SENTENZA N. 104
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 688 c.p.(ubriachezza) promossi con le ordinanze emesse il 6 maggio 1976 dal Pretore di Brescia, il 6 giugno, il 16 giugno e il 6 ottobre 1977 dal Pretore di Cesena, il 12 maggio 1978 dal Pretore di Città di Castello (due ordinanze), il 3 aprile 1979 dal Pretore di Viadana, il 16 gennaio 1979 e il 2 ottobre 1978 dal Pretore di Cesena, il 25 ottobre 1979 dal Pretore di Viadana, il 28 febbraio 1980 dal Pretore di Parma, il 31 gennaio 1980 dal Pretore di Milano, il 10 marzo 1980 dal Tribunale di Como, il 23 maggio 1980 dal Pretore di Saronno, il 22 luglio 1980 dal Pretore di Padova, il 27 novembre 1980 dal Pretore di Legnano, il 6 novembre 1980 dal Pretore di Lecce, il 19 gennaio 1981 dal Pretore di Ferrara, il 20 ottobre 1980 dal Pretore di Lecce, il 18 marzo 1981 dal Tribunale di Como, il 2 aprile 1981 dal Pretore di Pergine Valsugana,l'8 maggio 1981 dal Tribunale di Venezia, il 29 maggio 1981 dal Pretore di Castelfranco Veneto, il 30 gennaio 1981 dal Pretore di Lecce e il 18 giugno 1981 dal Pretore di Mestre, rispettivamente iscritte al n. 493 del registro ordinanze 1976,ai nn. 363, 492 e 530 del registro ordinanze 1977, ai nn. 407e 408 del registro ordinanze 1978, ai nn. 544, 957 e 958 del registro ordinanze 1979, ai nn. 26, 275, 349, 515, 518 e 733del registro ordinanze 1980 e ai nn. 43, 89, 152, 180, 399,479, 494, 529, 539 e 586 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 246 del 1976, nn. 272 e 347 del 1977, nn. 25 e 320 del 1978, n. 258 del 1979, nn. 50, 78, 152, 173, 249, 256 e 357 del 1980 e nn. 98, 117, 130, 165, 276, 297, 304, 325 e 357 del 1981.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1982 il Giudice relatore Giovanni Conso;
udito l'Avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Riganello Romeo, imputato, fra l'altro, del reato di cui all'art. 688 c.p., il Pretore di Brescia, con ordinanza 6 maggio 1976 (R.O. n. 493/76), ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma incriminatrice perché contrastante con gli artt. 3 e 32 della Costituzione. Premesso che l'art. 688 c.p., pur sanzionando formalmente il comportamento di colui che é colto in luogo pubblico in stato di manifesta ubriachezza, reprime, indirettamente, il contegno che necessariamente e preliminarmente costituisce il sostrato dell'evento illecito, l'assunzione, cioè, di bevande alcooliche (sia pure condizionandone la punibilità alla circostanza - del tutto estrinseca - che l'assunzione stessa abbia determinato uno stato di scoordinamento psicomotorio rilevabile ictu oculi quale indice dello stato di ubriachezza), il giudice a quo osserva che, secondo le comuni nozioni medico - scientifiche, l'alcool appartiene a quel genere di sostanze capaci di alterare temporaneamente le condizioni fisico - psichiche dell'individuo e di indurre, a lungo termine, a condizioni di assuefazione e di dipendenza da parte dell'assuntore, determinando effetti che, tanto sul piano psichico (senso di euforia, caduta dei freni inibitori), quanto su quello fisico (modificazioni del metabolismo, compromissioni,di vario genere, a carico degli organi vitali), sono assimilabili all'azione di alcune sostanze stupefacenti. Ricordato che l'alcoolismo, come, ed ancor più, delle sostanze stupefacenti, va considerato quale una vera e propria malattia sociale per l'elevato numero di soggetti che, secondo le statistiche, si trovano in condizioni di intossicazione, il giudice a quo osserva che appare del tutto incongrua la penalizzazione della ingestione di alcoolici quando la legge ("giustamente") né punisce il consumatore di stupefacenti strictu sensu, né indirettamente sanziona la conseguenza apparente di tale assunzione, essendo venuta meno (art. 108 della legge 22 dicembre 1975, n. 685) la punibilità dello "stato di grave alterazione psichica"(art. 729 c.p.) in conseguenza dell'abuso di sostanze stupefacenti.
Certo, rileva il Pretore, il sistema penale conserva tuttora la linea di un'ispirazione unitaria tendente a disciplinare uniformemente le conseguenze del consumo di sostanze alcooliche e stupefacenti, con una corrispondente omogeneità di disciplina a livello soggettivo: ciò fa ritenere che il legislatore si sia avveduto della sostanziale analogia che esiste fra le une e le altre e, comunque, dell'appartenenza comune al genere delle sostanze "droganti". Basti pensare all'identica disciplina in tema di incapacità penale (e di commissione del fatto reato sotto l'azione dell'alcool o di stupefacenti); non diverse sono, ancora, le conseguenze che derivano nel caso di proscioglimento per intossicazione cronica o di condanna in caso di intossicazione abituale sotto il profilo delle misure di sicurezza applicabili.
E, fino alla recente novella riformatrice della disciplina degli stupefacenti, l'identità o analogia di trattamento si rifletteva direttamente sulle norme che punivano, a titolo contravvenzionale, le condizioni di alterazione fisico - psichica conseguenti alla ingestione di alcool o di stupefacenti "in senso stretto", non sembrando sussistere sostanziali diversità fra il lessico "manifesta ubriachezza" (art. 688 c.p.) e quello di "grave alterazione psichica in conseguenza dell'abuso di sostanze stupefacenti" (art. 729 c.p.): anche le manifestazioni comportamentali abnormi dell'ubriaco, infatti, hanno radici in un alterato psichismo e, precisamente, nel venir meno della facoltà dei centri nervosi a coordinare correttamente le grandi funzioni dell'organismo (movimenti, linguaggio, etc.).
