate come provvedimenti amministrativi di applicazione di una sanzione pecuniaria.
2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione, riservando compiute difese ad una successiva memoria, poi presentata nell'imminenza dell'udienza, in cui ha contestato anzitutto il carattere giurisdizionale del Collegio rimettente. A parere dell'Avvocatura entrambi i Collegi, regionali e nazionale, sarebbero strutturati - analogamente al Garante per la radiodiffusione e l'editoria - come organi amministrativi, deputati a svolgere accertamenti sulle spese elettorali di candidati alle elezioni e a verificarne la regolarità, "imponendo in caso contrario sanzioni pecuniarie". Nel richiamare le previsioni legislative che ammettono anche esposti da parte di qualsiasi elettore, l'Avvocatura sottolinea come, in caso di mancata contestazione nei termini da parte del Collegio, le dichiarazioni ed i rendiconti si considerano approvati, ma soprattutto come le decisioni adottate dal Collegio centrale su ricorso del candidato avverso i provvedimenti sanzionatori dei Collegi regionali siano prive del carattere della definitività, in quanto suscettibili di gravame dinanzi al Pretore attraverso il procedimento di opposizione di cui alla legge n. 689 del 1981; quest'ultimo rappresenterebbe, secondo la deducente Avvocatura, "la prima sede giurisdizionale di esame della vicenda". Le decisioni dei Collegi sarebbero perciò puramente e semplicemente atti amministrativi, formatisi all'esito di un iter procedimentale che si svolge nelle forme tipiche dell'attività amministrativa, dove non vi sarebbe alcuna esigenza costituzionalmente garantita né a che la contestazione provenga da un organo diverso da quello che poi applicherà la sanzione, né a che la parte interessata sia sentita oralmente, né infine a che vi sia un soggetto pubblico destinato ad assumere il contraddittorio con il privato e a divenire titolare di un autonomo potere d'impugnazione. In tale quadro la particolare composizione dei Collegi e la loro terzietà risulterebbero giustificate dalla delicatezza degl'interessi in gioco.
Nel merito, poi, osserva l'Avvocatura che, anche a voler considerare come giurisdizionale l'attività dei Collegi, la mancata distinzione tra chi promuove l'azione e chi deve giudicare non costituirebbe violazione del principio d'imparzialità di cui all'art. 101 della Costituzione, stante la già rilevata garanzia di terzietà dell'organo (qualificato come) giudicante, né sarebbe configurabile alcuna lesione dell'art. 24 della Costituzione, poiché il previsto obbligo di contestazione e la prevista facoltà di presentare memorie e documenti salvaguarderebbero pienamente il diritto di difesa, che può articolarsi diversamente in funzione delle caratteristiche dei diversi procedimenti.
3. -- Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituita la parte privata, la quale ha insistito nella prospettazione di cui all'ordinanza, riservandosi di depositare un'ulteriore memoria, prodotta poi nell'imminenza dell'udienza. In essa la parte, dopo aver ricordato la composizione dei Collegi, osserva che una recente affermazione delle Sezioni unite della Cassazione circa l'esperibilità dell'opposizione pretorile avverso le decisioni del Collegio determinerebbe una "situazione non chiarita sul punto della definitività", ma che, in ogni caso, il difetto di tale requisito non escluderebbe la legittimazione del rimettente a sollevare questioni di legittimità costituzionale, proprio in quanto costituito presso la Corte di cassazione e dotato di specifiche caratteristiche di competenza.
Nel merito la parte insiste sulla fondatezza delle questioni, rilevando in generale, "al di là" delle stesse, un difetto di razionalità dell'intera struttura organizzativa e procedurale disegnata dalla legge.
In particolare essa osserva come la "degradazione" del Collegio centrale ad organo amministrativo introdurrebbe la "contraddizione" di una decisione emessa da un organo istituito presso la Cassazione, le cui decisioni sarebbero impugnate davanti al Pretore, "per tornare infine in Cassazione".
Secondo la parte il Collegio rimettente sarebbe poi difficilmente configurabile come sezione specializzata, per la mancanza di un nesso organico con il C.S.M. e di una relazione funzionale con il codice di rito (che sarebbe esclusa proprio dal richiamo alla legge n. 689 del 1981). E il difetto di tali requisiti minimi concreterebbe appunto la denunciata violazione degli artt. 24, 102, comma 2, e 108 della Costituzione. Ma, soprattutto, ove si concludesse - come in memoria si conclude - nel senso di non riconoscere al Collegio la qualificazione di sezione specializzata, si dovrebbe ritenerlo un giudice speciale, entrando così in collisione con il dettato costituzionale che vieta l'istituzione di giudici speciali.