In entrambi i casi, rileva ancora il giudice a quo, si ricollegava la sanzione alla manifestazione esterna di uno stato di alterazione, attribuendo così rilevanza al quadro apparente, determinato dall'uso delle sostanze (alcooliche o stupefacenti).
La coerenza di un tale disegno é venuta meno con l'abrogazione dell'art. 729 c.p.: l'impunità dell'uso personale di sostanze stupefacenti e la circostanziata previsione di un articolato sistema di interventi, destinati a consentire il recupero del soggetto in stato di tossico - dipendenza, hanno determinato, secondo il Pretore, un'ingiustificata distonia (contrastante con l'armonia dell'assetto legislativo precedente) fra la disciplina apprestata dalla legge nei confronti di chi si trova in stato di ubriachezza (sia pure di grado tale da renderla evidente a ciascuno) rispetto a quella "del tutto oggettivamente uguale "di chi ha assunto stupefacenti, con paradossali conseguenze sul piano degli effetti giacché, mentre é possibile l'accompagnamento manu militari in carcere dell'ubriaco manifestamente tale, con l'eventualità dell'irrogazione anche di una pena detentiva, nulla di ciò é più possibile per il tossicomane il quale fruisce, invece, di un trattamento preferenziale, se é vero che, ai sensi dell'art. 96 della legge n. 685 del 1975, deve essere solo accompagnato al più vicino presidio sanitario.
Secondo il giudice a quo, le due situazioni non presentano obiettive diversità tali da rendere ragionevole e giustificabile una diversità di trattamento dal punto di vista penale; così come, da un altro punto di vista, quello soggettivo, altrettanto irragionevoli ed ingiustificate appaiono le conseguenze dell'ingestione di sostanze alcooliche che non sono certo più gravidi quelle determinatesi per l'assunzione di sostanze stupefacenti sì da richiedere un più energico intervento della sanzione penale: nell'uno e nell'altro caso, gli effetti possono procedere, infatti, da un minimum trascurabile (si pensi all'ubriachezza eclatante ma sporadica ed isolata e, in parallelo, al consumo casuale di sostanze allucinogene che non provochi stabile dipendenza a livello biochimico) ad un quadro di imponenza gravissima ed impressionante.
Né si può sostenere, prosegue il giudice a quo, che sotteso alle norme che puniscono l'ubriachezza manifesta ed a quella(ora abrogata) che sanzionava l'uso di sostanze stupefacenti vi fosse un interesse diverso: in entrambe le ipotesi - e lo dimostra la pari collocazione nel titolo "delle contravvenzioni di polizia" - veniva in rilievo la tranquillità dei consociati, l'esigenza che lo svolgersi delle interrelazioni umane non fosse turbato da manifestazioni individuali scomposte. Ne consegue che, se il legislatore ha riconosciuto che tale interesse o non merita protezione nel caso di abuso di stupefacenti o, comunque, cade a fronte di altri interessi di grado maggiore, quali la tutela dell'integrità materiale e fisica dell'individuo, non si vede per quale ragione esso debba essere tuttora protetto soltanto nell'ipotesi dell'ubriachezza, data la situazione di anormalità psichica comune all'ubriaco e all'assuntore di droga e l'eguale situazione di pericolo cui é sottoposto, in entrambi i casi, l'ordinato svolgersi della vita sociale. E poiché il principio di eguaglianza é violato anche quando la legge, senza ragionevole motivo, assegna un trattamento diverso ai cittadini che si trovano in situazioni eguali, la discriminazione operata a favore di chi si trovi in stato di ubriachezza manifesta, e perciò in condizioni di alterate facoltà psichiche rispetto a quelle, del tutto identiche, dell'assuntore di stupefacenti, appare contrastante sotto il profilo della ragionevolezza e della logicità con la regola generale che situazioni eguali trovino eguale disciplina.
Pure sotto altro profilo, l'art. 3 sarebbe vulnerato: l'intervento puramente repressivo operato dalla sanzione penale appare una reazione irragionevole nei confronti di una situazione, quella dell'alcoolista, che ben altri interventi richiede che non quello della sanzione patrimoniale o, peggio ancora, della privazione della libertà.
Lo stato di ubriachezza, infatti, salvo casi assolutamente trascurabili dal punto di vista statistico, costituisce la spia vuoi di una condizione di dipendenza fisica (e quindi di intossicazione) vuoi di una situazione psichica di difficoltà e di disagio che cerca nell'alcool una falsa strada per la soluzione dei problemi individuali. Se ciò é vero (e la letteratura scientifica lo conferma), ci si può chiedere se la penalizzazione dell'ubriachezza costituisca lo strumento più idoneo a tutelare la salute che é in concreto messa in pericolo dall'abuso di sostanze alcooliche (di qui la violazione anche dell'art. 32 della Costituzione) o se invece non rappresenti quanto residua di una concezione autoritaria, diretta a colpire il "diverso", inaccettabile nell'ottica solidaristica che ispira la Carta costituzionale.
Infine, rileva il giudice a quo, la repressione penale, attuata direttamente nei confronti del "consumatore", é del tutto incapace a risolvere i problemi psicologici e sociali che sottostanno all'alcoolismo e, quindi, all'epifenomeno della manifesta ubriachezza, di tal che neppure si può dire che essa soddisfi l'interesse della collettività (pure garantito costituzionalmente) alla salute individuale, presupposto dell'ordinato inserimento della persona nel tessuto sociale, interesse che, peraltro, essendo di natura sostanziale, e postulando interventi dinamicamente rivolti alla tutela del bene, sia di carattere preventivo, sia di carattere successivo (cura medica, aiuto al reinserimento sociale), é tutt'affatto diverso da quell'interesse meramente formale e statico alla pax civium che é sotteso alla norma impugnata.
É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, la quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.
Secondo l'Avvocatura, non sembra che il giudice a quo abbia esattamente colto gli elementi distintivi delle due fattispecie prese in considerazione: esse, invero, non si esauriscono nel fatto che, nell'un caso, l'alterazione psichica é determinata dall'abuso di alcool e, nell'altro, dall'abuso di sostanze stupefacenti.
Ad avviso dell'Avvocatura, invece, nella fattispecie di cui all'art. 688 c.p. il legislatore non ha inteso sanzionare il vizio per se stesso, ma solo in quanto determina pubbliche manifestazioni esteriori sconvenienti: tant'è vero che il grado anche intensissimo dell'ubriachezza non basta a concretare la contravvenzione, se non sia manifesto lo stato dell'ubriaco. Cosicché non sono punibili quei beoni che si mantengono contegnosi anche quando, pur essendo pienamente ubriachi, ciò non dimeno, non rivelino il loro stato.
Nella previsione di cui all'art. 729 c.p., non più punita, il legislatore aveva inteso sanzionare il vizio per se stesso; il titolo del reato (abuso di sostanze stupefacenti) ne é la prova, ed ulteriore prova si deduce dal fatto che la punizione era, altresì, prevista per quel soggetto che fosse colto in stato di grave alterazione psichica, oltreché in un luogo pubblico o aperto al pubblico, anche in circoli privati di qualunque specie. E negli schemi di un orientamento a contenere il vizio di abuso di sostanze stupefacenti, é stata la normazione successiva all'art. 729 c.p., di previsione della punibilità del vizio, comunque si manifestasse. Quando il legislatore ha ritenuto che la via fino ad allora percorsa non appariva la più adatta al raggiungimento del fine voluto (il contenimento, cioè, del vizio e, se possibile, la sua eliminazione dalla realtà delle cose umane), ne ha seguito un'altra: quella di porre il vizio sul piano esclusivo di una malattia, da contenere come ogni altra malattia, all'eliminazione della quale si é di recente ritenuta contrastante la restrizione della libertà personale.
Concludendo, sulla pretesa violazione del principio di eguaglianza, l'Avvocatura deduce che l'ubriachezza continua ad essere punita non perché abuso di alcool di per sé, ma per le manifestazioni esteriori sconvenienti che determina: le due fattispecie, dunque, non hanno elementi interamente omogenei in comune; gli aspetti apparentemente "convincenti" manifestati dal giudice a quo per legittimare l'identità di trattamento delle due situazioni, dimenticano come, a ben vedere, il problema sia solo di politica legislativa e che, pertanto, la soluzione di esso non può avvenire attraverso un giudizio di legittimità costituzionale.
2. - Un'analoga questione (sia pure con argomentazioni parzialmente diverse) ha proposto il Pretore di Città di Castello con due ordinanze dall'identica motivazione emesse il 12 maggio 1978 (R.O. 407/78, 408/78), nei procedimenti penali a carico di Pompei Eliseo e Marianelli Filippo, imputati del reato di cui all'art. 688 c.p.
Premesso, da un lato, che la norma denunciata richiede, perla sussistenza del reato, che l'ubriachezza sia soltanto manifesta(a differenza di quanto disponeva il codice abrogato per il quale l'ubriachezza, per integrare la fattispecie criminosa, avrebbe dovuto essere piena e ripugnante), e, dall'altro, che la legge non richiede indagini peritali per l'accertamento del tasso alcoolico e che, comunque, anche ove una tale indagine venga compiuta ed abbia, in ipotesi, indicato un lieve etilismo nell'imputato, ciò non basta ad escludere la presenza della contravvenzione, "potendo il giudice trarre il suo convincimento circa lo stato del soggetto da altre fonti di prova, quali le ammissioni dell'imputato, le deposizioni dei testi et similia", il giudice a quo rileva come tutto ciò conduce a ritenere che la disposizione in esame fa riferimento in modo preminente al losco ordinamento psicomotorio quale indice rilevante dello stato di ubriachezza.
Orbene, secondo il Pretore, non può passare inosservato che l'art. 688 c.p. ha, nei confronti di chi indulge all'alcool, intenti ammonitori che appaiono la risultante di motivazioni di dubbia politica criminale, per la nota sollecitazione che l'alcool esercita su atti antisociali ed anche in omaggio adintenti protettivi della sanità della stirpe imperanti all'epoca in cui il codice venne promulgato (il giudice a quo ricorda, fra l'altro, che secondo l'Hesnard l'alcoolismo, da solo, può determinare l'incesto, soprattutto tra padre e figlia, in individui moralmente normali prima dell'intossicazione).
Ora, poiché l'azione delle sostanze stupefacenti é (tuttora)equiparata (artt. 93, 94 e 95 c.p.) all'ubriachezza e l'intossicazione cronica da stupefacenti rende applicabili le disposizioni previste per quella derivante dall'abuso di sostanze alcooliche, risulta in modo evidente l'irrazionale disparità di trattamento fra il soggetto ubriaco e quello che abbia assunto "modiche quantità" di sostanze stupefacenti per uso personale.