Anche il canone della terzietà del giudice verrebbe ad essere contraddetto dalla composizione dell'organo: non ricorrerebbero infatti le garanzie necessarie ad assicurare l'indipendenza degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia (in particolare non è prevista l'interruzione di ogni attività professionale), con violazione dell'art. 108 della Costituzione. Inoltre le norme denunciate non definirebbero sufficientemente l'idoneità di tali ultimi soggetti, così pregiudicando l'art. 102, comma 2, della Costituzione. Infine la loro stessa designazione -- non prevista attraverso la nomina del C.S.M. -- risulterebbe assai lontana dall'applicazione dell'art. 106, comma 3, in quanto rimessa alla scelta del Primo presidente della Suprema Corte.
Considerato in diritto
1. -- Il Collegio centrale di garanzia elettorale ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 3, 14, commi 1, 3, 4 e 5, e 15, comma 8, della legge 10 dicembre 1993, n. 515. Le norme denunciate sarebbero lesive del principio d'imparzialità del giudice là dove non prevedono che, nel procedimento dinanzi ai Collegi regionali di garanzia elettorale, vi sia un soggetto terzo, in posizione autonoma e distinta, il quale provveda agli accertamenti ed alle contestazioni di competenza del Collegio stesso nonché all'impugnativa delle decisioni di quest'ultimo dinanzi al Collegio centrale. Analoga lacuna normativa sarebbe ravvisabile -- con conseguente violazione dell'art. 24 della Costituzione -- specialmente nell'art. 14, comma 5, della legge citata, nella parte in cui non configura la partecipazione di un soggetto pubblico dinanzi al Collegio centrale, ovvero -- nell'ipotesi in cui la Corte non accolga tale prospettazione -- nella parte in cui la norma non attribuisce al medesimo Collegio regionale, o ad un suo rappresentante, la veste di autorità amministrativa in grado di partecipare al procedimento dinanzi al Collegio centrale con poteri d'impulso e d'impugnativa delle decisioni favorevoli ai candidati. Un ulteriore profilo di contrasto con l'art. 24 della Costituzione viene poi individuato nei commi 4 e 5 del già richiamato art. 14 là dove, nei procedimenti che si svolgono rispettivamente dinanzi ai Collegi regionali ed a quello centrale, non prevedono la facoltà per le parti di essere sentite, ovvero di depositare memorie e chiedere copia degli atti.
2. -- Va preliminarmente esaminata l'eccezione d'inammissibilità proposta dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui l'organo rimettente avrebbe natura amministrativa e non sarebbe perciò legittimato a sollevare questioni di costituzionalità dinanzi a questa Corte.
L'eccezione è fondata.
2.1. -- Con la legge n. 515 del 1993 -- che detta la disciplina delle campagne elettorali per la Camera ed il Senato, poi estesa con la legge 23 febbraio 1995, n. 43, anche alle elezioni dei Consigli regionali -- il legislatore ha inteso soddisfare molteplici esigenze, come quelle di contemperare la divulgazione dei programmi elettorali con la garanzia di una effettiva parità tra gruppi e candidati, di adeguare la propaganda alla logica maggioritaria del nuovo sistema, che implica il rischio di personalizzare la dialettica politica, e di rendere trasparenti i contributi, le spese nonché le situazioni patrimoniali e reddituali relative agli eletti. Elementi, questi ultimi, già presenti nelle leggi 11 novembre 1981, n. 659, e 5 luglio 1982, n. 441, ma ora nuovamente disciplinati in un quadro organico, che si propone altresì di ricondurre il sistema sanzionatorio nell'àmbito dell'illecito amministrativo (cfr. sentenza n. 52 del 1996).
La scelta di fondo su tale ultimo punto è stata quella di una globale depenalizzazione dei reati in materia di propaganda elettorale. Quale corrispettivo di tale opzione, i meccanismi finanziari che rendono possibile la divulgazione delle idee e la formazione del consenso sono stati presidiati con una serie di controlli e gravati da rigidi moduli procedimentali. Appunto in questa ottica si inserisce -- insieme con le attribuzioni del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, e con le funzioni demandate al Collegio per il controllo sui consuntivi presso la Corte dei Conti -- anche l'istituzione dei Collegi regionali e centrale di garanzia elettorale, per la verifica della regolarità delle dichiarazioni e dei rendiconti previsti a carico dei candidati eletti.