Per quest'ultimo, infatti, l'art. 80 legge 22 dicembre 1975, n. 685, con un'innovazione estremamente qualificante, prevede la non punibilità, considerandolo come un malato da curare e non più come un colpevole da punire. Ed, allora, prosegue il giudice a quo, perché non adottare identico trattamento anche per il soggetto dedito all'alcool che é, al pari del drogato, una persona strutturalmente debole?
Non va dimenticato infatti che l'atteggiamento repressivo(prevalendo su quello curativo) favorisce l'emergere di una sottocultura che, appunto (come ricorda Cohen), comprende, fra le condizioni necessarie per la sua nascita ed il suo perpetuarsi, l'interazione effettiva di un certo numero di persone che presentano analoghi problemi di adattamento: la sottocultura, in sostanza, tende inevitabilmente a cronicizzarsi per imitazione ed apprendimento sociale e per autodifesa contro la cultura dominante ostile.
Da ciò consegue che i programmi di trattamento che manifestano maggiori probabilità di successo, sia nei confronti del drogato, sia per il soggetto dedito all'alcool, sono quelli imperniati su meccanismi terapeutici di gruppo, quali, ad esempio, quelli seguiti dal Synanon; l'atteggiamento repressivo e punitivo, per converso, favorisce l'isolamento e la fuga in un contegno deviante che, in via secondaria, sfocia in comportamenti antigiuridici.
Passando all'esame degli aspetti più specificamente attinenti alla problematica di costituzionalità, il giudice a quo ritiene che l'atteggiamento repressivo nei confronti dell'assuntore di modiche quantità di stupefacenti, "nei predetti limiti, violi in modo evidente l'art. 3 della Costituzione che può ritenersi intaccato o eluso, quando, come nella fattispecie, sussista un irrazionale trattamento differenziato tra il soggetto assuntore di modiche quantità di sostanze stupefacenti e l'ubriaco", che, in un'ultima analisi, si traduce in una illegittima discriminazione fra lo status di ubriaco e quello di drogato, entrambi riconducibili ad uno scoordinamento psicomotorio.
Ne risulta poi violato anche l'art. 32 della Costituzione, norma di indubbio valore precettivo, che riconosce nella salute un diritto primario ed assoluto della persona umana, giacché non può dubitarsi che la pena detentiva o anche quella semplicemente pecuniaria non possono sortire l'effetto della guarigione di chi é dedito all'alcool. Il carcere, anzi, non fa che aggravare la situazione psico- fisica dell'alcoolista.
L'inadeguatezza di un tale atteggiamento repressivo appare ancor più evidente, ove si rammenti che in Italia non esiste alcuna struttura particolare per i malati affetti da intossicazioni croniche voluttuarie: praticamente, esistono soltanto cliniche private per coloro che hanno possibilità economiche oche hanno diritto all'assistenza, "mentre per coloro che non fruiscono di alcuna assistenza o che sono sprovvisti di mezzi economici esiste soltanto il deprecato Ospedale psichiatrico", così da far auspicare, per l'alcoolista, una adeguata terapia con la convergenza di parecchi operatori quali lo psichiatra, lo psicologo, il sociologo, l'assistente sociale, etc..
Infine, la normativa denunciata si rivela anche contrastante con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione: la pena comminata (arresto o ammenda), per la natura del soggetto cui viene applicata, si traduce in un trattamento contrario al senso di umanità e non tende alla rieducazione del condannato che corre il rischio, per le predette ragioni, di vedere aggravata la sua condizione.
Davanti a questa Corte ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, la quale ha chiesto che le questioni vengano dichiarate non fondate.
Dopo essersi riportata ai suoi precedenti scritti difensivi in ordine alla denunciata violazione degli artt. 3 e 32, con riguardo al pretesto contrasto con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, l'Avvocatura deduce che: "non si vede come possa dirsi contraria al senso di umanità ed alla rieducazione del condannato una pena comminata ai sensi dell'art. 688 c.p.".
3. - Altre ventidue ordinanze emesse, rispettivamente, dal Pretore di Cesena il 6 giugno 1977 (R.O.363/77),il 16 giugno 1977 (R.O. 492/77), il 6 ottobre 1977 (R.O. 530/77), il 2 ottobre 1978 (R.O.958/79) e il 15 gennaio 1979 (R.O.957/79), dal Pretore di Viadana il 3 aprile 1979 (R.O.544/79)e il 25 ottobre 1979 (R.O. 26/80), dal Pretore di Parma il28 febbraio 1980 (R.O. 273/80), dal Tribunale di Como il10 marzo 1980 (R.O. 515/80) e il 18 marzo 1981 (R.O.399/81), dal Pretore di Saronno il 23 maggio 1980 (R.O.518/80), dal Pretore di Milano il 31 gennaio 1980 (R.O.349/80), dal Pretore di Padova il 22 luglio 1980 (R.O. 733/80), dal Pretore di Legnano il 27 novembre 1980 (R.O. 43/81), dal Pretore di Lecce il 20 ottobre 1980 (R.O. 180/81), il 6 novembre 1980 (R.O. 89/81) e il 30 gennaio 1981 (R.O.539/81), dal Pretore di Ferrara il 19 gennaio 1981 (R.O.152/81), dal Pretore di Pergine Valsugana il 2 aprile 1981 (R.O. 479/81), dal Tribunale di Venezia l'8 maggio 1981 (R.O. 494/81), dal Pretore di Castelfranco Veneto il 29 maggio 1981 (R.O. 529/81) e dal Pretore di Mestre il 18 giugno 1981 (R.O. 586/81), tutte in procedimenti penali a carico di imputati della contravvenzione di cui all'art. 688 c.p., denunciano l'illegittimità costituzionale di tale disposizione per contrasto con gli artt. 3 e 32 della Costituzione (in una di esse - Tribunale di Venezia, R.O. 494/81 - si fa riferimento, ma senza alcuna motivazione, anche all'art. 27 della Costituzione).
Nella sostanza, le ragioni di incostituzionalità coincidono(pur nella maggiore o minore sommarietà delle motivazioni)con quelle ampiamente illustrate dal Pretore di Brescia nell'ordinanza sub 1 e dal Pretore di Città di Castello nelle ordinanze sub 2.
Nei giudizi di cui a R.O. 363/77, 530/77, 275/80, 349/80 e 518/80 ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, la quale - riportandosi alle deduzioni svolte nel giudizio sub 1 - ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.
Considerato in diritto
1. - Le venticinque ordinanze in epigrafe sottopongono alla Corte questioni di legittimità costituzionale sostanzialmente identiche; pertanto, i relativi giudizi vengono riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - Oggetto di censura é sempre e soltanto l'art. 688 c.p., che sotto il nomen juris di ubriachezza - reato contravvenzionale addebitato a tutti gli imputati dei procedimenti a quibus - incrimina il comportamento di "chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, é colto in stato di manifesta ubriachezza", prevedendo alternativamente come pena l'arresto fino a sei mesi o l'ammenda (in una misura via aggiornata rispetto all'originaria statuizione da lire cento a duemila) e pene maggiori per le ipotesi aggravate, rispettivamente descritte nel secondo e nel terzo comma.
Anche se i dispositivi delle ordinanze indicano globalmente l'art. 688 c.p., le motivazioni addotte mostrano chiaramente che le statuizioni di cui al secondo e al terzo comma non risultano mai prese in autonoma considerazione, tanto é vero che la loro illegittimità costituzionale viene prospettata solo implicitamente come corollario dell'eventuale illegittimità del primo comma, nel senso che la declaratoria di incostituzionalità della fattispecie base non potrebbe non travolgere le fattispecie aggravate.
A loro volta, i parametri di riferimento costituzionale, pur variamente individuati, ora in relazione al solo art. 3, ora(e più spesso) in relazione agli artt. 3 e 32, ora in relazione agli artt. 3, 32 e 27, secondo comma, della Costituzione, sono richiamati in termini tali da confermare incontestabilmente che i dubbi di legittimità coinvolgono alla radice il fenomeno rappresentato dal persistere nel nostro ordinamento della cosiddetta criminalizzazione dell'ubriachezza, a prescindere da questa o da quella modalità di siffatta criminalizzazione.
Soprattutto il riferimento all'art. 3 Cost., l'unico che si ritrova in tutte le ordinanze, nessuna esclusa, consente di ricostruire con puntualità le origini e, quindi, gli obiettivi della presente questione. il raffronto comparativo, che ha condotto i giudici a quibus ad eccepire tanto insistentemente la violazione dell'art. 3, viene sempre ed immediatamente operato alla stregua della legge 22 dicembre 1975, n. 685 ("Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza"), come sistematicamente dimostrano le motivazioni e talora persino i dispositivi, attraverso l'esplicito richiamo a specifiche disposizioni di tale legge, quali gli artt. 80, 96 e 108. Quest'ultimo, in particolare, per il fatto di aver abrogato espressamente, fra l'altro, l'art. 729 c.p., che, sotto il nomen juris di "abuso di sostanze stupefacenti", incriminava "chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, o in circoli privati di qualunque specie, é colto in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti", prevedendo una pena esattamente corrispondente a quella di cui all'art. 688, primo comma, c.p., fornisce la più immediata e diretta riprova che alla questione di legittimità costituzionale si é giunti partendo non tanto da ragioni intrinseche all'art. 688 c.p. (come tali, esse sarebbero già state presenti da tempo), quanto dall'intervenuta "nuova" metodologia preventiva adottata dal legislatore in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope.
3. - Ciò premesso, diventa agevole sintetizzare l'iter argomentativo su cui poggiano, sia pur con non sempre pari approfondimento analitico, le molteplici ordinanze in esame. Una volta esclusa la punibilità di chi viene "colto in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti" sinanche in luogo pubblico o aperto al pubblico, non si ritiene ragionevole continuare a perseguire penalmente chi viene "colto in stato di manifesta ubriachezza" in luogo pubblico o aperto al pubblico, trattandosi di situazioni oggettivamente non dissimili, dal momento che l'alcool é sostanza capace di determinare effetti psico-fisici assimilabili a quelli prodotti da buona parte delle sostanze stupefacenti. Altre, e non la sanzione penale, dovrebbero essere - secondo i giudici a quibus - le risposte razionali dell'ordinamento all'abuso di alcoolici, se é vero che la legge n. 685 del 1975, nei confronti di "chiunque sia colto in stato di intossicazione acuta, derivante dal presumibile uso di sostanze stupefacenti o psicotrope", obbliga gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria a disporne l'accompagnamento al presidio sanitario più vicino così capovolgendo l'impostazione precedente, che contemplava(come ancora contempla per l'ubriachezza) l'arresto in flagranza ai sensi dell'art. 236, quinto comma, c.p.p.. In altre parole, la normativa vigente opportunamente si preoccupa della salute di chi viene colto in stato di intossicazione acuta da sostanze stupefacenti, mentre non si preoccupa della salute di chi viene colto in stato di manifesta ubriachezza. Da qui la deduzione di un contrasto costituzionale non solo con l'art. 3, ma anche con l'art. 32 (pure l'alcoolista ha bisogno di essere curato) e con l'art. 27, secondo - rectius, terzo - comma (il carcere aggrava la situazione psicofisica del soggetto dedito all'alcool e, comunque, non tende alla di lui rieducazione, perseguibile unicamente per altre vie).