Secondo uno schema non certo inedito, che vede in materia elettorale la costituzione di organi amministrativi presso il giudice ordinario, detti Collegi di garanzia operano nell'àmbito, rispettivamente, delle Corti d'appello e della Corte di cassazione. Ma tale collocazione non comporta che i Collegi medesimi siano inseriti nell'apparato giudiziario, evidente risultando la carenza, sia sotto il profilo funzionale sia sotto quello strutturale, di un nesso organico di compenetrazione istituzionale che consenta di ritenere che essi costituiscano sezioni specializzate degli uffici giudiziari presso cui sono istituiti. Basti notare, con riguardo al primo profilo, che non viene adottato, neppure in parte, il codice di rito e, sotto il secondo profilo, che manca, nonché l'assoggettamento alla sorveglianza dei capi di detti uffici, un qualunque collegamento col Consiglio superiore della magistratura. Né, d'altronde, è stato prospettato, o è prospettabile -- stante il divieto in proposito sancito dalla Costituzione -- che si sia in presenza di giudici speciali.
2.2. -- Escluso dunque che il Collegio rimettente sia qualificabile come giudice in senso soggettivo, il riconoscimento della sua legittimazione a sollevare questioni di costituzionalità presupporrebbe necessariamente che l'attività applicativa della legge, da parte sua, fosse di tipo giurisdizionale, ed avesse quindi non solo l'attributo dell'obiettività, ma anche quello della definitività, nel senso dell'idoneità a divenire irrimediabile attraverso l'assunzione di un'efficacia analoga a quella del giudicato. In tal caso, infatti, ove quella legittimazione non si riconoscesse, ne conseguirebbe la sottrazione della denunciata normativa al controllo di costituzionalità.
Ebbene, nella specie, l'attributo della definitività è da ritenersi assente, perché avverso l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui si discute nel procedimento a quo è prevista l'opposizione davanti al pretore a' sensi degli artt. 22 e segg., inseriti nella sezione II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, cui fa espresso rinvio l'art. 15, comma 15, della denunciata legge n. 515 del 1993, come hanno ritenuto anche le Sezioni unite civili della Corte di cassazione nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso ex art. 111 della Costituzione avverso le decisioni del Consiglio centrale di garanzia.
E' appunto codesto giudizio di opposizione, che si conclude con sentenza ricorribile in cassazione, la sede nella quale deve trovare attuazione il principio di costituzionalità, secondo cui il controllo da parte di questa Corte deve coprire nella misura più ampia possibile l'ordinamento giuridico. Laddove il meccanismo predisposto -- per consentire detto controllo -- dall'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non è attivabile nel corso del procedimento davanti al rimettente Collegio di garanzia, proprio perché questo non ha natura giurisdizionale -- né soggettivamente né oggettivamente -- pur se costituito in modo da assicurare una certa indipendenza e chiamato ad applicare in modo obiettivo una regola giuridica. La lamentata insufficienza di tale indipendenza e la pure censurata carenza di contraddittorio stanno a indicare appunto che la legge n. 515 del 1993 ha inteso soltanto accentuare le caratteristiche di terzietà nella fase procedimentale del controllo, onde bilanciare la scelta di non attribuire invece alla giurisdizione, ordinaria o amministrativa, la corrispondente attività di accertamento e sanzionatoria. Attività la quale, nella specie, si presenta infatti come tutta interna ad un procedimento di verificazione che si attiva di ufficio, si svolge attraverso un mero riscontro dei presupposti e delle condizioni richieste dalla legge in vista dell'eventuale emanazione di un provvedimento finale privo -- come già detto -- della definitività, e che può concludersi anche col silenzio, cioè con l'approvazione implicita prevista dall'art. 14, comma 3, nel caso in cui "il Collegio non contesti la regolarità entro centottanta giorni dalla ricezione" delle dichiarazioni e dei rendiconti.
2.3. -- In contrario avviso non può condurre il rilievo -- valorizzato nell'ordinanza di rimessione e nella memoria della parte privata -- che l'art. 15, comma 7, della denunciata legge prevede anche la decadenza dalla carica quale effetto dell'accertata violazione delle norme da parte del candidato. E ciò, sia perché questa dev'essere stata dichiarata "in modo definitivo" (e tale può considerarsi solo dopo l'esaurimento di ogni rimedio impugnatorio concesso dalla legge all'interessato contro la decisione del Collegio di garanzia), sia perché, comunque, la decadenza consegue in modo diretto, non già da tale pur definitiva decisione, bensì dalla "delibera della Camera di appartenenza", come dispone espressamente il succitato comma 7, in puntuale applicazione dell'art. 66 Cost.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 3, 14, commi 1, 3, 4, 5 e 15, comma 8, della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione, dal Collegio centrale di garanzia elettorale, con l'ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Cesare RUPERTO, Redattore
Depositata in cancelleria il 5 novembre 1996.