4. - Le ordinanze di rimessione hanno indubbiamente il merito di sottolineare i gravi pericoli insiti nell'abuso dell'alcool, vera e propria malattia sociale dato l'elevatissimo numero di soggetti che si trovano in condizioni di intossicazione alcoolica, anch'essa, non meno della tossicodipendenza, fonte di comportamenti criminosi (v. la sentenza di questa Corte n. 126 del 1972) e di attentati alla salute. La comminatoria di una sanzione penale per chi eccede nel consumo di alcoolici così da "manifestarsi" ubriaco in luogo pubblico o aperto al pubblico non é certamente strumento idoneo a fronteggiare nella loro complessità i problemi psicologici e sociali sottostanti all'alcoolismo. Sono auspicabili tipi di approccio capaci sia di mettere freni oggettivamente più incisivi alla diffusione sregolata dell'alcool, sia di contrapporre antidoti soggettivamente più efficaci all'abuso di esso, operando tanto sotto il profilo della prevenzione quanto sotto il profilo della cura.
Senza dubbio la disciplina introdotta dalla legge n. 685 del 1975 in materia di stupefacenti e di sostanze psicotrope, nonostante i limiti e le carenze ben presto emersi per ragioni di vario ordine in fase di applicazione concreta, segna, quanto a novità di impostazione, una svolta da cui non é ormai dato di prescindere in vista di una migliore regolamentazione di materie analoghe, tanto più che, come si avrà occasione di precisare più avanti, nella stessa legge n. 685 del 1975 non manca un espresso specifico riferimento alla prevenzione e cura dell'alcoolismo (art. 90, quarto comma).
Un discorso del genere riguarda sicuramente il legislatore ordinario, le sue scelte di fondo, i suoi programmi a più o meno lunga scadenza (né mancano recenti proposte di legge in proposito). Si tratta, però, di stabilire se tale discorso porti anche ad inficiare la legittimità costituzionale dell'art.688 c.p. secondo le prospettazioni dei giudici a quibus.
5. - Ad avviso di questa Corte, la risposta non può essere negativa, donde la non fondatezza della questione dedotta.
Ciò vale, anzitutto, per quanto riguarda l'art. 3 della Costituzione. Anche a voler ammettere che vi sia coincidenza di finalità e di strutturazione fra le due fattispecie contravvenzionali rispettivamente contemplate dagli artt. 688 e 729 c.p.(in verità, la prima, che fa parte del capo dedicato alle contravvenzioni concernenti la polizia di sicurezza e, più in particolare, della sezione dedicata alle contravvenzioni concernenti la prevenzione di talune specie di reati, limita la sua sfera di applicazione, imperniata sul fatto di chi é colto in stato di "manifesta" ubriachezza, ai luoghi pubblici o aperti al pubblico, mentre la seconda, che faceva parte del capo dedicato alle contravvenzioni concernenti la polizia amministrativa sociale e, più in particolare, della sezione dedicata alle contravvenzioni concernenti la polizia sanitaria, estendeva la sua sfera di applicazione, imperniata sul fatto di chi era colto "in stato di grave alte razione psichica per abuso di sostanze stupefacenti", ai circoli privati di qualunque specie) ed anche a tenere nel debito conto l'equiparazione che, in tema di imputabilità, gli artt. 91 - 95 c.p. conservano inalterata così fra l'agire in stato di ubriachezza e l'agire sotto l'influenza di sostanze stupefacenti, come fra l'agire in stato di cronica intossicazione da alcool e l'agire in stato di cronica intossicazione da sostanze stupefacenti, sarebbe troppo semplicistico far risalire alla sopravvivenza dell'art. 688 c.p. rispetto all'art. 729 c.p. l'irrazionalità del discrimine ravvisabile fra il trattamento riservato all'assuntore di alcool e il trattamento riservato all'assuntore di sostanze stupefacenti. Quasi che, eliminando dall'ordinamento l'art. 688 c.p., tale discrimine venisse meno o, comunque, il trattamento dell'alcoolizzato recuperasse razionalità.
Isolare l'art. 688 c.p. dal contesto del trattamento attualmente dedicato all'uso ed abuso dell'alcool per poterlo contrapporre sic et simpliciter all'abrogazione dell'art. 729 c.p. significa, in primo luogo, trascurare che la disciplina dell'alcool, allo stesso modo della disciplina delle sostanze stupefacenti, risulta da una serie di prescrizioni legislative, operanti su diversi piani, con la conseguenza che l'art. 688 c.p., così come in passato l'art. 729 c.p., rappresenta soltanto uno degli elementi, e neppure fra i principali, che danno vita ad una regolamentazione ben più complessa: regolamentazione da valutare nel suo insieme e sempre nel suo insieme da confrontare con la regolamentazione riguardante una materia analoga, allorché si intenda discutere il problema del razionale o irrazionale discrimine esistente fra l'una e l'altra materia.
Certamente, se, per tutto il resto, la disciplina dell'alcool e la disciplina delle sostanze stupefacenti o psicotrope coincidessero, il persistere dell'art. 688 c.p. in ordine all'ubriachezza, a fronte dell'abrogazione dell'art. 729 c.p. in ordine all'abuso di sostanze stupefacenti, stenterebbe a trovare una sua giustificazione in riferimento all'art. 3 Cost. Ma la verità é che, nonostante la simiglianza riscontrabile fra l'art. 688 e l'art. 729 c.p., le differenze fra le due discipline a confronto sono state sempre notevoli anche prima della legge n. 685 del 1975, con tendenza via via a crescere. La produzione, il commercio, la detenzione e l'uso degli alcoolici hanno costantemente fruito di un atteggiamento legislativo ispirato - per una serie di ragioni storiche, economiche, culturali, il cui approfondimento esula dalla presente sede - ad una larga tolleranza, con limitazioni di ordine essenzialmente amministrativo o, tutt'al più, contravvenzionale, anche perché, in ordine all'alcool, viene in rilievo dal punto di vista penale soltanto un uso che determini ubriachezza.
Viceversa, la produzione, il commercio, la detenzione e l'uso delle sostanze stupefacenti hanno sistematicamente sperimentato un atteggiamento legislativo rigoroso, estrinsecatosi nella previsione di figure delittuose anche gravi (prima gli artt. 446 e 447 c.p., poi l'art. 6 legge 22 ottobre 1954, n. 1041).Un aspetto, più di ogni altro, evidenzia l'entità delle differenze riscontrabili anteriormente alla legge n. 685 del 1975: mentre la detenzione di alcoolici per qualsiasi uso diverso dalla vendita non é mai assurta al rango di comportamento penalmente rilevante, la detenzione di una qualsiasi quantità di droga, anche se minima e per uso proprio, era punita dall'art. 6 legge n. 1041 del 1954 con la reclusione da tre ad otto anni e la multa, allo stesso modo della vendita, importazione, esportazione senza autorizzazione. Il fatto che l'art. 80 legge n. 685 del 1975 abbia reso non punibile, oltre alla detenzione per uso personale terapeutico di quantità di stupefacente non eccedenti in modo apprezzabile le necessità della cura, la detenzione per uso personale non terapeutico di quantità modiche (fermo, peraltro, l'obbligo di sequestro e di confisca), pur costituendo un'importante innovazione della relativa disciplina, non riveste particolare significato in ordine alla disciplina degli alcoolici, che continua a non prevedere la incriminazione di chi ne detenga per uso personale quantità anche non modiche. Piuttosto, a rivestire significato ai presenti fini, in quanto ulteriormente accentua il persistere di una delle più rimarchevoli differenziazioni da tempo esistenti fra le due regolamentazioni, é l'art. 71, primo comma, legge n. 685 del 1975, che ha elevato (da 3 a 4 anni nel minimo e da 8 a 15 nel massimo, per non parlare dell'incremento della multa) le pene comminabili a chi detiene illecitamente sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché a chi, senza autorizzazione, le produce, fabbrica, estrae, vende, procura, importa, esporta, etc.
D'altra parte, l'abrogazione dell'art. 729 non si pone affatto come un punto di partenza della nuova disciplina in materia di stupefacenti, ma come un suo corollario, anzi come un corollario finale, e, quindi, globale, tanto da trovar posto nell'art. 108 che, sotto la rubrica "Norma finale", chiude il testo della legge n. 685 del 1975. Ed é soprattutto un corollario di quell'articolato sistema di interventi diretti al recupero del tossicodipendente da stupefacente che rappresentano il fulcro della nuova strategia, volta a privilegiare la prevenzione e la cura rispetto alla repressione, già incondizionato paradigma ispiratore della legge n. 1041 del 1954, anch'essa espressamente abrogata, eccettuato il solo art. 1, dall'art. 108 legge n. 685 del 1975.
Sono interventi di recupero che fanno leva sull'istituzione dei centri previsti dall'art. 90 della nuova legge, interventi attivabili in vari modi dagli esercenti la professione medica, dai magistrati e dagli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, i quali ultimi hanno, fra l'altro, "l'obbligo di accompagnare al presidio sanitario più vicino chiunque sia colto in stato di intossicazione acuta, derivante dal presumibile uso di sostanze stupefacenti o psicotrope" (art. 96, quarto comma), obbligo chiaramente sostitutivo della precedente facoltà di arrestare chi fosse colto nella flagranza della contravvenzione preveduta dall'art. 729 c.p. (art. 236, quarto comma, c.p.p.): una sostituzione che sottintende il venir meno della contravvenzione stessa, come riflesso della nuova metodologia di approccio curativo.
L'esistenza di tante differenze - alcune risalenti addietro ed altre di recente data, alcune acuite ed altre attenuate ma non scomparse - fra le discipline concernenti rispettivamente gli alcoolici e le sostanze stupefacenti, dimostra che non si può far leva sulla differenza ora determinatasi con l'abrogazione dell'art. 729 c.p. per ricavarne l'irragionevolezza della sopravvivenza dell'art. 688 c.p.. Tale differenza di trattamento trova la sua giustificazione in rapporto all'art. 3 Cost. nella somma delle altre particolarità, per giunta aumentate di numero, che contrassegnano la disciplina in materia di alcoolici rispetto alla disciplina in materia di sostanze stupefacenti.
A riprova della non fondatezza della questione prospettata con riferimento al parametro del principio di eguaglianza, non va sottaciuta l'incongruenza alla quale darebbe luogo proprio l'accoglimento dell'eccezione: una volta estromesso dall'ordinamento l'art. 688 c.p., la discriminazione di trattamento fra l'assuntore di alcool e l'assuntore di sostanze stupefacenti, lungi dall'essere superata, risulterebbe accresciuta, con un assoluto squilibrio fra le due discipline, la prima delle quali vedrebbe cadere l'unica ipotesi di reato collegata all'abuso di alcool, nonché la possibilità dell'arresto in flagranza ai sensi dell'art. 236, quarto comma, c.p.p., senza che a riempire tale vuoto subentrino né la punibilità per detenzione di quantità non modiche, né l'accompagnamento da parte della polizia al presidio sanitario più vicino per le persone colte in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o in luogo aperto al pubblico, né alcuna delle altre forme di segnalazione o di intervento "obbligato" da parte di chi esercita la professione medica o da parte del magistrato. La declaratoria di illegittimità dell'art. 688 c.p. non comporterebbe, infatti, l'estensione automatica di nessuna delle norme che, innovando sensibilmente la disciplina in materia di stupefacenti, hanno dato luogo alla svolta dalla quale é scaturita l'abrogazione dell'art. 729 c.p.. Queste stesse considerazioni permettono di escludere che, allo stato, la presenza dell'art. 688 c.p. contrasti con l'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'irragionevolezza intrinseca della disciplina in materia di ubriachezza.
6. - Analogamente si deve concludere per quanto riguarda il dubbio sulla legittimità costituzionale dell'art.688 c.p. espresso con riferimento all'art. 32 Cost.
Anche a questo proposito vi sarebbe da osservare che non basta eliminare dall'ordinamento l'art. 688 c.p. perché ne risulti automaticamente protetta la salute di chi abusa dell'alcool. Il diritto del singolo e l'interesse della collettività alla salute individuale abbisognano, per un'effettiva tutela, di interventi appositamente preordinati, non essendo sufficiente una operazione normativa che si limiti a sancire la completa irrilevanza penale di fatti sintomo di malattia e, quindi, a rendere totalmente indifferente per l'ordinamento sia quei fatti sia quella malattia. L'auspicare per l'alcoolista terapie adeguate da realizzare nell'ambito di strutture particolari, con la partecipazione di operatori variamente specializzati, é un'indicazione senz'altro degna di apprezzamento, ma non certamente realizzabile attraverso la declaratoria di illegittimità dell'articolo 688 c.p.
Né può condividersi l'affermazione secondo cui la penalizzazione dell'ubriachezza rappresenterebbe il residuo di una concezione autoritaria tendente a colpire il "diverso" e divenuta, pertanto, incompatibile con l'ottica solidaristica che ispirala Carta costituzionale. Come chiaramente risulta dal suo primo comma, l'art. 688 c.p. "colpisce" il fatto puro e semplice di chi si lascia cogliere pubblicamente in stato di manifesta ubriachezza, magari per un episodio sporadico, del tutto occasionale, non fonte di "diversità".
7. - Anche sotto il profilo dell'art. 27, secondo comma, Cost. la questione é da ritenersi non fondata.
Due i motivi addotti nelle ordinanze di rinvio del Pretore di Città di Castello e del Tribunale di Venezia: data la natura del soggetto (persona dedita all'alcool) cui viene applicata la pena, questa si traduce in un trattamento contrario al senso di umanità; sempre in considerazione della particolare natura del soggetto sottoposto a pena, quest'ultima non é in grado di tendere alla rieducazione del condannato, ché anzi si corre il rischio di vederne aggravata la situazione psico-fisica.
Entrambi i motivi partono dall'erroneo presupposto che l'art. 688 c.p. integri un reato configurabile, per definizione, nei soli riguardi di persone "dedite" all'alcool, e non anche nei confronti di persone solo occasionalmente in stato di ubriachezza. In più, il primo motivo travisa il significato di quella parte del dettato costituzionale che vieta trattamenti contrari al senso di umanità: il trattamento non contrario al senso di umanità deve caratterizzare oggettivamente il contenuto del singolo tipo di pena, indipendentemente dal tipo di reato per cui un certo tipo di pena viene specificamente comminato.
Quanto al secondo motivo, é fuor di dubbio che occorre tendere alla rieducazione del condannato, al qual proposito non si può fare a meno di prendere in considerazione la personalità del singolo, tanto che l'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354) vuole che sia dato largo spazio al trattamento individualizzato proprio per agevolare la rieducazione dei condannati. Ma, a tal fine, ciò che rileva non é tanto il tipo di pena previsto quanto il trattamento penitenziario che ne concreta l'esecuzione.
Del resto, per le stesse persone dedite all'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti il problema della pena si pone quasi sempre in termini ancor più gravi di quanto non accada per i condannati ai sensi dell'art. 688 c.p.: anche se é stata resa non più punibile l'ipotesi di uso susseguente alla detenzione di una quantità modica di droga, numerose sono le persone tossicodipendenti assoggettate a condanna penale ai sensi dell'art. 71 legge n. 685 del 1975 o per detenzione di quantità non modiche ai fini di uso personale o per traffico spicciolo di droga (cosiddetti spacciatori - consumatori). Nonostante il grado di intensità che quasi sempre la tossicodipendenza e, quindi, la malattia raggiungono in casi del genere, la pena detentiva e la pena pecuniaria vi trovano congiunta applicazione. Né manca un opportuno accorgimento curativo: lo ha introdotto l'art. 84, primo comma, legge n. 685 del 1975, con il disporre che chiunque, trovandosi in stato di espiazione di pena, "sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope, ha diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza sanitaria a scopo di riabilitazione". La disposizione si fa, ovviamente, carico anche - se non soprattutto - di quanti siano incorsi nella condanna penale per fatti di tossicodipendenza da stupefacenti. Ebbene, per essi l'esecuzione della pena non viene pretermessa, bensì ribadita.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 688 c.p., sollevate dalle ordinanze in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 32 e 27, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 1982.
Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Brunetto - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Antonio LA PERGOLA - MACCARONE - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 27 maggio 1982.